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Full text of "Il Culto Del Littorio"

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Gentile 

Il eulto del littorio 


Editori Laterza 








Economicà 


CL 20-6323-9 


Un viaggio aH’interno deH’universo 
simbolico del fascismo, 
fra i miti, i riti e i monumenti 
di un movimento politico che ebbe 
l’ambizione di imprimere 
nelle coscienze di milioni 
di italiani e italiane 
la fede nei dogmi 
di una nuova religione. 


JLLIBRACCm 

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Emilio Gentile insegna 
Storia contemporanea 
all’Università di Roma 
La Sapienza. Tra le sue opere 
più recenti: La Grande Italia. 

Ascesa e declino del mito della nazione 
nelXXsecolo (n.e., Milano 1999), 
Fascismo e antifascismo. Ipartiti italiani 
fra le due guerre (Firenze 2000), La via 
italiana al totalitarismo (n.e., Roma 
2002T Le origini dell’ideologia fascista 
(n.e., Bologna 2001"), Il totalitarismo 
alla conquista della Camera alta (Soveria 
Mannelli 2002). Per i nostri tipi: L’Italia 
giolittiana. La storia e la critica (1977), 
Storia del partito fascista. 1919-1922. 
Movimento e milizia (1989), Le religioni 
della politica. Fra democrazie 
e totalitarismi (2001), Il mito dello Stato 
nuovo (n.e., 2002’), Fascismo. Storia 
e interpretazione (2003"), Le origini 
dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana 
(2003) e Renzo De Felice. Lo storico 
e il personaggio (2003). 


) (i.i.) 


In copertina: Taro, Cartolina propagandistica (par 
1925 . 
















Delb stesso autore 
in altre nostre collane: 

Fascismo. Storia e interpretazione 
«i Robinson/Letture» 

Il mito dello Stato nuovo 
«Biblioteca Universale Laterza» 

Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925) 

«Biblioteca di Cultura Moderna» 

Le origini dell’Italia contemporanea. 

L’età giolittiana 
«Storia e Società» 

Le religioni della politica. 

Fra democrazie e totalitarismi 
«Storia e Società» 

Storia del partito fascista. 1919-1922. 
Movimento e milizia 
«Storia e Società» 


A cura dello stesso autore 
in altre nostre collane: 


L’Italia giolittiana. La storia e la critica 
«Tempi Nuovi» 


Emilio Gentile 


11 culto del littorio 

La sacralizzazione della poKtìca 
nell’Italia fascista 


Editori Laterza 






© 1993, Gius. Laterza & Figli 

Nella «Economica Laterza» 
Prima edizione 2001 
Seconda edizione 2003 

Edizioni precedenti: 
«Storia e Società» 1993 
«Biblioteca Universale Laterza» 1994 


Proprietà letteraria riservata 
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari 

Finito di stampare nel marzo 2003 

Poligrafico Dehoniano - 

Stabilimento di Bari 

per conto della 

Gius. Laterza & Figli Spa 

CL 20-6323-9 
ISBN 88-420-6323-1 


È vietata la riproduzione, anche 
parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, 
compresa la fotocopia, anche 
ad uso interno o didattico. 
Per la legge italiana la fotocopia è 
lecita solo per uso personale purché 
non danneggi l’autore. Quindi ogni 
fotocopia che eviti l’acquisto 
di un libro è illecita e minaccia 
la sopravvivenza di un modo 
di trasmettere la conoscenza. 
Chi fotocopia un libro, chi mette 
a disposizione i mezzi per fotocopiare, 
chi comunque favorisce questa pratica 
commette un furto e opera 
ai danni della cultura. 


PREMESSA 


[...] quella realtà di fatto che noi cerchiamo, 
è costituita dai modi di pensare, che anch'es¬ 
si sono fatti positivi. 

J. Burckhardt 

La storia di un popolo non s’intende a pieno 
se non si studia anche la sua storia sacra. Ché 
non pochi accadimenti, profani in apparen¬ 
za, e siano pure di natura politica o pretta¬ 
mente economica, rivelano tuttavia, a ben 
guardare, connessioni religiose profonde. 

R. Pettazzoni 






Per due decenni, sotto il governo fascista, le piazze d’Italia, 
dalle grandi città ai piccoli paesi, furono trasformate in un unico, 
immenso scenario dove milioni di persone celebravano, con una 
simultanea coralità, scandita da un ritmo continuo, le feste della 
nazione, gli anniversari del regime, le vittorie della «rivoluzione», 
il culto dei caduti, la glorificazione degli eroi, la consacrazione dei 
simboli, le apparizioni del duce. Molte altre cerimonie, adunate, 
parate, mostre e pellegrinaggi d’occasione moltiplicavano il ciclo 
annuale dei riti di massa del regime fascista. Popolo e paese furo¬ 
no avvolti in una fitta rete di simboli, che abbracciava l’urbanisti¬ 
ca e il paesaggio, le macchine e i monumenti, l’arte e il costume, gli 
abiti e i gesti, imprimendo ovunque e su tutto, dallo stemma dello 
Stato ai tombini di strada, l’emblema del fascio littorio. 

Con questa ricerca, proponiamo al lettore di compiere un 
viaggio all’interno dell’universo simbolico del fascismo, fra i mi¬ 
ti, i riti e i monumenti di un movimento politico che ebbe l’am¬ 
bizione di infondere nelle coscienze di milioni di italiani e italia¬ 
ne la fede nei dogmi di una nuova religione laica che sacralizza¬ 
va lo Stato, assegnandogli una primaria funzione pedagogica con 
lo scopo di trasformare la mentalità, il carattere e il costume de¬ 
gli italiani per generare un «uomo nuovo», credente e pratican¬ 
te nel culto del fascismo. Il fascismo è studiato, in questo saggio, 
come una manifestazione della sacralizzazione della politica. Ab¬ 
biamo cercato di portare alla luce, attraverso esempi significati¬ 
vi, i nessi che legano i vari aspetti della «religione fascista» - il 
mito, la fede, il rito, la comunione - per verificare se e in che mi¬ 
sura ci troviamo di fronte ad un coerente sistema di credenze e 
di riti, che sono gli elementi costitutivi di qualsiasi religione. 

Gli anni fra le due guerre sono il periodo prescelto per la nostra 





vili 


Premessa 


ricerca, che si rivolge principalmente alla fase di formazione e di 
istituzionalizzazione della «religione fascista» come culto collettivo 
mirante al coinvolgimento di tutto il popolo italiano nei miti e nei 
riti del regime. Il principale proposito della nostra ricerca è stato 
quello di individuare e analizzare Torigine, le motivazioni, le forme 
e gli scopi del «culto del littorio» nel periodo di formazione e di pie¬ 
na affermazione, che coincide con l’apogeo del fascismo al potere. 
E la nostra attenzione è stata pertanto rivolta principalmente ai pro¬ 
motori e ai propagatori del «culto del littorio», inquadrandolo nel 
più ampio fenomeno della ricerca di una «religione della patria» 
presente nel corso della storia dell’Italia contemporanea fin dagli 
albori del Risorgimento. Dalla nostra indagine è stato lasciato fuo¬ 
ri il periodo della seconda guerra mondiale. La guerra, per un ver¬ 
so, non introduce significative innovazioni nelle forme del «culto 
del littorio» come era stato istituzionalizzato negli anni precedenti; 
per un altro verso, invece, con le dimensioni immani ed impreviste 
che essa assume e con la disfatta militare e il croUo del regime fa¬ 
scista, crea una situazione nuova non solo per quanto riguarda l’at¬ 
teggiamento della popolazione in generale e dei fascisti stessi verso 
il «culto del littorio», ma soprattutto perché sposta il problema del¬ 
la «religione fascista» dall’ambito nazionale, su una dimensione eu¬ 
ropea e mondiale, nel quadro di un conflitto che fascisti e antifa¬ 
scisti interpretarono sempre più radicalmente come «guerra di re¬ 
ligione» cui si ricollega anche l’esperienza fascista della Repubbli¬ 
ca sociale. Il problema della «religione fascista» nel periodo della 
guerra e della Repubblica sociale, pur con tutti i nessi che la legano 
all’esperienza del regime, presenta una specificità e una comples¬ 
sità tali da costituire materia per una trattazione autonoma. 

Una precisazione di metodo e di stile ci sembra necessaria. 
Muovendosi fra i miti, i riti e i simboli di una religione politica 
che ha rivelato tutta la sua fragilità, si può essere tentati di rap¬ 
presentare tale materia sotto l’aspetto caricaturale e moralistico, 
fustigando il passato che non piace con la derisione e il sarcasmo, 
che sono sovente surrogati di una ironia senza intelligenza stori¬ 
ca. Fra gli atteggiamenti verso la storia che giudichiamo deplo¬ 
revoli, questo ci sembra il più deplorevole, forse perché è il più 
facile e il più infantile. Per la nostra indagine, abbiamo seguito il 
consiglio di un saggio antropologo: 


Premessa 


IX 


Uno dei principali problemi metodologici quando si scrive scienti¬ 
ficamente della religione è di mettere subito da parte il tono sufficien¬ 
te dell’ateo del villaggio e quello del predicatore del villaggio, come pu¬ 
re i loro equivalenti più sofisticati, così che possano emergere in una lu¬ 
ce chiara e neutrale le implicazioni sociali e psicologiche delle partico¬ 
lari credenze religiose. E quando si è fatto questo, le questioni genera¬ 
li se la religione sia «buona» o «cattiva», «funzionale» o «disfunziona¬ 
le», «rafforzatrice dell’ego» o «generatrice di ansia» scompaion come 
le chimere che sono, e si resta con valutazioni, giudizi e diagnosi parti¬ 
colari su casi particolari. Naturalmente resta il problema non trascura¬ 
bile, se questa o quella asserzione religiosa sia vera, se questa o quella 
esperienza religiosa sia genuina, o se siano possibili asserzioni religiose 
veridiche e esperienze religiose genuine. Ma non si possono porre si¬ 
mili domande, né tanto meno trovar loro una risposta, entro i limiti che 
la prospettiva scientifica si autoimponeh 

Pensiamo che questo criterio sia valido anche per chi si pro¬ 
ponga di studiare una religione secolare, in una prospettiva sto¬ 
riografica, al solo scopo di ricondurre nel dominio della cono¬ 
scenza razionale un fenomeno che per sua vocazione si era col¬ 
locato ostentatamente nei campo dell’irrazionale, senza essere 
per questo, in realtà, privo della sua propria razionalità storica. 


' C. Geertz, La religione come sistema culturale, in Id., Interpretazione di 
culture, trad. it. di E. Bona, Bologna 1987, pp. 179-180. 





RINGRAZIAMENTI 


Nel corso delle ricerche per questo volume, abbiamo contratto 
numerosi debiti di gratitudine verso istituzioni e persone che hanno 
agevolato il nostro lavoro. Desideriamo ringraziare, in particolare, 
la sovrintendenza e i funzionari dell’Archivio centrale dello Stato, la 
direzione e i funzionari dell’Archivio del Ministero degli Affari este¬ 
ri, della Biblioteca del Dipartimento di Studi politici della Facoltà 
di Scienze politiche dell’Università «La Sapienza», della Biblioteca 
della Camera dei deputati, della Biblioteca di Storia moderna e con¬ 
temporanea, della Fondazione Gentile e dell Istituto Gramsci. 

Ricordiamo, inoltre, per la loro collaborazione, gli amici Philip 
Cannistraro, Patrizia Ferrara, Carlo M. Fiorentino, Claudio Fogu, 
Maria Fraddosio, Marina Giannetto, Leonardo Lisanti, Franco 
Nuti, Cristina Mosillo, Amalia Rossi Merighi, Ettore Tanzarella. 
Un particolare ringraziamento rivolgiamo al colonnello Franco 
Romano e al tenente colonnello dott. Marco Ricotti, capo dell’Uf¬ 
ficio storico del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. 

Gli amici Giuseppe Conti e Niccolò Zapponi, con i loro sug¬ 
gerimenti e consigli, ci hanno consentito di colmare lacune nella 
ricerca e di dare un miglior ordine alla esposizione dei risultati. 
È stato ancora una volta indispensabile, nella ricerca archivisti¬ 
ca, il paziente ed esperto aiuto dell’amico Mario Missori. 

Il maggior debito di gratitudine, per la realizzazione di que¬ 
sto lavoro, è nei confronti del prof. George L. Mosse, che fin dal 
primo abbozzo della ricerca, delineato nel nostro studio su 11 mi¬ 
to dello Stato nuovo (Roma-Bari 1982) e successivamente svilup¬ 
pato in un articolo apparso nel 1990 sul «Journal of Contempo- 
rary History» e su «Storia contemporanea», ci ha esortato a pro¬ 
seguirla, soprattutto nei momenti di incertezza, con il consiglio 
dello storico e l’incoraggiamento dell’amico. 






ABBREVIAZIONI 


ACS 

APC 

DGPS 

MAE 
MI 
MCP 
MRF 
PCM 
PNF, DN 
SPD, CO 
SPD, CR 
SPEP 


Archivio centrale dello Stato 

Istituto Gramsci, Archivio del Partito Comunista d’Italia 
Direzione generale della Pubblica sicurezza, Affari ge¬ 
nerali e riservati 

Ministero degli Affari esteri. Archivio storico 

Ministero dell’Interno 

Ministero della Cultura popolare 

Mostra della rivoluzione fascista 

Presidenza del Consiglio dei ministri 

Partito nazionale fascista. Direttorio nazionale 

Segreteria particolare del Duce, carteggio ordinario 

Segreteria particolare del Duce, carteggio riservato 

Situazione politica ed economica delle provincie 


Introduzione 


ALLA RICERCA DI UNA RELIGIONE CIVILE 
PER LA TERZA ITALIA 


Se i principi risuscitassero le illusioni, desse¬ 
ro vita e spirito ai popoli, e sentimento di se 
stessi; rianimassero con qualche sostanza, 
con qualche realtà gli errori e le immagina¬ 
zioni costitutrici e fondamentali delle nazio¬ 
ni e delle società; se ci restituissero una pa¬ 
tria, se il trionfo, se i concorsi pubblici, i 
giuochi, le feste patriottiche, gli onori rendu- 
ti al merito, ed ai servigi prestati alla patria 
tornassero in usanza, tutte le nazioni certa¬ 
mente acquisterebbero, o piuttosto risorge¬ 
rebbero a vita, e diverrebbero grandi e forti 
e formidabili. 

G. Leopardi 

Lo Stato è come la religione: vale se la gente 
ci crede. 


E. Malatesta 





Con la creazione dello Stato nazionale, la meta più alta che i 
patrioti italiani del Risorgimento si posero fu il rinnovamento ci¬ 
vile e morale degli italiani. Essi volevano trasformare popolazio¬ 
ni politicamente divise dall’epoca della caduta dell’impero ro¬ 
mano, profondamente diverse per storia, tradizioni, culture e 
condizioni sociali, in un popolo di cittadini liberi, educandoli nel¬ 
la fede e nel culto della «religione della patria». Come tutti i mo¬ 
vimenti nazionali dell’epoca romantica, la rivoluzione italiana cir¬ 
confuse di un’aura sacrale l’idea di nazione, elevandola a supre¬ 
ma entità collettiva, alla quale il cittadino doveva dedizione e ob¬ 
bedienza fino al sacrificio della vita. 

La «divinità» della patria era il principio sul quale si era venu¬ 
ta formando, dalla fine del Settecento, la coscienza del nazionali¬ 
smo moderno. La patria, aveva scritto nel 1755 l’abate Coyer, è 

una potenza antica quanto la società, fondata sulla natura e sull’ordi¬ 
ne; una potenza superiore a tutte le potenze ch’ella istituisce nel suo 
seno [...]; una potenza che sottomette alle sue leggi coloro che co¬ 
mandano nel suo nome come quelli che obbediscono. È una divinità 
che accetta doni solo per elargirli, che richiede amore più che rispet¬ 
to, affetto più che timore, che sorride quando fa del bene, e sospira 
quando scaglia la sua folgore.^ 

Da questa idea della patria si sviluppò, specialmente con la ri¬ 
voluzione francese, la concezione dello Stato come educatore del 
popolo nel culto della nazione. Per i patrioti francesi, discepoli di 
Rousseau, non era concepibile uno Stato nazionale senza religio¬ 
ne, perché solo sulla fede religiosa potevano fondarsi l’unità mo¬ 
rale dei cittadini e la dedizione dell’individuo al bene comune. 


^ Dissertations pour ètre lues: la première sur le vieux mot de patrie; la se¬ 
conde sur la nature du peuple, La Haye 1755, pp. 20-21. 





6 


Il culto del littorio 


Lo Stato nazionale, aveva scritto Rousseau, doveva riunire «le 
due teste dell’aquila» - potere politico e potere religioso - isti¬ 
tuendo una propria «religione civile», per «ricondurre tutto all’u¬ 
nità politica, senza cui non ci sarà mai né un governo né uno Sta¬ 
to ben costituito»^. Ed era perciò compito fondamentale dello Sta¬ 
to assurgere a supremo custode della morale e della religione, es¬ 
sere soprattutto Stato educatore con la missione di restaurare l’u¬ 
nità del corpo politico e formare cittadini virtuosi, inculcando nel 
loro animo, con i dogmi della «religione civile», il senso del dove¬ 
re civico e della obbedienza verso lo Stato. Lo Stato educatore 

deve far partecipi le anime del vigore nazionale e dirigere le loro opi¬ 
nioni e i loro gusti fino a infondere in esse il patriottismo per incli¬ 
nazione, per passione, per necessità. Aprendo gli occhi, un bambino 
deve vedere la patria e fino alla morte non deve vedere altro che lei. 
Ogni vero repubblicano succhiò col latte della madre l’amore della 
patria, cioè delle leggi e della libertà. Il suo essere è tutto in quest’a¬ 
more; non vede che la patria; non vive che per essa; appena resta so¬ 
lo è nessuno; appena resta senza patria non è più, e se non è morto è 
peggio che morto.^ 

A tal fine, Rousseau giudicava utile rinnovare l’usanza dei 
Greci e dei Romani, istituendo feste collettive per infondere nel 
popolo il sentimento dell’unità morale e l’amore assoluto della 
patria. 

La sacralizzazione della nazione, avviata in Europa dalla ri¬ 
voluzione francese, pose in una nuova prospettiva i rapporti fra 
politica e religione, conferendo carattere religioso alla politica e 
una missione educatrice allo Stato. Iniziava, in tal modo, un’e¬ 
poca nuova di rivalità e conflitti fra «religione civile» e religione 

^ J.-J. Rousseau, Scritti politici, a cura di M. Garin, 3 voli., Bari 1971, voi. 
II, p. 198. 

^ Id., Considerazioni sul governo di Polonia e sul progetto di riformarlo {ìli 0), 
ivi, voi. Ili, p. 191. Cfr. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, trad. it. di 
L. De Felice, Bologna 1975, pp. 85-87. Sulle origini della sacralizzazione della 
politica nella cultura illuministica e nella rivoluzione francese, cfr. J.L. Talmon, 
Le origini della democrazia totalitaria, trad. it. di M.L. Izzo Agnetti, Bologna 
1967; M. Ozouf, La festa rivoluzionaria (1789-1799), trad. it. di F. Cataldi Villa- 
ri, Bologna 1982; Id., L’homme régénéré, Paris 1989, pp. 116-182; L. Hunt, La 
rivoluzione francese, trad. it. di E.J. Mannucci, Bologna 1989, pp. 27 sgg. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


1 


tradizionale. Questa rivalità comvolse particolarmente il movi¬ 
mento nazionale in Italia, dove la presenza della Chiesa cattolica 
rese più ardua e contrastata la ricerca di una «religione della pa¬ 
tria» su cui fondare l’unità morale della Terza Italia. Il problema 
della religione civile assillò drammaticamente il pensiero dei pa¬ 
trioti italiani fin dall’inizio del Risorgimento, e rimase uno dei 
problemi centrali dello Stato nazionale anche dopo l’unificazio¬ 
ne, influenzando sempre, e in qualche momento anche decisiva¬ 
mente, la storia italiana fino alla seconda guerra mondiale. 


Religioni civili del Risorgimento 

Le tracce della ricerca di una religione civile per la Terza Ita¬ 
lia sono reperibili durante tutto il corso del Risorgimento. Sono 
vari gli elementi che, emersi da questa ricerca, entrarono a far 
parte del patrimonio di miti politico-religiosi della cultura italia¬ 
na, cui attinsero nel corso del tempo anche i successivi tentativi 
di elaborazione di una religione nazionale. Per esempio, alcuni 
elementi si trovano nel settarismo carbonaro e soprattutto nella 
massoneria, che dopo l’unifcazione ebbe parte rilevante nella for¬ 
mazione di una religiosità laica fondata sulla tradizione demo¬ 
cratica risorgimentale e caratterizzata da un militante anticleri¬ 
calismo. Altri elementi, che provenivano direttamente dalla nuo¬ 
va religione della rivoluzione francese, si trovano nel pensiero de¬ 
gli utopisti e riformatori giacobini. Credenti nel mito della rivo¬ 
luzione come rigenerazione morale'^, i giacobini italiani conside¬ 
ravano inscindibile il nesso fra rivoluzione politica, rivoluzione 
sociale e trasformazione religiosa. Questa avrebbe dovuto at¬ 
tuarsi dando vita a una nuova religione laica, con un appropria¬ 
to apparato di feste e di riti atti ad educare i cittadini al senti¬ 
mento della libertà e dell’eguaglianza, al rispetto delle leggi, al¬ 
l’amore del bene comune. Per Filippo Buonarroti questa «reli¬ 
gione pohtica» non era un instrumentum regni, ma «sostanza stes¬ 
sa del nuovo stato da instaurare»^. 

^ Cfr. R. De Felice, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), Roma 1990, 
pp. 92-93. 

5 Cfr. D. Cantimori, Utopisti e riformatori italiani, Firenze 1943, p. 175. 







Il culto del littorio 


Il movimento politico-religioso dei giacobini italiani non eb¬ 
be successo, ma il mito rivoluzionario della politica come rige¬ 
nerazione morale, affidata all’azione pedagogica dello Stato e al 
culto di una religione patriottica^, mise radici nella cultura poli¬ 
tica; più volte lo vedremo riemergere con diverse connotazioni 
ideologiche, nel corso della storia italiana, in altri movimenti ri¬ 
voluzionari, come, per esempio, nel misticismo politico di Maz¬ 
zini, e nel fascismo stesso, che riprese il mito della rigenerazione 
morale, ma ne recise il legame con l’idea di eguaglianza e di li¬ 
bertà, innestandolo nel nuovo mito dello Stato totalitario. 

La ricerca di una religione civile non fu condotta solo nel¬ 
l’ambito della cultura laica o rivoluzionaria. Ci furono anche ten¬ 
tativi da parte di alcuni intellettuali e politici cattolici. Nella vi¬ 
sione di un nuovo cattolicesimo convertito al progresso moder¬ 
no e all’idea nazionale, Gioberti disegnò una religione civile che 
aveva radici nella tradizione cattolica, come sintesi fra universa¬ 
lismo religioso e patriottismo, su cui avrebbe dovuto formarsi la 
coscienza nazionale della Terza Italia, destinata ad esercitare un 
rinnovato primato civile e morale nel mondo delle nazionP. 

Ma i tentativi di conciliare «religione della patria» e religione 
cattolica si infransero, dopo una breve stagione di speranza, con¬ 
tro l’opposizione intransigente della Chiesa al movimento rivo¬ 
luzionario e al nuovo Stato nazionale. Ciò provocò, da una par¬ 
te, un rafforzamento del sentimento di estraneità dei cattolici ver¬ 
so il nuovo Stato e, dall’altra, la radicalizzazione, in senso laico, 
della ricerca di una «religione della patria». Questa trovò, nella 
cultura laica del Risorgimento, la più alta e affascinante espres¬ 
sione con il misticismo politico di Giuseppe Mazzini. 

Per il rivoluzionario genovese, il problema della «religione 
della patria», era l’essenza stessa della rivoluzione nazionale: ri¬ 
voluzione religiosa prima che politica perché mentre la politica 
«afferra gli uomini ove e quali essi sono: definisce le loro ten¬ 
denze e v’attempera gli atti. Solo il pensiero religioso è capace 
di trasformar l’une e gli altri», in quanto esso «è la respirazio¬ 
ne dell’umanità: anima, vita, coscienza e manifestazione ad un 


^ Cfr. Id., Studi di storia, Torino 1959, p. 637. 

^ Cfr. A. AnzUotti, Gioberti, Firenze 1922, in particolare il capitolo IV, La 
religione civile. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


9 


tempo»*. La «Giovine Italia» fu «una novella religione politica»^, 
che concepiva la vita politica come dedizione di tutto l’essere al¬ 
la patria, come apostolato e azione rivoluzionaria consacrata al¬ 
la «religione del martirio» per la resurrezione della «nuova Ita¬ 
lia». Lo Stato nazionale doveva essere la creazione di una rivo¬ 
luzione politica e religiosa, compiuta dagli italiani rigenerati dalla 
«nuova fede» della patria. La Terza Italia, unita in repubblica, 
nell’ideale disegno di Mazzini, si configura come una teocrazia 
democratica, fondata su una concezione mistica e religiosa della 
nazione e sull’unità di fede del popolo. Per Mazzini, infatti, non 
poteva esserci vera unità politica senza unità morale, e non po¬ 
teva darsi unità morale senza fede comune e senza coscienza di 
una missione. Dio e popolo erano i capisaldi di questa teologia 
politica: il dio mazziniano era un «Dio politico»^^; il popolo da 
lui idealizzato era una associazione concepita come comunità mi¬ 
stica di credenti, uniti nel culto della «religione della patria». Al¬ 
la Terza Italia, Mazzini assegnava la missione di preparare l’av¬ 
vento di una umanità di nazioni libere, affratellate in una «ar¬ 
monia universale», che avrebbe avuto il suo centro sacro in Roma, 
culla della civiltà e luogo dove periodicamente la civiltà si rin¬ 
novava. Redenta dall’assolutismo papale e divenuta capitale del¬ 
l’Italia unita, Roma sarebbe stata sede di un concilio delle na¬ 
zioni, che avrebbe fondato la nuova unità religiosa dell’Europa. 


Lo Stato senza anima 

Nel suo misticismo politico, Mazzini aveva sognato 

un’Italia sorta per sagrificio e virtù del suo popolo dal sepolcro, pu¬ 
rificata d’ogni colpa da una espiazione d’oltre a tre secoli, splendida 
d’entusiasmo e di fede, forte della coscienza nelle battaglie combat¬ 
tute e di vittorie conquistate col proprio sangue, com’angelo incoro- 

* G. Mazzini, Fede e avvenire (1835), in Id., Scritti politici, a cura di T. 
Grandi e A. Comba, Torino 1972, p. 452. 

L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, a cura di M. Themelly, Milano 
1961, p. 96. 

F. De Sanctis, La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Ca¬ 
talano, Bari 1953, p. 421. 





10 


Il culto del littorio 


nato d’un doppio battesimo di gloria nel passato e nell’avvenire, ap¬ 
portatore alle Nazioni della buona novella d’un’epoca di Giustizia e 
d’Amore: dell’Italia di Dante, ma senza Impero fuorché quello di Dio, 
senza legge fuorché il Patto dettato dal proprio popolo. 

Perciò, dopo la realizzazione dell’unità attraverso la monar¬ 
chia, Mazzini condannò il nuovo Stato liberale perché non era la 
creazione di un popolo rigenerato dalla nuova fede nella religio¬ 
ne della patria. «Oggi noi rappresentiamo - scriveva con animo 
deluso e sconfitto - paghi o dolenti una menzogna d’Italia», per¬ 
ché neir«organismo inerte d’Italia», manca «l’ahto fecondatore 
di Dio, l’anima della Nazione»^h 

Dall’opposizione del radicalismo mazziniano allo Stato libe¬ 
rale, ebbe origine il mito del Risorgimento come «rivoluzione na¬ 
zionale incompiuta», perché all’unità politica mancava l’unità 
morale di una fede comune. Mazzini fu sconfitto, ma l’eredità del 
suo misticismo politico continuò a mantenersi viva fra i discepo¬ 
li repubblicani. Il suo influsso, inoltre, durò a lungo, diffonden¬ 
dosi come un lievito in ambienti culturali e politici differenti, in 
forme e in modi non sempre evidenti e neppure fedeli al conte¬ 
nuto del messaggio mazziniano: ma in tal modo continuò ad ali¬ 
mentare l’esigenza di una religione civile. Il mito della «rivolu¬ 
zione italiana» come resurrezione spirituale e morale, realizzata 
per iniziativa di popolo e consacrata dal sangue del sacrificio ri- 
generatore dei martiri, caduti per la «religione della patria», di¬ 
venne il tema unificante di quel complesso insieme di movimen¬ 
ti, idee e miti, da noi definito «radicalismo nazionale», che eser¬ 
citò una costante contestazione della Terza Italia monarchica e li¬ 
berale, sempre invocando la prova suprema di una rivoluzione o 
di una guerra da cui far sorgere la «nuova Italia», portatrice di 
una missione di nuova civiltà nel mondo^^. 

Il mazzinianesimo diede un notevole contributo alla sacraliz¬ 
zazione della politica. La sua religione laica ebbe indiretta in¬ 
fluenza, specialmente attraverso la particolare interpretazione di 

Id., lettera a Giuseppe Ferretti del 25 agosto 1871, in Scritti editi ed ine¬ 
diti di Giuseppe Mazzini, voi. XCI {Epistolario, voi. LVIII), Imola 1941, p. 162. 

Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, 
Roma-Bari 19992 pò. 3-30. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


11 


Giovanni Gentile, suUa formazione della teologia politica fasci¬ 
sta. Ma è giusto ricordare che Mazzini manteneva salda l’affer¬ 
mazione del principio della libertà del cittadino e della dignità 
individuale. La 


religione della patria - scriveva - è santissima; ma dove il sentimen¬ 
to della dignità individuale, e la coscienza dei diritti inerenti alla na¬ 
tura d’uomo non la governino - dove il cittadino non si convinca eh e- 
gli deve dar lustro alla patria, non ritrarlo da essa, - è religione, che, 
può far la patria potente, non felice; bella di gloria davanti allo stra¬ 
niero, non libera. 

L’affermazione di principio era netta e inequivocabile, ma rie¬ 
sce difficile immaginare in che modo, in un’ipotetica realizzazio¬ 
ne della teocrazia mazziniana, sarebbe stato possibile conciliare 
la libertà dell’individuo con la dedizione alla patria, con il misti¬ 
cismo politico della comunità nazionale e con l’unità di fede. E 
un problema che il pensiero mazziniano, nella indeterminatezza 
del suo profetismo, lasciava insoluto, ma che riappare dramma¬ 
ticamente ogni volta che si avanza l’esigenza di una religione ci¬ 
vile per una società democratica. 


Come fare gli italiani? 

Certo, l’Italia monarchica era ben altra cosa dalla Terza Italia 
vagheggiata da Mazzini. Nonostante il decisivo apporto dato dal 
mazzinianesimo alla conquista dell’unità, nel nuovo Stato non vi 
era traccia del suo misticismo politico. Tuttavia, anche se non era 
animata dall’afflato religioso di Mazzini, la classe dirigente del¬ 
l’Italia unita non ignorò e non fu insensibile al problema della 
«rehgione della patria». L’esigenza di una religione civile, anzi, 
assillava quanti, di fronte ad una popolazione in larghissima mag¬ 
gioranza rimasta estranea e passiva nel processo di unificazione, 
se non addirittura ostile, ritenevano necessario formare una co¬ 
scienza unitaria collettiva, per rafforzare la nuova Italia nei con- 

G. Mazzini, D’alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà 
in Italia (1832), in Id., Scritti politici, cit., p. 253. 






12 


Il culto del littorio 


fronti della Chiesa ed affermarla, con una propria moderna iden¬ 
tità nazionale, di fronte alle grandi nazioni europee. 

Per Francesco De Sanctis, uno dei più appassionati e inquieti 
interpreti di questa esigenza, la religione, intesa come «forza di 
uscire da sé e sentirsi in un tutto»i-*, era fondamentale per «fare gli 
italiani», per riformare il loro carattere liberandolo dal vecchio 
«uomo di Guicciardini» che badava solo al suo «particolare»: 

La razza italiana - scriveva nel 1869 - non è ancora sanata da que¬ 
sta fiacchezza morale, e non è ancora scomparso dalla sua fronte quel 
marchio che ci ha impresso la storia di doppiezza e di simulazione. 
L’uomo del Guicciardini «vivit, imo in Senatum venit», e lo incontri 
ad ogni passo. E quest’uomo fatale c’impedisce la via, se non abbia¬ 
mo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza. 

L’Italia soffriva per mancanza di civismo, di carattere e di sen¬ 
timento serio della vita, perché non aveva avuto una riforma re¬ 
ligiosa capace di dare agli italiani una coscienza morale: 

E la conseguenza è triste - diceva in una lezione su Mazzini nel 
1874 -: l’Italia rimane ancora qual’era innanzi. Fatta l’unità politica, 
manca l’unità intellettuale e morale fondata sull’unità religiosa. E se 
seguiteremo a trattare la religione come arma politica, senza ristaura- 
re quel sentimento religioso che per me è il sentimento del sacrifizio 
individuale, il dovere uscir da sé e mettersi in comunicazione con gli 
altri pel bene di tutti, avverrà che l’Italia rimarrà oscillante ancora tra 
il paganesimo e l’ipocrisia.^^ 

Compiuta l’unificazione politica, dunque, rimaneva ancora da 
realizzare 1 unità morale e ideale delle masse, perché «l’unità poli¬ 
tica è vana cosa senza la redenzione intellettuale e morale, vana co¬ 
sa è aver formato l’Italia, come disse D’Azeglio, senza gli italiani. 
Questo programma non fu dato a lui, non è dato alla generazione 
contemporanea, rimane affidato alla nuova generazione»^^. Anche 

De Sanctis, La scuola liberale e la scuola democratica, cit., p 391 

^Ud.,L uomo del Guicciardini (1869), in Id., Saggi critici, a cura di L. Rus¬ 
so, 3 voli., Bari 1957, voi. Ili, p. 23. 

Id., La scuola liberale e la scuola democratica cit., pp. 424-425. 

Ivi, p. 449. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


13 


per De Sanctis, il problema della religione civile era fondamenta¬ 
le per il consolidamento morale dell’unità politica. Occorreva in¬ 
segnare agli italiani «la sincerità e l’energia delle convinzioni»^®, 
quali poteva dare solo una religione, ma egli pensava non ad una 
religione dogmatica, bensì ad un «sentimento religioso, che è un 
fondamento importante dell’educazione»^^, ed invocava, per que¬ 
sto, l’ausilio di una scienza attiva, ricongiunta alla vita: 

La scienza dee organizzarmi questa educazione nazionale; dee imi¬ 
tarmi il cattolicesimo, la cui potenza non è il catechismo, ma è l’uo¬ 
mo preso dalle fasce e tenuto stretto in pugno sino alla tomba; dee 
imitarmi quei suoi organismi di granito, su’ quali ella picchia e ripic¬ 
chia da secoli, e ancora invano.^® 

Tuttavia, a differenza di Mazzini, De Sanctis si rendeva reali¬ 
sticamente conto che le «religioni nuove, le riforme religiose non 
si fondano su opinioni improvvisate ma han tanto più forza, 
quanto più sono radicate nella tradizione»^L 

Ma quale nuova religione adottare per «fare gli italiani»? Era 
questo uno dei primi grossi ostacoli che si opponevano, nell’Italia 
unita, alla istituzione di una religione civile. Infatti diverse rispo¬ 
ste al problema sorgono continuamente, accalcandosi e contra¬ 
standosi durante tutto il corso della travagliata esistenza dell’Italia 
liberale. C’era chi proponeva di attingere alla scienza positiva i 
precetti della nuova religione laica; chi auspicava riforme laiche 
del cattolicismo; chi rievocava la religione delle virtù civiche della 
romanità, e chi infine giudicava qualsiasi tipo di religione, laica o 
meno, affare della coscienza privata, mentre alla coscienza pub¬ 
blica del cittadino occorreva un’etica civile ispirata alla ragione, al¬ 
la libertà e alla tolleranza. La tendenza comune tuttavia era volta 
alla formazione di una «religione della patria» che fosse concilia¬ 
bile con i valori di libertà che erano a fondamento del nuovo regi- 

De Sanctis, Giuseppe Farmi (1871), in Id., Saggi critia, voi. Ili, cit., p. 
117. 

L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, Venezia 1928, p. 

311. 

F. De Sanctis, La scienza e la vita (discorso del 16 ottobre 1872), in Id., 
Saggi critici, voi. Ili, cit., p. 161. 

Id., La scuola liberale e la scuola democratica, cit., p. 423. 





14 


Il culto del littorio 


me; una religione civile, dunque, che doveva creare la fede nazio¬ 
nale della collettività, ma senza sacrificare la libertà dell’individuo. 
Al problema di definire i contenuti di una religione civile, si ag¬ 
giungeva il problema di trovare gli strumenti idonei per diffon¬ 
derla fra le masse e renderla «credo» comune degli italiani. Anche 
questo problema costituiva un altro ostacolo. Le vie proposte, in¬ 
fatti, erano anch’esse diverse e contrastanti, continuamente oscil¬ 
lanti fra progetti differenti, che praticamente si risolvevano in ten¬ 
tativi e iniziative che si contrastavano, spesso si arenavano o si di¬ 
sperdevano senza dare risultati duraturi. 

Il problema della nuova religione coincideva col problema del¬ 
l’educazione nazionale delle masse. L’investimento principale del¬ 
l’Italia liberale per la istituzione e la diffusione popolare di una «re¬ 
ligione della patria» venne fatto nella scuola e nell’esercito, i due pi¬ 
lastri del sistema di pedagogia nazionale, sui quali si fondavano le 
speranze per la nazionalizzazione delle masse nella Terza Italia. Do¬ 
po il 1870, i governi liberali accrescono il potere dello Stato sull’e¬ 
ducazione per fare della scuola un mezzo di rafforzamento dell’u¬ 
nità, garantendo però nello stesso tempo la libertà di insegnamen- 
to^^. La scuola doveva essere, nei propositi dei liberali più raziona¬ 
listi e anticlericali, la vera «chiesa dei tempi moderni». L’insegna¬ 
mento obbligatorio della dottrina cattolica nelle scuole, previsto 
dalla legge Casati del 1859, dopo d 1870 venne progressivamente li¬ 
mitato, reso facoltativo o di fatto abolito^L Nel 1877, con l’obbligo 
dell’istruzione primaria dai sei ai nove anni, furono introdotte fra le 
materie d’insegnamento «le prime nozioni dei doveri dell’uomo e 
del cittadino»^'’. Compito dell’istruzione elementare, veniva preci¬ 
sato da una circolare del ministro Coppino, era «formare una po¬ 
polazione, per quanto sia possibile, istruita, ma principalmente one¬ 
sta, operosa, utile alla famiglia e devota alla Patria e al Re»^’. 

L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze 1974, pp. 
13-15. Per un inquadramento complessivo di questi problemi, resta tuttora in¬ 
superato F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 
1951, pp. 179 sgg. Si veda anche G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’U¬ 
nità, Roma-Bari 1981, pp. 66 sgg. 

Cfr. T. Tornasi, L’idea laica nell’Italia contemporanea, Firenze 1971, dd. 

28-29. 

2^' Cfr. D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari 1965 
p. 183. 

Cit. in A. A. Mola, Michele Coppino. Scritti e discorsi. Alba 1978, pp. 555-558. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


15 


Venivano così abbozzati, nella pedagogia scolastica, i tratti di 
una religione civile attorno al patriottismo monarchico, da cui 
emergeva l’immagine del nuovo credente, il «buon cittadino» del¬ 
lo Stato liberale, probo, virtuoso, onesto, amante della famiglia, 
della patria e della monarchia. Anche l’educazione fisica venne 
chiamata a dar la sua collaborazione alla pedagogia nazionale per 
formare il «buon cittadino», rendendolo sano, forte e virilmente 
preparato a difendere la patria. De Sanctis aveva introdotto 1 ob¬ 
bligatorietà dell’educazione fisica nelle scuole perché, disse alla 
Camera il 13 maggio 1878, «se dobbiamo ricuperare il posto do¬ 
vuto alla nostra nazione, stata due volte capo e maestra del mon¬ 
do, dobbiamo procurare che questi esercizi, messi in correlazione 
coi metodi educativi deH’intelletto e della volontà, penetrino nei 
costumi e diventino parte integrante delle nostre feste e delle no¬ 
stre istituzioni nazionali»^*’. In questo campo, anche le associazio¬ 
ni ginniche sorte col proposito di «sostituire nell’animo popolare 
l’idealità della Patria a quella della religione»^^ avrebbero dovuto 
cooperare alla formazione del «buon cittadino» e alla nazionaliz¬ 
zazione delle masse. Queste società si rivolgevano non soltanto al¬ 
la borghesia, ma avevano anche l’intento di coinvolgere il proleta¬ 
riato, educandolo, attraverso la ginnastica, ai valori e agli ideali 
della patria^^. La «Società ginnastica fiorentina», per esempio, sor¬ 
ta nel 1876, si proponeva appunto di «togliere i figli del povero 
dalle piazze e dalle strade e renderli capaci di mostrarsi alla Società 
buoni, educati ed utili al proprio Paese», aiutandoli nello svilup¬ 
po fisico e morale «per infondergli l’energia, il coraggio e la fidu¬ 
cia in se stessi», addestrandoli «in tutti gli esercizi anzi tutto mili¬ 
tari», e «in tutto quello che abbisogna alla vita dell’uomo per di¬ 
venire buon soldato e vero cittadino»^^. 

Atti parlamentari, Camera dei deputati, Documenti, Legislatura XIII, sessio¬ 
ne 1878, n. 48a, p. 2, cit. in G. Bonetta, Corpo e nazione, Milano 1990, pp. 82-83 . 

Discorso del senatore Alvisi, 6 luglio 1888, cit. in M. Battoli, Ginnasti¬ 
ca, pedagogia, educazione fisica e sport nella scuola italiana 1860-1892, voi. II, 
Napoli 1964, p. 335. Per un inquadramento generale del problema dell’edu¬ 
cazione fisica come strumento di pedagogia nazionale nell’Italia liberale, si ve¬ 
dano gli studi di S. Giuntini, Sport, scuola e caserma, Padova 1988, Bonetta, 
Corpo e nazione, cit. e P. Ferrara, L’Italia in palestra, Roma 1992. 

Cfr. Ferrara, L’Italia in palestra, cit., specialmente il cap. III. 

2^ Programma della Società ginnastica fiorentina, 1877, cit. in Ferrara, L’I¬ 
talia in palestra, cit., p. 75. 






16 


Il culto del littorio 


Ma la sede, che alla classe dirigente e a gran parte dell’opi- 
nione pubblica, liberale e monarchica, appariva come la più adat¬ 
ta a realizzare la nazionalizzazione delle masse, unendo l’educa¬ 
zione fisica con la formazione morale, e con l’insegnamento e la 
pratica del culto della patria, era naturalmente l’esercito. In tut¬ 
ti gli Stati moderni, per sua stessa natura, l’esercito era diventa¬ 
to la massima istituzione dedita a rappresentare e custodire la 
«religione della patria», era il principale sacerdote che ne cele¬ 
brava il culto pubblico e ne diffondeva la credenza fra la massa 
dei cittadini chiamati al servizio militare^^’. Per i giovani di leva, 
in gran parte analfabeti o privi di qualsiasi nozione di civismo, 
1 esercito doveva essere «un santuario di generosi sentimenti» do¬ 
ve apprendere «l’amor di patria, l’affetto e la devozione al Re, il 
rispetto alle leggi ed alle autorità», svolgendo così, insieme con 
l’educazione militare, la funzione civile di «diffondere nelle mas¬ 
se il sentimento della nostra unità nazionale». Restituiti alla vita 
civile, i soldati sarebbero diventati apostoli delle «virtù patrie», 
predicando fra le famiglie il culto della nazione e delle istituzio¬ 
ni. In tal modo, l’esercito avrebbe dato il suo contributo a ce¬ 
mentare l’unità nazionale^b 

Questa attività di pedagogia nazionale per creare una reli¬ 
gione civile di massa, non sembra tuttavia, allo stato delle no¬ 
stre conoscenze, aver conseguito risultati corrispondenti alle 
aspettative, anche perché le stesse classi dirigenti non mostra¬ 
vano convincimenti e impegno, costanti e coerenti, per giunge¬ 
re a rendere effettivamente ed efficacemente popolare una reli¬ 
gione civile dello Stato monarchico. La scuola, pur celebrando 
il culto delle virtù patrie e le glorie del Risorgimento, non riu¬ 


Sulla funzione dellesercito, come scuola della nazione e principale 
espressione della «religione della patria», e sulle diverse versioni e interpreta¬ 
zioni dell’idea della «nazione armata» cfr. G. Conti, Il mito della «nazione ar¬ 
mata», in «Storia contemporanea», dicembre 1990, pp. 1149-95. Un ruolo spe¬ 
ciale, nell’arnbito di questa pedagogia nazionalmilitare, veniva attribuito alla 
Società di Tiro a segno, come istituzione popolare che affiancava l’opera edu¬ 
cativa dell esercito. Cfr. S. Giuntini, Al servizio della patria. Il tiro a segno dal¬ 
l’Unità alla «Grande guerra», in «Lancillotto e Nausicaa», dicembre 1987; V. 
Ilari, Storia del servizio militare in Italia, voi. II, La «nazione armata» (1871- 
1918), S.I., 1990, pp. 257-274. 

E. Fanchiotti, Il libro di lettura pel soldato italiano, in «Rivista Militare» 
1886,1, pp. 187-213. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


17 


sci a diffondere fra le masse la fede nella religione della nazio¬ 
ne, della libertà e della democrazia^^ Le società ginniche, spes¬ 
so travagliate da rivalità, rimasero limitate a gruppi non nume¬ 
rosi di frequentatori e non ebbero un attivo sostegno da parte 
dello Stato per svolgere una funzione di pedagogia nazionale di 
massa, e scarsi e inadeguati, rispetto ai fini dichiarati, furono i 
mezzi impiegati e i risultati conseguiti dallo Stato stesso per 
diffondere l’educazione fisica nelle scuole’^. E neppure nell’e¬ 
sercito si riuscì a varare in modo ordinato e sistematico un pia¬ 
no di nazionalizzazione delle reclute e ad applicarlo con suc- 
cesso^"*. Fallì persino l’iniziativa di istituire un «libro di lettura» 
per il soldato «diretto alla educazione del carattere nazionale»: 
una sorta di breviario, contenente informazioni militari, notizie 
di storia patria e nozioni di educazione civica e morale, che do¬ 
veva diventare per il cittadino la bibbia della «religione della pa¬ 
tria». A questo scopo fu bandito un concorso dal ministro del¬ 
la Guerra nel 1885 che però andò a vuoto perché nessuno dei 
testi presentati fu giudicato idoneo^^. 


Liturgie del cordoglio 

I tentativi di istituire una «religione della patria» non rima¬ 
sero confinati alla scuola e all’esercito. Ci furono anche iniziati¬ 
ve per popolarizzare il culto della patria attraverso riti, feste e 
simboli. Lo Stato monarchico ebbe i suoi simboli, i suoi riti, le 
sue feste e manifestazioni celebranti la nazione e le istituzioni, il 
culto degli eroi dell’indipendenza e l’epopea del Risorgimento 


Cfr. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione, cit., p. 184. 

Cfr. Ferrara, L’Italia in palestra, cit., pp. 188-191. 

Brevi cenni sull’educazione nazionale nell’esercito sono in A. Visintin, 
Esercito e società nella pubblicistica militare dell’ultimo Ottocento, in «Rivista 
di storia contemporanea», n. 1, 1987, pp. 31-58; N. Labanca, 1 programmi del¬ 
l’educazione morale del soldato. Per uno studio della pedagogia militare nell’Ita¬ 
lia liberale, in Esercito e città dall’.unità agli anni Trenta, voi. I, Roma 1989, pp. 
521-536. 

Cfr. il testo del bando nel «Giornale militare ufficiale», parte I, 1885. 
Uno dei testi giudicati fra i migliori, anche se non meritevole del premio, fu 
pubblicato dall’autore stesso, maggiore di artiglieria, F. Mariani, Perché e co¬ 
me si fa il soldato. Libro pel soldato italiano, Pavia 1889. 






18 


Il culto del littorio 


nella versione monarchica^^. Il calendario della liturgia civile era 
però molto scarno. L’unica festa nazionale, fino al 1922, fu la fe¬ 
sta dello Statuto e deU’Unità d’Italia, istituita il 3 maggio 1861. 
L’anniversario si celebrava la prima domenica di giugno, con ri¬ 
viste militari in tutte le città sedi di guarnigioni, e con l’illumi¬ 
nazione degli edifici pubblici. A Roma, la ricorrenza era festeg¬ 
giata con la parata militare, con i fuochi d’artificio della tradi¬ 
zionale «girandola» e con una solenne seduta pubblica dell’Ac¬ 
cademia dei Lincei per il conferimento dei premi reali. Il 19 lu¬ 
glio 1895 fu istituita la festa civile del 20 settembre, anniversa¬ 
rio della presa di Roma, ma la sua celebrazione, pretesto sia per 
manifestazioni anticlericali sia specialmente da parte massonica 
sia per manifestazioni clericali di protesta contro lo Stato usur¬ 
patore, divenne occasione di scontri e polemiche sull’eredità ri¬ 
sorgimentale fra monarchici e repubblicani, fra liberali e demo- 
craticP^. 

I propositi di creare una liturgia nazionale di Stato si con¬ 
centrarono naturalmente attorno al culto della monarchia, rap¬ 
presentata come principale protagonista del Risorgimento, e so¬ 
prattutto attorno alla figura di Vittorio Emanuele II, il «padre 
della patria». Il grandioso funerale in occasione della sua morte 
nel 1878 e il pellegrinaggio nazionale al Pantheon nel 1884 per 
onorare la sua tomba, furono le manifestazioni più significative 
del culto monarchico^^. Cerimonie analoghe si svolsero in occa¬ 
sione dei funerali di Umberto I nel 1900, e con il pellegrinaggio 
alla sua tomba nel primo anniversario della morte per rendere 
omaggio al «re martire»^^. Questi riti, nelle intenzioni dei pro¬ 
motori, al di là del significato commemorativo, avevano la fun¬ 
zione di esaltare la monarchia come artefice dell’unità, legitti¬ 
mandone l’autorità, e miravano a suscitare attorno ad essa il con- 


Alcuni importanti aspetti dell’universo simbolico e dei riti della peda¬ 
gogia patriottica nell’Italia unita, dal 1870 al 1900, sono ricostruiti con accu¬ 
ratezza in B. Tobia, Una patria per gli italiani, Roma-Bari 1991, mentre rima¬ 
ne tuttora utile M. Venturoli, La patria di marmo, Pisa 1957. 

Per uno schizzo di storia della festa del 20 settembre, cfr. Le commemo¬ 
razioni nel passato, in «L’Idea nazionale», 20 settembre 1923. 

Cfr. Tobia, Una patria per gli italiani, cit., pp. 100 sgg. 

Cfr. Il 29 luglio 1901. Ricordi ed atti ufficiali del Comitato centrale per la 
commemorazione ed il pellegrinaggio nazionale alla tomba di S.M. Umberto I, 
Roma 1902. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


19 


senso popolare, contribuendo in questo modo a favorire, con for¬ 
me simboliche di intensa suggestione emotiva, la pedagogia na¬ 
zionale di massa. Come scrissero i promotori del pellegrinaggio 
alla tomba di Umberto I, con questo rito «voUe l’Italia dimostrare 
la religione delle sue memorie verso il Re buono e generoso e vol¬ 
le ribadire le catene di amore che la legano alla gloriosa Dinastia 
di Savoia»*”^, celebrando le istituzioni «nella fede allo Statuto, nel 
culto della libertà, nello zelo del bene, nella costante devozione 
aU’Italia»‘^h 

Durante i primi decenni dell’Unità, furono numerose le ce¬ 
rimonie commemorative del Risorgimento, con l’inaugurazione 
di monumenti e ossari dedicati alle guerre di indipendenza, mol¬ 
ti dei quali venivano eretti sui luoghi di battaglia per iniziativa 
di veterani delle guerre del Risorgimento, amministrazioni co¬ 
munali e comitati cittadini. Fra il 1861 e gl’inizi del Novecento 
ne furono edificati una quarantina'^^. La funzione sacerdotale nel 
culto delle memorie risorgimentali fu assolta principalmente dal¬ 
le società dei reduci, i focolai più attivi di una religiosità pa¬ 
triottica'^^. La più solerte fu la Società di Solterino e San Mar¬ 
tino, sorta nel 1869, che, sotto la guida dell’energico senatore 
Luigi Torelli, si fece promotrice di alcune importanti iniziative 
per gettare le fondamenta di un culto della patria e per l’edifi¬ 
cazione di monumenti, come l’Ossario a S. Martino della Bat¬ 
taglia, inaugurato nel 1870, e la Torre dedicata a Vittorio Ema¬ 
nuele II, sorta sullo stesso luogo nel 1893'^'*. Questi monumen¬ 
ti erano concepiti come veri e propri «spazi sacri» dove 
celebrare il culto della nazione, meta di pellegrinaggi per tener 
accesa e propagandare la fede nella «religione della patria». La 
Torre, dichiarava Torelli, doveva diventare «il centro solenne» 


Ivi, p. 88. 

Ivi, p. 108. 

'•2 I monumenti a ricordo delle battaglie per l’Indipendenza e l’Unità d’Ita¬ 
lia, raccolti da V. Cicala, Voghera 1908. Sui monumenti patriottici nell’Italia 
liberale, cfr. Italia moderna. Immagini di un’identità nazionale. Dall’unità al 
nuovo secolo, Milano 1982, pp. 26-38; M. Corgnati, G. Mellini, F. Poli (a cura 
di). Il lauro e il bronzo. La scultura celebrativa in Italia 1800-1900, Torino 1990. 

Uno sguardo generale sulla vicenda storica di queste associazioni è in G. 
Isola, Un luogo d’incontro fra esercito e paese. Le associazioni dei veterani del 
Risorgimento (1861-1911), in Esercito e città cit., pp. 499-519. 

Cfr. Tobia, Una patria per gli italiani, cit., pp. 181 sgg. 





20 


Il culto del littorio 


del patriottismo''^^ ^ dell’ottobre di S. Martino della Bat¬ 

taglia, «la festa patriottica per eccellenza»'*'’. 

Anche se poteva suscitare una larga partecipazione popolare, è 
lecito dubitare sull’efficacia pedagogica di questa liturgia per pro¬ 
pagandare la fede patriottica fra le masse. L’aspetto della celebra¬ 
zione funebre finiva col dare un’impronta di mestizia a questa li¬ 
turgia che si presentava, nei momenti più solenni, come un perpe¬ 
tuo rito del rimpianto, scandito da funerali e pellegrinaggi alle tom¬ 
be, in cui predominava il motivo del dolore, della nostalgia e del 
cordoglio per la perdita del «padre della patria», del «re buono e 
generoso» o di altri padri fondatori dello Stato nazionale come Ca¬ 
vour e Garibaldi. E, per questo, non era certo una liturgia adatta a 
dare una rappresentazione entusiasmante della «religione della 
patria». Mancava, a questi riti funebri, lo spirito vitalistico ed esal¬ 
tante del mito comunitario della rigenerazione e della rinascita at¬ 
traverso il sacrificio della vita, che era invece tipico del culto dei 
martiri, e sarà dominante nel culto dei caduti dopo la Grande 
guerra, e soprattutto nel fascismo. Piuttosto che riti di fede nella 
vita e nel futuro della patria, essi finivano con l’apparire come stra¬ 
zianti manifestazioni di cordoglio di una collettività che si sentiva 
abbandonata dai suoi santi protettori in un’epoca sempre più in¬ 
certa e agitata: erano una manifestazione di debolezza piuttosto 
che una dimostrazione di forza. 


Antagonismo e fragilità dei culti nazionali 

Nonostante i tentativi fatti per istituire e rendere popolare il 
culto della patria, vi sono fondati motivi per credere che, negli 
anni dell’Italia liberale, la diffusione di una religione civile non 
abbia fatto molti progressi. Neanche nel campo del ritualismo i 
risultati appaiono più consistenti. I riti per istituire un culto del¬ 
la patria non mancarono, ma furono, il più delle volte, manife¬ 
stazioni circoscritte, occasionali, discontinue, prive di coordina¬ 
mento, organizzate, come confessavano gh stessi promotori, fra 

Im. festa popolare di S. Martino ed i concorsi ai premi di storia patria, Ro¬ 
ma 1880, p. 20. 

Ivi, p. 8. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


21 


mille difficoltà, fra lo scetticismo e l’indifferenza anche di colo¬ 
ro che avrebbero dovuto sostenerle e incoraggiarle*^. I promo¬ 
tori dovevano lottare spesso «contro l’imbelle folla degli scettici 
e degli infingardi»'"'. La partecipazione ai riti, anche quando mo¬ 
strava lo spettacolo imponente di decine di migliaia di persone, 
non costituiva un valido sostegno allo sviluppo di una vera litur¬ 
gia collettiva: era sempre una folla d’occasione e non una massa 
liturgica. 

Ma c’erano altri, e più profondi motivi, che impedirono a que¬ 
sti tentativi rituali di istituzionalizzare una liturgia nazionale. La 
ricerca della religione civile era ricerca di unità di fede e di cre¬ 
denze nella divinità della nazione. Ma, in realtà, lo stesso mito 
della nazione, invece di suscitare sentimenti di unità, era fonte di 
divisione e di conflitti, perché la Terza Italia aveva ereditato dal 
Risorgimento visioni contrastanti e antagoniste di ciò che avreb¬ 
be dovuto essere la religione civile degli italiani. La «religione 
della patria» professata dalla classe dirigente liberale fu sempre 
contestata dai fedeli di Mazzini e dai democratici a loro volta pro¬ 
motori di un culto della patria che veniva praticato in opposi¬ 
zione alla liturgia monarchica. Con l’avvento della «religione so¬ 
cialista», un nuovo e più agguerrito avversario contese con suc¬ 
cesso alla religione nazionale la conquista delle masse. Ma forse 
i motivi principali della mancata istituzione di una liturgia na¬ 
zionale, da parte della classe dirigente liberale, furono altri: l’as¬ 
senza del supporto organizzativo e dell’entusiasmo di un movi¬ 
mento collettivo, la mancanza di sensibilità democratica per l’a¬ 
zione di massa, la scarsa disponibilità culturale a concepire e ad 
attuare un processo di mobilitazione delle masse attraverso l’uso 
sistematico di riti e simboli. La concezione razionalista e libera¬ 
le della politica, la fondamentale diffidenza per la massa, vista co¬ 
me pericoloso materiale esplosivo carico di energia eversiva, non 
incoraggiavano i dirigenti della Terza Itaha ad un impegno con¬ 
vinto e costante nella costruzione di un culto politico di massa: 
in questo senso, Crispi, forse il più attivo promotore di una li- 

Cfr. Il monumento al re Vittorio Emanuele in San Martino e le tabelle 
commemorative. Relazione ai soci della società di Solferino e San Martino del 
presidente Luigi Torelli, Torino 1887, p. 17. 

Il 29 luglio 1901 cit., p. 5. 





22 


Il culto del littorio 


turgia nazionale fra gli statisti della Terza Italia, fu un’eccezione. 
La visione di piazze colme di foUa, in realtà, evocava immediata¬ 
mente, nella classe dirigente, paurose immagini di rivolta e an¬ 
gosciosi problemi di ordine pubblico, che non favorivano certo 
l’istituzione di periodici riti di massa per celebrare il culto della 
patria e per contribuire ad incrementare, se non proprio ad in¬ 
ventare, una «nuova politica» per nazionalizzare le masse'^^. 

L’esito della ricerca di una «religione della patria», da porre a 
fondamento dello Stato nazionale, può essere emblematicamente 
rappresentato dalla vicenda del monumento a Vittorio Emanuele 
II, il più ambizioso e grandioso progetto architettonico concepito 
dall’Italia liberale per consacrare nel marmo e nel bronzo il culto 
monarchico della «religione della patria». L’idea fu avanzata subi¬ 
to dopo la morte del re, nel 1878, il progetto scelto nel 1885, ma la 
realizzazione richiese oltre mezzo secolo, procedendo a rilento fra 
continue polemiche sul modo di interpretare, simbolizzare e ma¬ 
terializzare nel monumento la «religione della patria», che anche 
in questa esperienza appare solcata dalle lacerazioni fra le contra¬ 
stanti tradizioni della rivoluzione risorgimentale, solo in parte e 
marginalmente sanate dal trascorrere del tempo: 

Il Monumento al Padre della Patria in Roma è destinato a ripetere 
il caso delle grandi cattedrali [...] i lavori si prolungavano di secolo in 
secolo [...] E pressoché tutte incompiute sono arrivate queste grandi 
costruzioni fino ai giorni nostri, e noi pure, da eredi fedeli, vi lavoria¬ 
mo, sebbene, ahimè, l’antica fede sia tanto affievolita negli animi nostri 
[...] Così il Monumento di Roma ha già esercitato a quest’ora due ge¬ 
nerazioni d’artisti, e nessuno può dire quante altre dovranno faticarvi 
intorno neH’awenire [...] la fabbrica tuttavia continua col ritmo di una 
funzione statale, che sembra avere per misura, non il tempo, ma l’eter¬ 
nità [...] Ma noi non vedremo quel che sarà alla fine il Monumento, e 
per i tardi nepoti che lo vedranno, il tempo avrà esercitato l’opera sua 
che fa apparire venerabile e bella ogni rovina. 


SiJ concetto di «nuova politica» cfr. Mosse, La nazionalizzazione delle 
masse, cit., pp. 7-26. Sulla paura della folla, cfr. Chabod, Storia della politica 
estera italiana dal 1870 al 1896, cit., pp. 352 sgg.; Tobia, Una patria per gli ita¬ 
liani, cit., pp. 114-129. Sulla mancata istituzione di una liturgia politica dell’I¬ 
talia liberale, cfr. anche le osservazioni di S. Lanaro, L’Italia nuova, Torino 
1988, pp. 143-155. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


23 


Così scriveva con rassegnata ironia «L’Illustrazione italiana» 
il 4 novembre 192po. In quello stesso giorno, anniversario della 
vittoria italiana nella Grande guerra, il monumento ancora in¬ 
compiuto veniva consacrato al culto della nazione con la solen¬ 
ne cerimonia per la tumulazione del Milite Ignoto sotto 1 Altare 
della Patria. 


La religione dei colti 

Agli inizi del nuovo secolo, mentre la borghesia liberale, pur 
non smettendo la pratica delle celebrazioni patriottiche, che si 
svolsero con grande fasto in occasione del Cinquantenario del¬ 
l’Unità, si converte ad una pratica di governo che non persegue 
ideali religiosi di rigenerazione morale, la ricerca di una religio¬ 
ne civile rimane un problema fortemente sentito da intellettuali 
e politici che coltivavano un alto ideale di nazione, e si propo¬ 
nevano, con spirito giovanile e aggressivo, di formare la coscien¬ 
za dell’Italia moderna. 

L’elaborazione di una nuova religione laica era considerata dal¬ 
l’avanguardia modernistica del primo Novecento una condizione 
necessaria per la rigenerazione culturale e morale degli italiani b II 
problema religioso, per esempio, era al centro delle tormentate me¬ 
ditazioni di quel seminario laico di cultori dello spirito, che fu «La 
Voce» di Giuseppe Prezzolini, lui stesso teorico di una «religione 
dell’irreligione» ovvero, come precisava il pedagogista Giuseppe 
Lombardo Radice, di una «nuova reHgione»^^: una religione del¬ 
l’umanismo integrale, fondata sull’idealismo di Croce e di Gentile, 
che doveva soppiantare, nelle coscienze e nelle istituzioni, la decli- 


Sulle vicende del monumento, cfr. Il Vittoriano. Materiali per una storia, 
2 voli., Roma 1986. , n i r, 

51 Cfr. W.L. Adamson, Fascism and Culture: Avant-Garde and Secular Re- 
ligion in thè Italian Case, in «Journal of Contemporary History», n. 3, 1989, 
pp. 411-435 e Id., Modernism and Fascism. The Politics of Culture in Italy, 1903- 
1922, in «The American Historical Review», aprile 1990, pp. 359-390, dove è 
esaminato in una nuova prospettiva il problema della religione secolare nella 
cultura italiana prima del fascismo. 

52 Lettera di Lombardo Radice a Prezzolini, Catania, 27 maggio 1913, in I. 
Picco, Militanti dell’ideale. Giuseppe Lombardo Radice e Giuseppe Prezzolini. 
Lettere 1908-1938, Locamo 1991, p. 146. 









24 


Il culto del littorio 


nante religione cattolica, e divenire la nuova fede dell’italiano mo¬ 
derno. Il problema della religione civile superava così l’orizzonte 
della questione nazionale per divenire un momento della più gene¬ 
rale crisi spirituale dell’«uomo moderno», sospeso fra il declino 
delle religioni tradizionali e l’angoscioso senso del vuoto, che que¬ 
ste lasciavano, nell’attesa del sorgere di una nuova fede. «Quel che 
ci preoccupa, quello che ci studiamo di riparare, è il presente stato 
di crisi, in cui tramontano i miti e le trascendenze di un tempo, né 
ancora sembrano sorgere altre siffattamente presenti. Noi sentia¬ 
mo vivamente l’esigenza sociale e l’esigenza etica (rispetto a noi 
stessi, all’educato, di non ingannarlo) per la quale non possiamo 
servirci del vecchio mito, e soffriamo che ancora un altro non ci 
sia»^^. La ricerca di una nuova religione secolare trovava in questi 
intellettuali gli adepti più appassionati, sensibili ai tormenti del- 
r«anima moderna» nel suo anelito «ad una nuova concezione uni¬ 
taria che abbia il fascino della fede religiosa»^'^. La maggior parte di 
loro però aspirava a una religione intellettuale, culturalmente ari¬ 
stocratica, e ignorava, o comunque non prendeva in considerazio¬ 
ne, nella sua visione di riforma intellettuale e morale degli italiani, 
la creazione di una liturgia nazionale, con riti e simboli. Preferen¬ 
do la costruzione di biblioteche all’erezione di monumenti, i cer¬ 
catori vociani di una nuova fede avrebbero certamente condiviso 
l’affermazione crociana, che una «nuova religione civile non pote¬ 
va formarsi se non con un nuovo moto di pensiero, segno e stru¬ 
mento insieme di un elevamento degli animi»^^. E, tuttavia, fu nel 
circolo di questi cultori dello spirito e cercatori di nuove fedi che si 
formarono alcuni dei futuri credenti della religione fascista, come 
lo stesso futuro capo di questa religione. 

Mussolini, in quel periodo, si professava ateo militante e pra¬ 
ticava uno sguaiato anticlericalismo, ma frequentava con un cer¬ 
to interesse i problemi della religione, studiava i fenomeni ereti¬ 
cali della riforma, meditava sulla «religione dell’irreligione» di 
Guyau, si esaltava con Nietzsche nella profezia di una trasmuta¬ 
zione di valori per l’avvento di «uomini nuovi» e non esitava a 

G. Prezzolimi, Il problema dell’educazione religiosa, in «La Voce», 28 lu¬ 
glio 1914. 

L’Anonimo, Impazienze moderne, in «La Voce», 13 giugno 1914. 

’’ B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1966, p. 143. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


25 


definire «religiosa» la sua concezione palingenetica del sociali¬ 
smo rivoluzionario. Per Mussolini il socialismo non era solo una 
concezione scientifica, ma doveva essere una cultura integrale, 
per formare la coscienza dell’uomo nuovo attraverso la forza del¬ 
la «fede»: «Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l’u¬ 
manità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne 
perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, 
forse, l’unica realtà della vita»^^. Il futuro duce non attribuiva, 
allora, molta importanza al rituale, considerandolo un aspetto se¬ 
condario della religione, ma usava spesso metafore della tradi¬ 
zione cristiana per definire la sua concezione del partito rivolu¬ 
zionario, come ecclesia di credenti e di militantP^. 


Una luce dall’Oriente 

La ricerca di una religione secolare per realizzare la nazionaliz¬ 
zazione delle masse, coinvolgendole attivamente nel culto della 
patria, e per poter fronteggiare così la mobihtazione politica dei 
socialisti e dei cattolici, all’inizio del Novecento riprendeva vigore 
nel movimento nazionalista, in un progetto che però abbandona¬ 
va definitivamente tutto quel che di liberale e di umanitario era 
nella «religione della patria» della tradizione risorgimentale, per 
avanzare decisamente e lucidamente la proposta di una religione 
politica che assolutizzava il culto della patria come divinità viven¬ 
te. La luce per la nuova fede veniva ai nazionalisti dall’estremo 
Oriente. Enrico Corradini, fondatore del movimento, guardava 
con ammirazione la «religione degli eroi e della natura», come esi¬ 
steva in Giappone. Con il culto degli eroi, dell’imperatore e della 
natura, il popolo giapponese compiva riti di autoadorazione, che 
integravano l’individuo nella collettività e consolidavano una co¬ 
scienza nazionale, capace di sfidare e vincere in guerra il grande 
impero russo. «Il Giappone è il Dio del Giappone. La forza che 
questo popolo attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse 
viscere, gli eroi sono popolo del passato, la natura è la patria: v’è 

Mussolini, Da Guicciardini a... Sarei, in «Avanti!», 18 luglio 1912. 

Sull’ideologia di Mussolini in questi anni, cfr. E. Gentile, Le origini del¬ 
l’ideologia fascista, Roma-Bari 1975, pp. 3-38. 













26 


Il culto del littorio 


un’autoadorazione»^^. Corradini proponeva di istituire una reli¬ 
gione della nazione a forte tinta paganeggiante, imitando la tradi¬ 
zione dei culti nazionali della rivoluzione francese; 

Magnifica è la religione degli eroi e della natura. La rivoluzione 
francese rimise in onore due grandi cose: il valore militare e il culto 
della patria e della natura. Bisogna su questi punti riprendere le tradi¬ 
zioni rivoluzionarie [...] Noi pensiamo ad una religione che ci renda il 
sentimento della natura qual è nella salutazione di Mitra, congiunto al 
culto degli eroi, cioè di quella parte d’umanità che è passata su questa 
terra per creare in alto il regno dell’eterno umano ideale.^^ 

In questa religione, aveva un ruolo fondamentale il culto degli 
eroi, non come generica rimembranza e rimpianto, ma come atti¬ 
va celebrazione della divinità della nazione ed eccitamento alla vi¬ 
ta: «Mercé gli eroi la nazione diventa patria, l’azione diventa reli¬ 
gione. Gli eroi sono l’anima vivente della patria»; essi vivono 

nel profondo del cuore del popolo e nell’alto pensiero dei poeti [...] 
Ogni grande popolo ha sopra la sua terra il suo cielo, la casa dei suoi 
eroi, e più grande è quel popolo che ha più grandi e numerosi eroi 
[...] gli eroi sono coloro i quali ferocissimamente lottando col desti¬ 
no portarono per tutti più avanti i termini del potere umano. E per 
tutti superarono il tempo e la morte.^*^ 

La nuova religione doveva essere il fattore di fusione dell’in¬ 
dividuo con la nazione, come entità collettiva che, di generazio¬ 
ne in generazione, si eterna nel divenire del tempo, traendo la 
sua vitalità dallo spirito degli eroi e dal sangue di coloro che si 
immolano per essa nelle guerre che scandiscono il ritmo dell’a¬ 
scesa verso la grandezza; 

La guerra è la più gigantesca manifestazione di vita che possono 
offrire gli uomini nel mondo. La guerra può, anzi, deve portare un 
culto: il culto degli eroi, il culto delle tradizioni. Una nazione non può 


E. Corradini, Una nazione, in «Il Regno», 19 giugno 1904. 

Id., Scritti e discorsi 1901-1904, a cura di L. Strappini, Torino 1980, pp. 
140-141. 

La nazione gli eroi, in «Il Tricolore», 1° giugno 1909. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


27 


avere aspirazioni di grandezza se non venera il passato e se non esal¬ 
ta la propria forza.^^ 


La consacrazione del sangue 

Pv.r assumere autentica sacralità, dunque, la nazione italiana 
doveva passare attraverso la prova del sacrificio ed essere santi¬ 
ficata dal sangue dei suoi figli. Il simbolo del sangue salvifico pu¬ 
rificatore e santificante, insieme con il mito della violenza rige¬ 
neratrice, entra nella retorica di un nazionalismo che soffre del 
complesso di inferiorità per una tradizione nazionale senza gran¬ 
di guerre e grandi vittorie, ma è anche presente nella tradizione 
del mito rivoluzionario, che non concepisce rivoluzione senza 
violenza purificatrice. Il rapporto fra la violenza e il sacro^^ è pre¬ 
sente nel processo di sacralizzazione della politica sotto forma di 
guerra e di rivoluzione. L’una e l’altra sono eventi catastrofici at¬ 
traverso i quali avviene una rigenerazione dell’uomo e si forma, 
attraverso l’esperienza della lotta e del sacrificio, un «uomo nuo¬ 
vo». Il mito della «rivoluzione italiana», alla vigilia del conflitto 
europeo, era già pervenuto a fondere guerra e rivoluzione nell’i¬ 
dea del «grande evento» palingenetico, che doveva creare final¬ 
mente la «nuova Italia», facendo compiere un altro passo, nel¬ 
l’ambito del mito nazionale, alla sacralizzazione della politica. 

Nella «generazione del 1914» era molto viva l’aspirazione a 
dare un fondamento di religiosità laica alla politica, per realizza¬ 
re una «rivoluzione dello spirito». Stato d’animo, questo, larga¬ 
mente diffuso in Europa alla vigilia della guerra. La stessa «di¬ 
sperazione religiosa contemporanea», in effetti, prendeva «al¬ 
l’occhio del profano l’aspetto d’una rinascita religiosa», col fe¬ 
nomeno tipico delle epoche di transizione, di «increduli che cer¬ 
cano con ogni sforzo di crearsi una religione»*^^. Molti giovani, 
inquieti per mancanza di fede e tormentati dalla sete di miti, e 

La nostra azione, in «Il Tricolore», 16 giugno 1909. 

Su questo rapporto, cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, trad. it. di O. 
Fatica e E. Czerkl, Milano 1980. 

V. Fazio-Allmayer, Disperazione religiosa contemporanea e le basi della 
morale, in «La Voce», 13 agosto 1914, pp. 2-3. 




28 


Il culto del littorio 


dal desiderio di azione e dedizione per una causa, aspettavano da 
una guerra o da una rivoluzione il sorgere di nuove idealità, di 
un nuovo spirito religioso capace di rigenerare, anche con la vio¬ 
lenza, una società ritenuta materialistica e decadente: 

Il contenuto spirituale dei popoli europei è, o almeno era, senza 
dubbio assai scarso. Nessuna delle grandi forze morali dell’umanità par 
che si levi a presidio della causa delle armi, ed elevi il tono della lotta. 
L’antica religione, che tante forze ideali ha suscitato nella sua storia mil¬ 
lenaria, è scomparsa dagli animi, senza che una nuova, o almeno uno 
spirito nuovo nell’antica, abbia ancora potuto sostituirla o vivificarla.^ 

Alla vigilia della guerra era dominante, nei movimenti più le¬ 
gati al mito della guerra rigeneratrice, la percezione della crisi 
epocale di una società prossima ormai al momento risolutivo, al¬ 
la vigilia di uno di quegli eventi catastrofici che precedono e pre¬ 
parano le grandi trasmutazioni di valori, e il sorgere di nuove for¬ 
me di spiritualità, di religione, di civiltà. 

Molti giovani parteciparono alla Grande guerra spinti dal desi¬ 
derio, come scrisse Carlo Rosselli, di «immolarsi anima e corpo ad 
una causa - quale che fosse - purché capace di trascendere i me¬ 
schini motivi della vita d’ogni giorno»^^. La guerra suscitò effettiva¬ 
mente quello «stato d’effervescenza collettivo», preludio al sorgere 
di nuove forme di religiosità^’^’. La guerra stessa fu percepita come 
una ierofania tragica: «ognuno agisce come se tutti assieme si fosse 
ispirati di terrore sacro. Si sente ch’è vicino Dio sul campo di batta¬ 
glia», scriveva Scipio Slataper nel suo diario il 23 novembre 1915^^. 


^ G. De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra, in «Revue de Méthaphi- 
sique et de Morale», settembre 1916, riportato in Id., Scritti politici 1912-1926, 
a cura di R. De Felice, pp. 141-142. 

C. Rosselli, Socialismo liberale, Torino 1979, p. 47. Cfr. R. Wohl, 1914. Sto¬ 
ria di una generazione, trad. it. di A. Marconi Pedrazzi, Milano 1983; D. Settem¬ 
brini, Storia dell’idea antiborghese in Italia, 1860-1989, Roma-Bari 1991, cap. IV. 

^ Cfr. E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris 1985, 
pp. 312-313. 

Cit. in G. Prezzolini, Tutta la guerra, Milano 1968, p. 271. Sul sentimento 
di sacralità ispirato dall’esperienza della guerra, si veda anche la testimonian¬ 
za di P. Teilhard de Chardin, Lm vita cosmica. Scritti del tempo di querra (1916- 
1919), trad. it. di A. Dozon Daverio, Milano 1982, pp. 229-250. Sul rapporto 
tra la guerra e il sacro cfr. G. Bouthoul, Le guerre, trad. it. di S. Montanelli, 
Milano 1961, pp. 347 sgg. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


29 


La tragedia della guerra, l’esperienza della morte di massa vis¬ 
suta per la prima volta da milioni di uomini nelle trincee, favori¬ 
rono il risveglio del sentimento religioso tradizionale e contri¬ 
buirono anche alla formazione di nuove correnti di religiosità lai¬ 
ca, che scaturirono direttamente dalla guerra e rivestirono di rin¬ 
novata sacralità i miti della nazione, dando impulso alla ripresa 
e alla diffusione di forme di «religione civile», attraverso la pro¬ 
paganda patriottica e la celebrazione del culto dei martiri e de¬ 
gli eroi che per la patria si erano immolati^’^. «Una rinascita di 
pensiero e di fede religiosa è in queste fasi della vita assai pro¬ 
babile, ed infatti nell’ora presente non mancano i segni di una 
forte rinascita dello spirito cattolico e dei valori religiosi», scri¬ 
veva nel 1922 Agostino Lanzillo^’^L Nello stesso periodo. Mari¬ 
netti annotava nei suoi diari: «L’umanità ha bisogno oggi d’una 
nuova religione che sintetizzi e organizzi tutte le superstizioni, 
tutte le piccole religioni intime tutti i culti segreti»"^®. Sergio Pa- 
nunzio esprimeva un sentimento simile: «C’è il bisogno dispera¬ 
to di una religione, c’è il sentimento diffuso della religiosità [...] 
ma la religione non c’è»^L 

Il mito dell’esperienza della guerra diede un’altra spinta de¬ 
cisiva alla sacralizzazione della politica, apportando nuovo mate¬ 
riale per la costruzione di una religione nazionale, con i miti, i ri¬ 
ti e i simboli nati nelle trincee. La simbologia cristiana della mor¬ 
te e della resurrezione, la dedizione alla nazione, la mistica del 
sangue e del sacrificio, il culto degli eroi e dei martiri, la «co¬ 
munione» del cameratismo divennero gli ingredienti per forma¬ 
re una nuova «religione della patria»^^. Attraverso questi miti, ri¬ 
sorse o si rinvigorì fra la massa dei combattenti il mito della ri¬ 
voluzione come rigenerazione morale, e l’idea di una nuova po- 

^ Fra i primi promotori di una liturgia patriottica legata alla guerra ebbe 
particolare importanza il Comitato d’azione tra mutilati invalidi e feriti di guer¬ 
ra, che soprattutto dopo Caporetto divenne attivo organizzatore di riti e ma¬ 
nifestazioni celebranti il culto dei caduti e i miti della nazione in guerra, cfr. R. 
Fasani, Il Comitato d’azione fra mutilati, invalidi e feriti di guerra, Milano 1938. 

A. Lanzillo, Le rivoluzioni del dopoguerra. Città di Castello 1922, p. XVTII. 

70 F.T. Marinetti, Taccuini 1913-1921, a cura di A. Bertoni, Bologna 1987, 
p. 488. 

71 S. Panunzio, La gravità della crisi attuale, in «Polemica», agosto 1922. 

77 Cfr. G.L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, trad. 

it. di G. Ferrara, Roma-Bari 1990, pp. 59 sgg. 





30 


Il culto del littorio 


litica come missione salvifica e esperienza integrale, che doveva 
rinnovare tutte le forme dell’esistenza. La guerra riprendeva e 
continuava la rivoluzione di Mazzini. La politica non doveva tor¬ 
nare a manovrare nella banalità dell’ordine tradizionale, ma per¬ 
petuare l’impeto eroico della guerra e il senso mistico della co¬ 
munità nazionale, per realizzare la «rivoluzione italiana». 

Il maggior contributo alla costruzione di una religione na¬ 
zionale, in questo periodo, fu dato da Gabriele D’Annunzio, 
con la retorica e con l’azione. Il poeta, che da anni aveva as¬ 
sunto il ruolo di profeta, bardo e sacerdote di una rinnovata «re¬ 
ligione della patria», fu inesauribile artefice di metafore religio¬ 
se, attingendo liberamente alla tradizione cristiana, alla mitolo¬ 
gia classica, ai culti delle trincee, per elaborare una raffinata 
retorica politico-religiosa che impregnò il linguaggio e la mito¬ 
logia del nazionalismo rivoluzionario prodotto dalla guerra. La 
sua partecipazione alla campagna interventista contribuì a tra¬ 
sformare le manifestazioni di piazza in nuovi riti della nazione, 
e a definire nuovi «spazi sacri», come la piazza del Campido¬ 
glio, dove il poeta vestiva i panni dell’officiante per celebrare i 
riti della patria e rinnovare il culto degli eroi «nella perenne no¬ 
vità del mito»^^. D’Annunzio recuperò i miti delle religioni ci¬ 
vili del Risorgimento e la «coscienza della romanità»’^'*, fonden¬ 
doli sincreticamente in una nuova teologia politica celebrante il 
dogma della patria, inventando, con la dovizia della sua imma¬ 
ginazione artistica, nuovi simboli e rituali per il suo culto. Arte 
e politica si fusero, specialmente durante l’avventura di Fiume, 
per realizzare un «ordine lirico», un nuovo «regno dello spiri¬ 
to», celebrando come esaltazione di nuova vita il culto dei ca- 


G. D’Annunzio, Orazione per la sagra dei Mille. V maggio MDCCCLX. 
V maggio MCMXV, riportata in Id., Per la più grande Italia, Roma 1943, p. 19. 
Su questo aspetto della politica dannunziana, rimane tuttora fondamentale, nel¬ 
le linee essenziali, il saggio di G.L. Mosse, The Poet and thè Exercise of Politi¬ 
cai Power. Gabriele D’Annunzio, in «Yearbook of Comparative and General 
Literature», n. 22, 1973, riportato in Id., L’uomo e le masse nelle ideologie na¬ 
zionaliste, trad. it. di P. Negri, Roma-Bari 1982, pp. 97-115. Sui riti dannun¬ 
ziani nella capitale, nel quadro dell’agitazione interventista, si veda in partico¬ 
lare A. Staderini, L’interventismo romano 1914-1915, in «Storia contempora¬ 
nea», aprile 1991, pp. 257-304. 

G. D’Annunzio, Parole dette in una cena di compagni, all’alba del XXV 
maggio MCMXV, riportato in Id., Per la più grande Italia, cit., p. 108. 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la Terza Italia 


31 


duti in guerra, martiri che avevano fecondato col loro sangue la 
resurrezione della patria^^. 

Il culto dei caduti, già presente nelle tradizioni rituali dei di¬ 
versi nazionalismi, fu la prima, universale manifestazione liturgica 
della sacralizzazione della politica nel XX secolo, e diede nuovo 
impulso alla santificazione della nazione. I cimiteri di guerra, e so¬ 
prattutto la diffusione dei monumenti alla memoria dei caduti del¬ 
la Grande guerra, restano come la testimonianza visibile del livel¬ 
lo di universalità raggiunto dal culto della comunità nazionale^^. 
In Italia, la diffusione del culto dei caduti, fosse questo manifesta¬ 
zione di idealità sincera e di devozione spontanea di gente che ave¬ 
va vissuto e conosciuto la tragedia della guerra o fosse artificioso 
espediente di mistificazione nazionalistica per mascherare gli or¬ 
rori della guerra stessa, diede per la prima volta una dimensione 
veramente nazionale all’attività rituale e simbolica dedicata alla 
«religione della patria». Gran parte di questa attività si concretizzò 
nell’edificazione di monumenti dedicati alla memoria dei caduti. 
In quegli anni questi monumenti sorsero numerosi, e disordinata- 
mente, in ogni parte d’Italia, per iniziativa di comuni, di associa¬ 
zioni patriottiche e combattentistiche, di gruppi di cittadini. L’i¬ 
naugurazione del monumento, nuovo «spazio sacro» della comu¬ 
nità, fu ovunque occasione per celebrare riti patriottici, con la ve¬ 
nerazione dei simboli della nazione e della guerra, che coinvolge¬ 
vano, in modo più o meno ampio, la popolazione^^. Il momento 


” Sugli aspetti mitico-liturgici dell’esperienza fiumana, cfr. N. Valeri, Da 
Giolitti a Mussolini, MUano 1967, pp. 32-72; R. De Felice, introduzione a G. 
D’Annunzio, La penultima ventura. Saitti e discorsi fiumani, a cura di K. De 
Felice, Milano 1974, pp. VII-LXXVIII; Gentile, Le origini dell’ideologia fasasta, 
cit., pp. 166-186; M.A. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, trad. it. di L. De Felice, 
Roma-Bari 1975. j ^ ■ 

76 Cfr. Mosse, Le guerre mondiali cit., pp. 109-118; Monuments de memoi- 

re. Les monuments aux morts de la premiere guerre mondiale, Paris 1991; A. 
Becker Les monuments aux morts. Mémoire de la Grande Guerre, Paris, s.d.; 
A Borg, WarMemorials, London 1991, pp. 69 sgg.; C. Mcintyre, Monuments 
ofWar London 1990; R. Shipley, To Mark Our Place. A History of Canadian 
War Memorials, Toronto 1987, pp. 49 sgg.; W. Lloyd Warner, The Living and 
thè Dead, New Haven 1959, pp. 248 sgg. j- • 

77 II tema dei monumenti di guerra in Italia non è stato ancora studiato in 
modo sistematico. Per una prima informazione, cfr. C. Canal, La retorica della 
morte. I monumenti ai caduti della Grande Guerra, in «Rivista di stona con¬ 
temporanea», n. 4,1982, pp. 659-669; R. Monteleone, P. Sarasini, l monumenti 





32 


Il culto del littorio 


culminante di questo nuovo culto della patria furono le cerimonie 
per la scelta della salma del Milite Ignoto, il trasporto nella capi¬ 
tale e la tumulazione nella tomba sotto l’Altare della patria il 4 no¬ 
vembre 1921. La salma, in un vagone speciale seguito da dicias¬ 
sette carri recanti corone e bandiere, giunse a Roma da Udine, pas¬ 
sando da Treviso, Venezia, Padova, Ferrara, Bologna, Firenze, ac¬ 
colta ovunque da una grande folla commossa, mentre ali di gente 
d’ogni ceto, lungo il percorso, rendevano omaggio in ginocchio al 
passaggio del feretro. Le cerimonie nella capitale furono proba¬ 
bilmente il rito patriottico più solenne mai celebrato dalla Terza 
Italia^^. Fu scritto, forse non a torto, che questa era la prima cele¬ 
brazione patriottica veramente sentita da tutto il popolo^^. «L’a¬ 
poteosi del Soldato ignoto è il ritorno alla religione della patria», 
affermò «L Illustrazione italiana»^®. Il 10 novembre rese omaggio 
alla tomba del Milite Ignoto un grande corteo di fascisti, per cele¬ 
brare la conclusione del loro congresso che aveva sancito la tra¬ 
sformazione del movimento di massa in partito. I fascisti si consi¬ 
deravano i principali artefici del ritorno della nazione aUa «reli¬ 
gione della patria». 

Nonostante le polemiche sul valore artistico di molti monu¬ 
menti, giudicato generalmente molto modesto, e le polemiche sul 
loro significato simbolico fra chi voleva esaltare la virilità dell’e¬ 
roismo e chi voleva memorare la tragedia della guerra e la pietà 
del sacrificio, essi ebbero parte notevole nel preparare la base per 
l’istituzione ufficiale di una liturgia nazionale attorno al mito del¬ 
la Grande guerra e alla «resurrezione» della patria. 

Un nuovo altare era stato innalzato per celebrare il culto del¬ 
la nazione. Il fascismo se ne appropriò per collocarvi, in nome 
della patria, gli idoli della sua religione. 


italiani ai caduti della grande guerra, in D. Leoni, C. Zadra (a cura di) La Gran¬ 
de guerra, Bologna 1986, pp. 631-670; C. Cresti, Architettura e fascismo Fi¬ 
renze 1986, pp. 41-72. 

Cfr. O. Cavara, Il Milite Ignoto, Milano 1923. 

«Nessuna festa patriottica, dallo Statuto al 20 Settembre, è mai divenu¬ 
ta popolare in Italia. Bisognava aspettare al trasporto del Milite Ignoto per ve- 
dere veramente un rito patriottico divenuto sentimento religioso di popolo». 
G. Prezzolini, Vecchia e nuova democrazia: Rifarsi da capo, in «Il Mondo» 14 
novembre 1922. 

Nobiluomo Vidal, Il Soldato Ignoto, in «L’Illustrazione italiana», 6 no¬ 
vembre 1921. 



Fig. 1. Il passaggio della salma del Milite Ignoto («L Illustrazione ita¬ 
liana», 6 novembre 1921). 



I 


LA «SANTA MILIZIA» 


) 


Il Milite fascista deve servire l’Italia in purità 
con lo spirito pervaso da un profondo mistici¬ 
smo, sorretto da una fede incrollabile, domi¬ 
nato da una volontà inflessibile, spre 2 zante 
della opportunità e della prudenza, come del¬ 
la viltà, deciso al sacrificio come al fine della 
sua fede, convinto del peso di un terribile apo¬ 
stolato per salvare la grande madre comune e 
donarle forza e purità. [...] Comandante o gre¬ 
gario deve ubbidire in umiltà e comandare in 
forza. L’ubbidienza per questa milizia volon¬ 
taria deve essere cieca, assoluta, rispettosa fino 
al culmine delle gerarchie, al Capo Supremo 
ed alla Direzione del Partito. Il Milite fascista 
ha una sua morale. La morale comune, quella 
dal volto famigliare, dal volto politico, dal vol¬ 
to sociale, prismatica, sfaccettata a larghe ma¬ 
glie, non ser\^e al Milite fascista. L’onore è per 
lui, come per i cavalieri antichi, una legge che 
tende, senza mai raggiungerla, al culmine del¬ 
la perfezione senza limiti anche se cada nel¬ 
l’errore dell’eccesso, prepotente, severa, di 
giustizia assoluta, anche al di fuori, sempre al 
di sopra della legge scritta e formale. L’onore 
assoluto è legge di disciplina per la milizia e 
viene tutelato oltre che dagli organi politici dai 
capi delle gerarchie. La milizia fascista repelle 
gh impuri, gli indegni, i traditori. 

Regolamento della milizia fascista 
(3 ottobre 1922) 





Quando sorse il movimento fascista, vi era un atteggiamento 
favorevole ad accogliere e sostenere una religione nazionale, spe¬ 
cialmente fra i reduci che avevano sacralizzato l’esperienza della 
guerra, fra gli intellettuali in cerca di fede, fra i giovani assetati 
di miti e smaniosi di dedizione e di azione, fra la borghesia pa¬ 
triottica, che si considerava naturale custode dei valori della tra¬ 
dizione risorgimentale. Gli elementi originari per la formazione 
della religione fascista affiorano già agli inizi del movimento, 
quando era composto solo da un piccolo gruppo di reduci e di 
giovanissimi, accomunati dal richiamo ai miti dell’interventismo, 
della guerra e della «rivoluzione italiana»*. 


Le origini del culto fascista 

Per chiarire il carattere di religione del fascism.o, quale emer¬ 
ge già nella sua prima fase di formazione, riteniamo utile riferir¬ 
ci, condividendone la validità, al modello di nuova religione lai¬ 
ca proposto da Albert Mathiez per definire il carattere religioso 
dei culti della rivoluzione francese. Ogni religione, secondo la de¬ 
finizione di Emile Durkheim^, è un fenomeno sociale che ha ori¬ 
gine da uno stato d’entusiasmo collettivo e si basa su un sistema 
di credenze obbligatorie e di pratiche esteriori, anch’esse obbli¬ 
gatorie, relative al loro culto, tali da conferire carattere sacro ai 
simboli che rappresentano l’oggetto delle credenze. A queste ca¬ 
ratteristiche, Mathiez ne ha aggiunto altre: 


‘ Per una più analitica trattazione del tema di questo capitolo, rinviamo a 
E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma- 
Bari 1989, capitolo VII. 

^ A. Mathiez si riferiva a E. Durkheim, De la définition des phénomènes re- 
ligieux, in «Année sociologique», tomo II, Paris 1899; cfr. Id., Les formes élé- 
mentaires de la vie religieuse, Paris 1985. 





38 


Il culto del littorio 


Il fenomeno religioso s’accompagna sempre, nel periodo di for¬ 
mazione, con uno stato di sovraeccitazione e una viva brama di feli¬ 
cità. Quasi immediatamente, inoltre, le credenze religiose si concre¬ 
tizzano in oggetti materiali, in simboli, che sono segni di raccolta per 
i credenti e come talismani, in cui essi pongono le loro speranze più 
intime; e, in quanto tali, perciò, essi non tollerano che siano disprez¬ 
zati e ignorati. Più spesso ancora, i credenti, e soprattutto i neofiti, 
sono animati da una rabbia distruttiva contro i simboli degli altri cul¬ 
ti. E molto spesso infine, quando possono, essi colpiscono di inter¬ 
detto tutti quelli che non condividono la loro fede, che non adorano 
i loro simboli e, per questo solo delitto, li colpiscono con punizioni 
particolari, li bandiscono dalla comunità di cui fanno parte.^ 

L’origine della religione fascista si inquadra correttamente nel 
modello interpretativo dello storico francese. Il fascismo ebbe 
origine da quello «stato di effervescenza collettiva» prodotto dal¬ 
la guerra, che già alla fine della guerra aveva dato vita a vari mo¬ 
vimenti, di durata più o meno effimera come il combattentismo, 
l’arditismo, il futurismo politico, il fiumanesimo, che scesero in 
campo per affermare i diritti della vittoria e proseguire la «rivo¬ 
luzione italiana», combattendo contro i «nemici interni» e la vec¬ 
chia classe dirigente, per realizzare l’unità morale e spirituale del¬ 
la nuova Italia. Come accade nello stadio iniziale dei nuovi mo¬ 
vimenti religiosi, il legame che unì i primi fascisti fu una comu¬ 
ne esperienza di fede - l’interventismo e la guerra - vissuta in uno 
stato d’animo di esaltazione e di vitalismo che i fascisti traduce¬ 
vano in un senso di missione rigeneratrice della nazione, per la 
difesa e l’affermazione delle loro idealità patriottiche, assolutiz- 
zate e sacralizzate. Il fascismo, scriverà Bottai nel 1932, «non era. 


^ A. Mathiez, Les origines des cultes révolutionnaires 1739-1792 (1904), 
Genève 1977, pp. 11-12. E Mathiez proseguiva; «Ora, se io dimostro che i ri¬ 
voluzionari, che i ‘patrioti’, come amavano appellarsi, malgrado le loro diver¬ 
genze, avevano un fondo di credenze comuni; che simbolizzavano le loro cre¬ 
denze in segni di adesione, verso i quali professavano una vera devozione, che 
celebravano cerimonie comuni, dove amavano ritrovarsi per manifestare in co¬ 
mune una fede comune; che volevano imporre le loro credenze e i loro simboli 
a tutti gli altri Francesi; che erano animati da un furore fanatico contro tutto 
ciò che rappresentava le credenze, i simboli, le istituzioni che volevano di¬ 
struggere e sostituire, se dimostro tutto ciò, non avrei forse il diritto di trarre 
la conclusione, che è esistita una religione rivoluzionaria, analoga, nella sua es¬ 
senza, a tutte le altre religioni?». 


I. La «santa milizia» 


39 


per me e per i miei compagni d’arme, che un modo di seguitare 
la guerra, di tradurne i valori in una religione civile»"^. L’adesio¬ 
ne ai Fasci era vissuta come un atto di consacrazione della pro¬ 
pria vita alla patria: «In un momento di agitazioni sublimi con¬ 
sacrai la mia gioventù e il mio avvenire al bene, alla grandezza 
della patria - scriveva un giovane agli inizi del 1920 al segretario 
dei Fasci per chiedere l’iscrizione -. La gioventù dell’Italia nuo¬ 
va raccoglie il brando della giustizia e dell’eguaglianza so¬ 
ciale (vera eguaglianza, non quella predicata dai pussisti) [...] Col 
sangue dei ribelli socialisti saprà spegnere gli incendi che minac¬ 
ciano di accendere nei nostri giardini ridenti e fioriti»^. 

Attraverso l’esperienza politica dei suoi militanti, provenien¬ 
ti dai più vari movimenti, ma accomunati dal culto della nazione 
e dal mito della guerra, confluirono nella formazione della mito¬ 
logia fascista, e vi si insediarono stabilmente, i miti principali del¬ 
la cultura politica italiana emersi durante la lunga ricerca di una 
religione civile per la «nuova Italia», dagli albori del Risorgi¬ 
mento fino alla Grande guerra. In tal modo, il fascismo si pre¬ 
sentò come l’erede e il continuatore del radicalismo nazionale, il 
protagonista della lotta per l’interventismo, l’interprete dei com¬ 
battenti, il difensore della vittoria e l’avanguardia della «nuova 
Italia» nata dalle trincee. «Rivoluzione italiana», per il fascismo 
significava non sovvertimento sociale e abbattimento dei pilastri 
fondamentali della società borghese, che esso dichiarava di voler 
proteggere e consolidare contro il socialcomunismo, ma signifi¬ 
cava riconsacrare il culto della nazione e rigenerare il popolo per 
trasformarlo in una comunità unita e forte, capace di affrontare 
la sfida del mondo moderno, conquistare un nuovo primato, svol¬ 
gere una missione di civiltà per rinnovare nei tempi moderni lo 
spirito e la grandezza della romanità: 

Noi lavoriamo alacremente - scriveva Mussolini alla fine del 1920 
- per tradurre nei fatti quella che fu l’aspirazione di Giuseppe Maz¬ 
zini: dare agli italiani il «concetto religioso della nazione» [...] Getta¬ 
re le basi della grandezza italiana nel mondo, partendo dal concetto 

■* G. Bottai, L'incontro di due generazioni, in «Critica fascista», 15 dicem¬ 
bre 1932. 

’ ACS, MRF, b. 38, lettera di S.W. Ray al segretario dei Fasci di combat¬ 
timento, Salerno, 17 febbraio 1920. 



40 


Il culto del littorio 


religioso dell’italianità [...] deve diventare l’impulso e la direttiva es¬ 
senziale della nostra vita.^ 

Da questo nucleo originario si sviluppò la religione fascista 
che, nei caratteri fondamentali, codificò questi miti unificandoli 
sincreticamente in un insieme coerente di credenze, in una reli¬ 
gione laica incentrata sulla sacralità della nazione. Inizialmente il 
fascismo non si differenziò sostanzialmente dalle precedenti ma¬ 
nifestazioni della religione nazionale, ma, sviluppandosi come 
movimento di massa, elaborò di questa una nuova versione, in 
cui divennero determinanti i miti che sorsero daU’esperienza del 
fascismo stesso come milizia armata. Proprio per la sua natura di 
partito-milizia, il fascismo costituiva una novità nella ricerca del¬ 
la religione nazionale: per la prima volta questa religione diviene 
il credo di un movimento di massa, deciso ad imporre il culto del¬ 
la sua religione a tutti gli italiani, a non tollerare l’esistenza di cul¬ 
ti antagonisti, a trattare gli avversari, che non erano disposti a 
convertirsi, come reprobi e dannati, che dovevano esser perse¬ 
guitati, puniti e messi al bando dalla comunità della nazione. 

Fin dalle prime manifestazioni il fascismo affiancò alla sacra¬ 
lizzazione dell’idea di nazione un largo uso di riti e simboli. Que¬ 
st’uso non era certo ignorato dagli altri movimenti politici, dai re- 
pubblicani ai socialisti, dai nazionalisti ai popolari, ma nessuno di 
essi aveva dato alla liturgia politica uno sviluppo metodico, una di¬ 
mensione di massa, ed anche una presenza ed una estensione ter¬ 
ritoriale così ampia come fece il fascismo. A differenza degli altri 
partiti, inoltre, i fascisti assegnarono al simbolismo politico una 
funzione predominante nell’azione e nell’organizzazione, attri¬ 
buendogli, nel linguaggio e nei gesti, espressione e significato 
esplicitamente religiosi. Anche nell’elaborazione della sua liturgia, 
come per la mitologia, il fascismo si comportò come una religione 
sincretica, assimilando i materiali che riteneva utili per sviluppare 
il proprio corredo di riti e simboli, incorporando disinvoltamente 
tradizioni rituali di altri movimenti e integrandole con i propri ri¬ 
ti. I fascisti non si preoccupavano della originalità dei riti e dei sim¬ 
boli, ma guardavano all’efficacia di questi per l’azione, per rap¬ 


^ Mussolini, «Il Popolo d’Italia» nel 1921, in «Il Popolo d’Italia», 8 dicem¬ 
bre 1920. 


1. La «santa milizia> 


41 


presentare i loro miti e rafforzare il senso di identità del movi¬ 
mento, come validi strumenti di lotta contro i «nemici della na¬ 
zione», e anche come forme di propaganda per impressionare gli 
spettatori e conquistare proseliti. Gran parte dei riti e dei simboli, 
negli anni dello squadrismo, sorse sia per invenzione che per imi¬ 
tazione, ma in modo piuttosto spontaneo, nel senso che la loro 
adozione e diffusione non era predisposta, ordinata e diretta dal 
centro del movimento, ma nasceva da iniziative di singoli e di 
gruppi, trasferendosi poi per imitazione agli altri gruppi diven¬ 
tando così patrimonio comune del composito ed eterogeneo ag¬ 
gregato fascista. Fra il 1921 e il 1922 sono già diffusi i riti fonda- 
mentali che contraddistinguono il particolare stile di vita del par¬ 
tito-milizia: il saluto romano, il giuramento delle squadre, la vene¬ 
razione dei simboli della nazione e della guerra, la benedizione dei 
gagliardetti, il culto della patria e dei caduti, la glorificazione dei 
«martiri fascisti», le cerimonie di massa. 


I crociati della nazione 

Dal principio, i fascisti vissero e rappresentarono la loro azio¬ 
ne attraverso metafore religiose. La religione fascista si delinea at¬ 
traverso una retorica sacralizzante e una liturgia che ripeteva nel 
linguaggio e nei modi il rituale cristiano, mutuandolo anche attra¬ 
verso la utilizzazione dannunziana, con una spiccata propensione 
dei fascisti a trasfigurare subito in termini epico-religiosi le vicen¬ 
de della loro politica, sentendosi emuli ed eredi dell’eroismo dei 
primi patrioti del Risorgimento: «Il fascismo - scriveva nel suo dia¬ 
rio CamiUo Pellizzi nel 1921 - è un’aperta Carboneria del sacrifi¬ 
cio»^. I fascisti si considerarono i profeti, gli apostoli e i militi del¬ 
la nuova «religione della patria» sorta dair«immenso rogo della 
guerra»*, consacrata dal sangue degli eroi e dei martiri immolatisi 
per portare a compimento la «rivoluzione italiana»: 

Siamo dei superatori - affermava nel 1921 l’organo dei Fasci di 
combattimento - [...] i depositari d’una generazione che da tanto tem- 


^ Archivio Pellizzi, Diario, quaderno XXI, 1921. 

” G. De Michelis, Le nostre idee, in «Il Fascio», 14 maggio 1921. 



42 


Il culto del littorio 


po ha varcato la sua realtà storica e marcia ineluttabilmente aU’aweni- 
re [...] Siamo perfezione della perfezione [...] La santa eucarestia della 
guerra ci aveva plasmati sullo stesso metallo di generose immolazioni.^ 

Il sangue dei caduti aveva rinnovato la sacralità della nazione, 
e di questa sacralità i fascisti si elessero a difensori contro i «nemi¬ 
ci interni», prima di tutto socialisti e comunisti, i dissacratori del¬ 
la nazione che pervertivano le masse predicando il disprezzo ma¬ 
terialistico dei valori dello spirito, e poi anche contro i cattolici 
neutralisti e i militanti del Partito popolare, fino ad includere fra i 
«nemici della nazione» i repubblicani, che pure erano da oltre 
mezzo secolo ferventi cultori della «religione della patria». Ma i fa¬ 
scisti erano anche in guerra contro i governanti e la borghesia li¬ 
berale perché avevano assistito impotenti e pavidi allo scempio dei 
simboli della patria e alla denigrazione della guerra e della vittoria. 

Nei primi tempi, quando erano una sparuta minoranza di 
fronte alle grandi organizzazioni socialiste, i fascisti si paragona¬ 
rono ai «missionari del cristianesimo, dispersi in inesplorate re¬ 
gioni fra selvagge tribù idolatre»^®, armati di coraggio per diffon¬ 
dere, con fanatica determinazione, la verità di cui si ritenevano 
depositari, pronti per essa a sfidare la morte: «La verità è una so¬ 
la. Chi crede di possederla deve difenderla con la vita»”. E i fa¬ 
scisti attuarono l’opera di propaganda della fede con la pratica 
della violenza, mitizzata e sublimata come manifestazione di vi¬ 
rilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione 
dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro 
il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri cre¬ 
denti per annientare i profanatori della patria, redimere il prole¬ 
tariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, ricon¬ 
sacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la pa¬ 
tria sugli altari della devozione civile. I fascisti si atteggiavano an- 

^ G. Leonardi, Siamo i superatoti, in «Il Fascio», 2 aprile 1921. 

R. Forti, G. Ghedini, L’avvento del fascismo. Cronache ferraresi, Ferrara 
1923, p. 90. 

“ I. Balbo, Diario 1922, Milano 1932, p. 19. Mancano analisi rilevanti a li¬ 
vello locale della genesi e dello sviluppo del simbolismo squadrista. L’unica ec¬ 
cezione degna di nota è lo studio, per alcuni aspetti esemplare, anche se non 
sempre persuasivo in talune valutazioni storiografiche, di M. Fincardi, I riti del¬ 
la conquista, in «Contributi», nn. 21-22, 1987, pp. 1-127. 


1. La «santa milma> 


43 


che a difensori della religione tradizionale di fronte ai suoi nega¬ 
tori, oltre ad ergersi a paladini dei diritti della proprietà e della 
libertà del lavoro violati dalle organizzazioni del proletariato. 

Le spedizioni squadriste, al di là degli obiettivi di aggressione e 
distruzione, ebbero sempre anche carattere simbolico. Le prime ge¬ 
sta erano spedizioni di sfida compiute da piccoli gruppi di fascisti 
nelle zone dominate dagli avversari, per dar prova di audacia e di 
coraggio a testimonianza della loro fede e volontà di sacrificio. L’of¬ 
fensiva squadrista proseguì quindi come guerra dei simboli per im¬ 
porre agh avversari la venerazione della bandiera e la celebrazione 
del culto della patria. Si formò così l’immagine del fascismo audace 
difensore e restauratore della «religione della patria». In seguito, 
cresciuti di numero, di organizzazione e di forza, gli squadristi pun¬ 
tarono con le spedizioni di conquista alla distruzione delle sedi degli 
avversari e alla «liberazione» dei comuni e delle città da questi am¬ 
ministrati, che passavano però subito sotto dominio fascista. 

Il manganello e il fuoco furono i simboli terroristici della vio¬ 
lenza purificatrice dello squadrismo. Il manganello era come un 
talismano cui veniva dedicato anche una sorta di goliardico cul¬ 
to. Gli squadristi cantavano un inno al «San Manganello» esal¬ 
tandolo come amuleto protettore delle squadre, giustiziere dei 
nemici e liberatore del sacro suolo della patria: 

O tu santo Manganello / tu patrono saggio e austero, / più che 
bomba e che coltello / coi nemici sei severo; 

Di nodosa quercia figlio / ver miracolo opri ognor, / se nell’ora 
del periglio / batti i vili e gl’impostor. 

Manganello, Manganello, / che rischiari ogni cervello, / sempre 
tu, sarai sol quello / che d fascista adorerà. [...] 

Tu dal Brennero al Snello, / dal Quarnaro al Ticino, / taumatur¬ 
go Manganello / più di Dante sei divino, [...] 

Dove è nato Garibaldi, / dove è morto Corridoni, / disertori né 
ribaldi / non saranno mai padroni; 

Cinquecentomila morti / ben c’impongono il dovere, / di non tol¬ 
lerare i torti / che alla Patria fa un stranier. 

Manganello, Manganello / che rischiari ogni cervello, / ogni eroe 
dal suo avello / l’opra tua benedirà.” 


A. Gravelli, I canti della rivoluzione, Roma 1928, pjp. 84-86. 





44 


Il culto del littorio 


Il fuoco era il simbolo della for 2 a distruttrice e purificatrice 
della violenza squadrista. Ogni spedizione si concludeva con il 
rogo pubblico dei simboli e dei luoghi di culto dei nemici: mo¬ 
bili, giornali, ritratti di Marx e di Lenin venivano accatastati e ar¬ 
si nelle piazze. Balbo ha descritto nel suo diario la «colonna di 
fuoco» che accompagnò una spedizione squadrista «distruggen¬ 
do e incendiando tutte le case rosse, sedi di organizzazioni so¬ 
cialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passag¬ 
gio era segnato da alte colonne di fuoco e fumo»^^. 

Compiuta la distruzione e la purificazione, seguiva la ricon¬ 
sacrazione della popolazione e del luogo al culto della patria con 
una cerimonia di esposizione e venerazione della bandiera na¬ 
zionale, un pellegrinaggio al monumento o un rito fascista di con¬ 
segna del gagliardetto, il vessillo delle squadre. Dopo la conqui¬ 
sta di una nuova zona, la cerimonia di benedizione del gagliar¬ 
detto fu spesso presentata come rito simbolico della redenzione 
della popolazione ricondotta alla fede nazionale. Con questo ri¬ 
to, scrisse nel 1921 l’organo del movimento, il popolo «ritrova la 
sua coscienza, si rimette sulla via segnata dalla sua storia, e dai 
fati di un passato eterno»^"^. Chi non si univa alla celebrazione 
del culto della patria, mostrava disprezzo o indifferenza per i suoi 
simboli o non salutava i nuovi vessilli della «santa milizia» era 
punito con ogni sorta di angherie umilianti e di violenze. Dove 
dominavano i fascisti, i nemici che non si piegavano erano col¬ 
piti da interdetto e messi al bando dalla città. 


I riti della comunione squadrista 

Il «senso rehgioso» del fascismo si sviluppò soprattutto al¬ 
l’interno dell’organizzazione squadrista. Per i fascisti, la squadra 
non era soltanto un’organizzazione armata, ma un gruppo lega¬ 
to dalla fede comune, da vincoli di cameratismo, da un senso di 
comunione. L’esaltazione di questa comunione era il motivo do¬ 
minante di tutti i primi riti della liturgia fascista. La partecipa- 


Balbo, Diario 1922, cit., p. 109. 
«Il Fascio», 16 aprile 1921. 


1. La «santa milizia> 


45 


zione ad una spedizione delle squadre, per un nuovo aderente, 
era un rito di iniziazione in cui egli doveva dar prova di pos¬ 
sedere le qualità dello squadrista. L’adesione era sancita da un 
giuramento che rappresentava un atto di dedizione totale e la 
consacrazione della fedeltà ai vincoli comunitari. Il rito del giu¬ 
ramento, già in uso nella Fiume dannunziana, fu uno dei pri¬ 
mi atti della liturgia fascista, celebrato con una cerimonia so¬ 
lenne e marziale. Il rito si svolgeva alla presenza delle squadre, 
schierate in quadrato con i loro gagliardetti, e del pubblico, in 
piazze addobbate con bandiere e simboli del fascismo. In al¬ 
cune occasioni, alla cerimonia era presente anche Mussolini, ma 
non ancora inserito, come oggetto di culto personale, nel ri¬ 
tuale fascista. La formula del giuramento, che non era ancora 
unica per tutti gli squadristi, veniva letta dal comandante del¬ 
le squadre o da un ufficiale, ed era una dichiarazione di dedi¬ 
zione alla patria: 

Giuro sulla mia fede di italiano di eseguire quanto mi verrà dai 
miei compagni ordinato, anche se questi ordini per il bene d’Italia do¬ 
vessero espormi alle più gravi responsabilità ed ai più gravi sacrifici; 
giuro di mantenere il più assoluto segreto sugli ordini che mi verran¬ 
no impartiti e su qualsiasi disposizione che venisse a mia conoscenza; 
giuro di essere in ogni tempo ed in ogni luogo pronto a difendere la 
nostra santa causa che è la causa d’Italia.*^ 

La formula ufficiale adottata dalla milizia fascista alla vigilia 
della marcia su Roma era più concisa: «Nel nome di Dio e del¬ 
l’Italia, nel nome di tutti i caduti per la grandezza d’Italia, giuro 
di consacrarmi tutto e per sempre al bene d’Italia»^^. Spesso al¬ 
la cerimonia del giuramento si accompagnavano il rito della be¬ 
nedizione e la consegna dei gagliardetti. Questo vessillo fu sem¬ 
pre oggetto di speciale venerazione, anche negli anni del regime, 
perché era il principale simbolo della fede e dei vincoli della co¬ 
munione squadrista, dell’unità morale dei suoi vivi e dei suoi mor¬ 
ti. «Un vessillo è sempre simbolo di fede e soprattutto di sacro 

La magnifica affermazione della Lomellina fascista a Mortara, in «Il Po¬ 
polo d’Italia», io maggio 1921. 

Regolamento di disciplina per la milizia fascista, in «Il Popolo d’Italia», 3 
ottobre 1922. 



46 


Il culto del littorio 


dovere - scriveva Aldo Pinzi ai fascisti di Rovigo dopo essere en¬ 
trato a far parte del governo Mussolini Quando io lo consa¬ 
crai col mio indomato ardore presentivo religiosamente che la 
missione di riconoscenza italiana che si compendiava in quel sim¬ 
bolo sarebbe stata da voi tutti asceticamente seguita»^"^. La be¬ 
nedizione del gagliardetto era generalmente officiata da un sa¬ 
cerdote, ma erano frequenti i casi in cui il rito si svolgeva senza 
la presenza di un religioso, e l’officiante era il capo squadrista. 
Molto spesso il rito del giuramento e la benedizione delle inse¬ 
gne avvenivano durante le cerimonie funebri in onore dei «mar¬ 
tiri fascisti». 

La morte era un’immagine dominante già nello stadio di for¬ 
mazione dell’universo simbolico del fascismo. Ciò però non era 
sintomo di una predilezione per una visione decadente e nichili¬ 
stica della vita, né esprimeva una compiaciuta voluttà di pessi¬ 
mismo votato alla dissoluzione. Al contrario, l’evocazione conti¬ 
nua della morte era intesa come atto di sfida di un «ottimismo 
tragico e attivo»^*, che in questo modo voleva affermare la pro¬ 
pria fede nella vita e nell’immortalità. L’atteggiamento verso la 
morte era, per il fascismo, la più valida testimonianza della sua 
religiosità, come affermava un opuscolo su Fascismo e religione, 
edito dalla casa editrice del PNF nel 1923: 

Religione è senso del mistero manifestato in determinate forme. È 
religione l’opera umana a cui è imposta una concezione morale. I dog¬ 
mi che possono ridursi anche ad una sola verità fondamentale, e i ri¬ 
ti che possono essere un solo grande rito, sono l’espressione essen¬ 
ziale della religione. 

Ora un popolo, o meglio una milizia che affronta la morte per un 
comandamento, che accetta la vita nel suo purissimo concetto di mis¬ 
sione e l’offre in sacrificio, ha veramente quel senso del mistero che 
è il motivo fondamentale della religione ed afferma verità che non di¬ 
scendono da umani ragionamenti, ma sono dogmi di una fede. 

Così sono riti di religione i silenzi raccolti di «camicie nere» in¬ 
torno a fratelli che hanno abbandonato il combattimento terreno, e 
sono riti di una religione le pubbliche preghiere che i fascisti com¬ 
piono unitamente ai sacerdoti di una chiesa, quando circostanze di 


ACS, Ufficio Cifra, telegrammi in partenza, 10 novembre 1922. 
C. Pellizzi, Problemi e realtà del fascismo, Firenze 1924, p. 165. 


I. La «santa milizia» 


Al 


particolare significato suppongono la celebrazione pubblica del sa¬ 
crificio e della invocazione a Dio.^^ 

Il culto dei caduti ebbe subito un posto centrale nella liturgia 
fascista e fu probabilmente il più espressivo del suo senso di re¬ 
ligiosità secolare e della sua concezione eroica della vita. «Biso¬ 
gna accostarsi al martirio con devozione raccolta e pensosa, co¬ 
me il credente che si genuflette dinanzi all’altare di un dio - ave¬ 
va scritto Mussolini nel 1917 Commemorare significa entrare 
in quella comunione degli spiriti che lega i morti ai vivi, le gene¬ 
razioni che furono e quelle che saranno, il dolore aspro di ieri al 
dovere ancora più aspro di domani»^”. La «confessione di fede» 
con il sacrificio della vita era il valore supremo della religione fa¬ 
scista. Intorno al culto dei caduti si sviluppò, ancora col ricorso 
a metafore della tradizione cristiana, la simbologia del sangue ri- 
generatore e fecondatore dei martiri. Ne troviamo un esempio 
eloquente nell’orazione per tre caduti fascisti, tenuta nel 1921 da 
Carlo Scorza, capo degli squadristi lucchesi: 

Sorta dal sangue, o trinità di luce, tu sei: dal tuo, dal nostro san¬ 
gue. Si vuotino le vene del loro più gagliardo flutto a formare il nuo¬ 
vo fonte battesimale: pieno il calice del dono vermiglio, sia innalzato 
dai nostri cuori, o fratelli, fino agli altissimi cieli a compiere il riscat¬ 
to dal passato aH’awenire.^^ 

I funerali dei fascisti uccisi erano certamente i riti emotiva¬ 
mente più intensi e coinvolgenti, sia per i partecipanti che per la 
folla degli spettatori. Il corteo, formato da tutte le organizzazioni 
fasciste con i loro vessilli e bandiere, marciava lentamente al rullo 
dei tamburi o al suono di marce funebri, mentre i negozi lungo il 
percorso erano fatti chiudere per lutto. Se il rito si svolgeva di se¬ 
ra, l’atmosfera era resa ancora più suggestiva dalla luce delle fiac¬ 
cole. Il momento culminante della cerimonia era il rito dell’appel¬ 
lo: uno dei capi delle squadre gridava il nome del caduto, e la fol¬ 
la inginocchiata rispondeva: «Presente!». Assurti nell’universo 
simbolico fascista come eroi e santi, i caduti vegliavano carismati- 

P. Zama, Fascismo e religione, Milano 1923, pp. 12-13. 

Mussolini, Battisti!, in «Il Popolo d’Italia», 12 luglio 1917. 

«L’Intrepido», 10 luglio 1921. 



48 


Il culto del littorio 


camente sulla comunione dei fascisti, continuando a vivere nella 
loro memoria. Il rito dell’appello esprimeva il vincolo sacro fra i 
morti e i vivi, congiunti nella vitalità della fede: «La vita germoglia 
perenne dalla morte; la memoria dell’individuo è trasmessa per 
sempre nell’anima immortale della Nazione»^^. Per i fascisti, il ri¬ 
to dell’appello divenne il rito fascista per eccellenza, la testimo¬ 
nianza più alta della loro religiosità, e fu officiato, negli anni del re¬ 
gime, per tutti i morti che si erano distinti nella storia della rivolu¬ 
zione e nella vita nazionale. La sua importanza, nella liturgia fasci¬ 
sta, è provata dal fatto che al rito fu dedicata una apposita voqq Ap¬ 
pello fascista nel Dizionario dipolitica edito dal PNF nel 1940, e vo¬ 
luto da Mussolini come una sorta di «summa theologica» della 
dottrina fascista^^: «Il rito dell’appello si inserisce in quel ricono¬ 
scimento delle forze spirituali oltre la vita fisica che nelle religioni 
si manifesta col culto dei santi e presso i popoli, nelle diverse fasi 
della civiltà in forme diverse, col culto degli eroi». 

Anche quando celebrava riti di morte, il fascismo voleva da¬ 
re ad essi il carattere di una affermazione di vitalità e di fede nel 
futuro. Nel culto dei caduti non troviamo dominante la nota del¬ 
la mestizia e del rimpianto. Attraverso la forma austera e mar¬ 
ziale della cerimonia, il dolore veniva contenuto nelle forme di 
un atto di devozione alla patria, lenito dalla fede nell’immorta¬ 
lità del caduto risorto nella comunione della religione fascista. Il 
sangue del martire era la linfa rigeneratrice che ridava vita alla 
nazione e alimentava la sua rinascita. Trasfigurando i riti di mor¬ 
te in riti di vita, il fascismo volle dare maggior risalto al senso mi¬ 
stico della comunione, che rimase alla base della concezione fa¬ 
scista del partito, e venne da questo poi proiettato sulla conce¬ 
zione della nazione organizzata nello Stato totalitario. 


22 F. Menano, Rimini in un tripudio di sole, commemora Luigi Platania, in 
«Il Popolo d’Italia», 4 giugno 1922. 

2^ Dizionario dipolitica, voi. I, Roma 1940: «Questo rito ha come signiticato 
simbolico quello di attestare la continuità spirituale oltre la loro vita fisica di co¬ 
loro che hanno contribuito con la loro opera alla ricostruzione della vita italiana 
promossa dal Fascismo. La ‘presenza’ di coloro che si sono sacrificati nella lotta, 
o che vi hanno dato contributo di azione, permane nella realtà conquistata dalla 
Rivoluzione. Gli scomparsi non sono assenti poiché vivono nel documento del¬ 
le loro forze migliori. La risposta ‘Presente! ’ gridata ad una voce dai camerati af¬ 
ferma, oltre che il riconoscimento di tale apporto duraturo alla realtà storica del¬ 
la nazione, la vitalità in tutti gli spiriti dei motivi ideali che hanno mosso all’azio¬ 
ne e al sacrificio il camerata scomparso» (pp. 146-147). 



Fig. 2. Giansardi, cartolina di propaganda (1923). 


















50 


Il culto del littorio 


La sagra della rinascita 

Le manifestazioni di massa del fascismo avevano diversi signi¬ 
ficati e funzioni simboliche. Oltre che esibizione di forza per ter¬ 
rorizzare i nemici e per entusiasmare e rafforzare il senso di iden¬ 
tità e di potenza dei fascisti stessi, le cerimonie fasciste erano spet¬ 
tacolari dimostrazioni di propaganda, miranti ad affascinare, con 
la suggestione della coreografia, gli spettatori per suscitare fra que¬ 
sti la fede dei nuovi proseliti. «Le religioni - osservava Bottai - 
spesso conquidono le anime e gli spiriti con la solennità dei loro 
cerimoniali più che con la predicazione dei loro sacerdoti ed è at¬ 
traverso quei cerimoniali che l’afflato mistico trova spesso la via 
dei cuori»^"^. Ma il fine simbolico che accomunava tutte le manife¬ 
stazioni, dalle parate ai funerali, era la visualizzazione del fascismo 
come comunità di credenti e movimento di rinascita della nazio¬ 
ne: «i cortei fascisti - scriveva ‘Il Popolo d’Italia’ nel 1922 - sono 
come il rito di una ‘primavera sacra’, l’ascesa di una volontà, di un 
canto, di una unità spirituale»^^. La festa scelta per simbolizzare 
questa rinascita della nazione fu il 21 aprile. Natale di Roma, in so¬ 
stituzione del Primo maggio. Il mito della romanità, anche se si svi¬ 
luppò soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta, è presen¬ 
te nel fascismo fin dalle origini, ed occupa già un posto centrale nel 
suo cosmo mitologico: «Roma che è l’Italia, Roma che è il mondo, 
Roma che è tutta la storia e tutta la civiltà del mondo: Roma che è 
Forza, che è luce, che è Giovinezza, che è Bellezza !»^^. In questo 
senso, il richiamo a Roma voleva essere un atto di fede nella pe¬ 
renne vitalità e destino di grandezza della stirpe italiana. Tutti i ri¬ 
ti fascisti, nella fase di lotta dello squadrismo, erano simboli della 
«nuova nascita» della nazione, ricongiunta alla tradizione di Roma 
e ricondotta dall’«amore per la Fede comune» ad una spirituale 
unità che trascendeva partiti, classi, sesso, generazioni e segnava 
l’inizio della palingenesi della nazione, l’avvento del «regno dello 
spirito»^^. E come tali li ritroveremo durante gli anni del regime, 

G Bottai, Disciplina, in «Critica fascista», 15 luglio 1923. 

25 Menano, Rùnini in un tripudio di sole cit. 

26 «Il Popolo d’Italia», 22 aprile 1921. 

2’ L. Freddi, Le Sagre della Rinascita, in «Il Popolo d’Italia», 26 settembre 
1922. 


l. La «santa milizia> 


51 


inseriti in un diverso contesto politico e istituzionale, in funzione 
della legittimazione e consacrazione della nuova comunione della 
nazione nel culto del littorio. 

L’autorappresentazione del fascismo come religione non ri¬ 
mase soltanto nell’ambito del simbolismo, del rituale e della mi¬ 
tologia, ma svolse una funzione utile anche nell’istituzionalizza¬ 
zione del movimento e nell’attuazione delle sue ambizioni totali¬ 
tarie. Fu il motivo principale su cui il fascismo formò il suo «spi¬ 
rito di corpo» e il senso di identità, trasformandosi da movimento 
situazionale, come era all’inizio, in un partito di tipo nuovo, con 
quei caratteri propri di milizia della nazione, conservando l’or¬ 
ganizzazione, la cultura e lo stile di vita tipici dello squadrismo, 
insieme con il complesso di miti, riti e simboli che dall’esperien¬ 
za squadrista erano scaturiti, e che rimasero pressoché inalterati 
fino alla caduta del regime. 

Il movimento fascista era riuscito a monopolizzare il patriot¬ 
tismo, presentandosi con successo alla borghesia e ai ceti medi 
come il salvatore dell’Italia dalla «bestia trionfante», del bolsce¬ 
vismo. Nel 1922, lo scenario di molte città italiane era comple¬ 
tamente mutato. Ai grandi cortei di bandiere rosse o di bandie¬ 
re bianche si erano ora sostituiti, alla fine di una vittoriosa «guer¬ 
ra dei simboli» per la conquista del monopolio della piazza, i cor¬ 
tei del tricolore e dei vessilli neri del fascismo. Cortei, adunate di 
migliaia di persone, riti di benedizione dei gagliardetti e di giu¬ 
ramento delle squadre, celebrazione solenne dei funerali e ceri¬ 
monie in memoria dei «martiri» fascisti divennero uno spettaco¬ 
lo quasi quotidiano. Alla vigilia della «marcia su Roma», il fasci¬ 
smo pretendeva di aver iniziato, con la sua opera, la rigenerazio¬ 
ne morale degli italiani per trasformarli in un popolo compatto, 
disciplinato e solidale nelle sue categorie, senza lacerazioni di 
parte, senza antagonismi di classe e rivalità di sesso e di genera- 
zionP^: 

Per la prima volta quell’entità umana che usai definire «popolo» 
appare neUa sua pienezza totale, nella sua significazione romana. Po¬ 
polo: cioè figli della stessa terra unanimamente vibranti d’amore per 
la Patria comune. Popolo: tutti figli della Gran Madre, a qualunque 


2« Ibid. 




52 


Il culto del littorio 


classe appartengano, qualunque sia la loro origine, qualunque sia il 
compito che essi assolvono nella vita. Popolo: tutti gli uomini che 
compongono la società che lavora, che produce, tutti gli uomini che 
alla vita danno il quotidiano contributo della loro volontà, del loro 
sacrificio, del loro ingegno. 

Il comandamento del verbo fascista ha finalmente riunito in una 
sola passione questo meraviglioso popolo italiano e gli ha insegnato 
a marciare, in ranghi serrati, per battaglioni, per legioni. C’è l’uomo 
dei campi, abbronzato, rude e gagliardo, che nella collettività frater¬ 
na ha ritrovato la sua individualità e cammina altero, pervaso da una 
fierezza nuova. C’è l’uomo delle officine, franco, forte, schietto cui la 
nuova fede ha rasserenato lo spirito e ridonato una coscienza nuova. 
E, fianco a fianco, vicini non soltanto materialmente, tutti gli altri uo¬ 
mini che ai primi un tempo erano additati come nemici: quelli che 
non col braccio lavorano ma con l’ingegno, con l’intelletto; tutti, dal¬ 
l’impiegato modesto al professionista laborioso, all’intellettuale pen¬ 
soso. Affratellati ed uniti, come in un tempo non lontano nella trin¬ 
cea bellica; guidati da una disciplina spontaneamente riconosciuta ed 
osservata; inquadrati da una gerarchia salda e fraterna. 

E cogli uomini le donne, queste stupende donne italiane modeste 
laboriose e sagge, e i giovanetti che apprendono presto le leggi ferree 
della disciplina e il senso del dovere e del sacrificio e l’amore per la 
terra dei padri benedetta e santificata dal sacrificio dei martiri. E tut¬ 
te le età; i giovani che orgogliosamente ostentano i segni della guer¬ 
ra, gli anziani che fondono la loro compostezza austera col traboc¬ 
cante entusiasmo dei figli, i vecchi che rivivono le loro ore più belle 
secondando col passo ancora saldo i ritmi gioiosi delle canzoni gio¬ 
vanili. 

È l’Italia, insomma, tutto il popolo d’Italia che si ritrova unito, per 
la prima volta, forse, sotto i colori della bandiera della Patria, in una 
unità spirituale che lo rende finalmente degno della sua vittoria e del¬ 
le mete più superbe! 

Il testo appena citato, al di là dell’enfasi retorica, è partico¬ 
larmente significativo perché delinea, nei caratteri essenziali, quel 
mito deir«armonico collettivo», come lo definirà Mussolini nel 
194P^, che sarà modello ideale per il progetto di trasformazione 
del carattere degli italiani, cui si dedicherà, con fanatica deter¬ 
minazione, la politica dello Stato totalitario. 


N. D’Aroma, Mussolini segreto, Bologna 1958, p. 239. 


T 


53 


' I. La «santa milizia» 

« 

Una religione politica al potere 

Con la vittoria del fascismo, il culto della patria veniva re- 

• staurato e nessuno osava più ostentare pubblicamente il proprio 
dissenso. Il mutamento di clima politico, apportato dal fascismo, 
era percepibile anche nella retorica dei monumenti di guerra: 

In taluni luoghi - scriveva «L’Illustrazione italiana» alla fine del 
1922 - la revisione si produce sotto l’influenza degli avvenimenti nuo¬ 
vi. Certe parole come «Italia, Vittoria, Gloria, Gratitudine, Ricono¬ 
scenza» sostituiscono «sacrificio, olocausto, caduti, guerra» senza ag¬ 
gettivi. Meno colore di cimitero e più spirito di Pantheon, oggi.’® 

Sulla religione nazionale vegliava ora una milizia armata. Piaz¬ 
ze e monumenti diventarono stabilmente «spazi sacri» dove una 
massa liturgica celebrava periodicamente i riti della patria ac¬ 
compagnandoli con atti di riconoscenza e di devozione verso il 
«salvatore dell’Italia». Molti alimentarono, per convinzione e in¬ 
teresse, la restaurazione del culto patriottico, che ora veniva im¬ 
posto anche alle masse proletarie che l’avevano ignorato o re¬ 
spinto; 

Guardate, la grande stampa, come sfrutta il motivo patriottico, e 
ogni occasione, da Dante al Milite Ignoto, è buona; come la religio¬ 
ne della Patria diventi intollerante. Vent’anni fa crepuscolare, oggi è 
la forza principale. Non si tratta di semplice trucco. E, per le demo¬ 
crazie industriali, garanzia del futuro: significa aver, forse, trovato un 
centro di gravità per le masse, una disciplina ideale da proporre al 
popolo che, sembra non vi repugna.’* 

La borghesia patriottica plaudì al governo fascista per aver fi¬ 
nalmente istituito la religione civile della nazione, con una rivolu¬ 
zione incruenta che aveva riportato disciplina e unità nel paese. 

Eppure, quel che molti pensavano fosse la religione civile per 
un’Italia unita di cittadini liberi, annunciata dai profeti del Ri- 

j sorgimento, mostrava già nei primi tempi del fascismo al potere 

à O. Cavara, I monumenti per i caduti di guerra, in «L’Illustrazione italia- 

• na», 31 dicembre 1922. 

F. Burzio, Politica demiurgica, Bari 1923, p. 111. 


1 




54 


Il culto del littorio 


di essere in realtà una nuova religione che, mescolando ambi¬ 
guamente i simboli della patria con i simboli di un partito, rive¬ 
lava la vocazione totalitaria di una esordiente religione politica, 
che si apprestava a servirsi degli altari della patria per celebrare, 
in un nuovo Stato integrahsta, il culto del littorio. 


LA PATRIA IN CAMICIA NERA 


Un partito può ambire il dominio della vita 
pubblica, ma non deve oltrepassare i confini 
della coscienza privata nella quale ciascuno è 
libero di cercare il suo rifugio. Senonché il fa¬ 
scismo non ha mirato tanto a governare TI- 
talia, quanto a monopolizzare il controllo del¬ 
le coscienze italiane. Non gli basta il posses¬ 
so del potere: vuole il possesso della coscien¬ 
za privata di tutti i cittadini, vuole la «con¬ 
versione» degli italiani. 

Conversione a che cosa? Si è osservato spes¬ 
so che il fascismo non aveva abbastanza idee 
per costruirsi un programma, ed è occorsa la 
fusione col nazionalismo per dargli una dot¬ 
trina politica. Eppure il fascismo ha le prete¬ 
se di una religione [...] il fascismo ha tuttavia 
le supreme ambizioni e le inumane intransi¬ 
genze di una crociata religiosa. Non promet¬ 
te la felicità a chi non si converte, non con¬ 
cede scampo a chi non si lasci battezzare. 

Il buon Pastore, con la nodosa mazza che ha 
signoreggiato le nostre domeniche, sospinge 
rudemente gli italiani ad entrare nel tempio e 
minaccia perdizione a chiunque si ostina a re¬ 
starne fuori. 


«Il Mondo» 
(1" aprile 1923) 



Dalla borghesia patriottica e dai fautori di una restaurazione 
del regime liberale, il fascismo era osannato come il salvatore del¬ 
la patria, risorta dalla guerra ma trascinata dai suoi «nemici in¬ 
terni» sull’orlo di un baratro, e come il restauratore del culto del¬ 
la nazione nei suoi miti, nei suoi riti e nei suoi simboli. Ma la re¬ 
staurazione fascista aveva un ritmo e uno stile che ben poco cor¬ 
rispondevano all’idea di un ripristino del culto della patria nelle 
forme nostalgicamente ottocentesche, vagheggiate dai fautori di 
una restaurazione dell’Italia monarchica al di sopra dei partiti, 
dopo l’agnosticismo democratico degli anni giolittiani e il caos 
dissacrante del «biennio rosso». Tuttavia, pochi, fra i credenti 
nella «religione della patria», si resero conto della diversità, e 
quando questa divenne palese, nella propensione fascista a di¬ 
struggere la libertà, pochi di essi protestarono e reagirono in di¬ 
fesa dell’indissolubile legame fra libertà e nazione, che aveva ispi¬ 
rato la ricerca della religione civile durante il Risorgimento e nel¬ 
l’Italia liberale. La seduzione del nazionalismo fu più forte della 
fede nella libertà, e fece accettare il fascismo come paladino e re¬ 
stauratore della «patria risorta». In realtà, la patria risorta dalla 
guerra, che il fascismo voUe ricollocare sugli altari, era, per i fa¬ 
scisti, una patria in camicia nera, che solo chi era in camicia ne¬ 
ra poteva amare e venerare. Ciò divenne evidente molto presto 
nel modo con cui il governo fascista procedette ad instaurare una 
liturgia della patria, che fu solo la base per istituzionalizzare il 
culto del littorio. 

Per illustrare l’elaborazione della liturgia fascista ci serviremo 
di alcuni esempi, tratti principalmente dal primo decennio del 
regime: esempi che sono, a nostro parere, particolarmente rile¬ 
vanti per comprendere il significato e la funzione attribuita dal 
fascismo ai riti di massa nell’ambito della politica totalitaria. Sia 
pure schematicamente, nella istituzionalizzazione della liturgia 
f^ascista si possono distinguere due fasi: la prima, fra il 1923 e il 





Fig. 3. Cartolina fascista, 1923. 


II. La patria in camicia nera 


59 


1926, in cui il fascismo è impegnato a conquistare, con il mono¬ 
polio del potere, il pieno controllo dell’universo simbolico dello 
Stato; la seconda, fra il 1926 e il 1932, in cui la liturgia fascista si 
consolida, incorporando anche il culto della patria. Nel decen¬ 
nio successivo, il culto del littorio, anche se si amplia con nuovi 
riti, conserva e sviluppa i caratteri acquisiti nel periodo prece¬ 
dente, andando incontro ad un processo di cristallizzazione e di 
meccanica ripetitività. Dedicheremo maggiore attenzione al pri¬ 
mo decennio, perché è il periodo più importante per seguire le 
forme di istituzionalizzazione del culto del littorio. In questo pro¬ 
cesso, il fascismo segue due procedimenti, diversi anche se si¬ 
multanei, che corrispondono al tipo di azione che esso conduce 
nell’arena politica per conquistare e consolidare il monopolio del 
potere. Vi è un procedimento diretto a riconsacrare i simboli e 
riti dell’unità nazionale e della «patria risorta» (culto della ban¬ 
diera, festa dello Statuto, glorificazione della Grande guerra); 
mentre l’altro è diretto ad introdurre, nella simbologia e nella li¬ 
turgia dello Stato, i simboli e i riti della religione fascista, attra¬ 
verso una graduale simbiosi che finì col fascistizzare la «religio¬ 
ne della patria». 


Il culto della bandiera 

Nel quadro delle iniziative miranti a instaurare ufficialmente 
una liturgia di Stato, il governo fascista diede subito un forte im¬ 
pulso al rinnovamento del simbolismo statale e patriottico, ri¬ 
mettendo in auge anche l’uso delle uniformi per i membri del go- 
vernoh II «nuovo Stato ama il decoro e vuole restaurare la di¬ 
gnità delle forme [...] Mussolini mira a qualcosa di più concreto 
che alla riforma sartoriale: vuole una restaurazione dei simboli» 
scriveva «L’Illustrazione italiana»^. «La passione Fascista - scris¬ 
se enfaticamente un giornalista fascista poche settimane dopo la 
‘marcia su Roma’ - ha donato a tutti i simboli riconsacrati un’a¬ 
nima fervida, umana e divina, vibrante del palpito concorde in 

’ Cfr. ACS PCM, Atti, 1923, fase. 78 bis. Regolamento sulle uniformi del 
Presidente del consiglio, dei ministri e sottosegretari, 28 dicembre 1923. 

^ «L’Illustrazione italiana», 17 dicembre 1922. 












60 


Il culto del littorio 


cinquanta milioni di petti italiani»^. L’affermazione, per quanto 
retorica, non era del tutto infondata. 

Il governo Mussolini volle ridare innanzi tutto solennità ai fe¬ 
steggiamenti degli anniversari nazionali, prescrivendo ai comuni 
l’obbligo di stanziare nei propri bilanci le spese occorrenti per 
celebrare le feste laiche «con le necessarie manifestazioni este¬ 
riori». Fu inoltre resa obbligatoria, per uffici governativi e co¬ 
muni, l’esposizione della bandiera nazionale'^. Fino al 1922 non 
vi erano disposizioni circa l’uso della bandiera. Le amministra¬ 
zioni rette da partiti antimonarchici sovente usavano esporre 
bandiere di partito o rifiutavano di esporre il tricolore nelle ri¬ 
correnze nazionali. Il fascismo rimediò alla lacuna: con un de¬ 
creto del 24 settembre 1923, fu resa obbligatoria l’esposizione del 
tricolore per uffici pubblici di province e comuni, in occasione 
di feste o di lutto, e la sua precedenza su qualsiasi altro vessillo 
nelle funzioni pubbliche. Seppure informalmente, tale obbligo fu 
preteso anche per le associazionP. 

Il culto della bandiera non rimase confinato negli uffici pub¬ 
blici, nelle cerimonie militari, nelle celebrazioni di piazza. Il 31 
gennaio 1923 il ministero della Pubblica istruzione disponeva 
l’obbligo del rito del saluto al tricolore nelle scuole. Ogni scuola 
doveva avere una bandiera, custodita dal capo dell’istituto e affi¬ 
data, durante le cerimonie, ad un alfiere scelto fra gli scolari mi¬ 
gliori'^. Ogni sabato, al termine delle lezioni, e alla vigilia delle va¬ 
canze, gli scolari dovevano rendere omaggio al vessillo con il salu¬ 
to romano, accompagnando il rito col canto corale di inni patriot¬ 
tici. Come padrini per la cerimonia di consegna, erano prescelti i 
mutilati e gli invalidi di guerra, «figli prediletti della stirpe»^, per 


^ G.R. Manclel, Mitologia fascista, in «L’Assalto», 25 novembre 1922. 

Cfr. Camera dei deputati, Legislatura XXVII, La legislazione fascista 1922- 
1928 (I-VII), voi. I, Roma s.d., pp. 22-23. 

’ Cfr. il telegramma di Mussolini al prefetto di Forlì, del 18 giugno 1923, 
in cui deplorava la mancata esposizione del tricolore, in occasione della festa 
dello Statuto, da parte di un’associazione che adduceva motivi di «apoliticità», 
giudicati inaccettabili dal momento che, affermava Mussolini, la ricorrenza del¬ 
lo Statuto doveva esser considerata «festa dell’esercito e della Nazione». MAE, 
Ministero Cultura popolare, b. 312. 

^ Cfr. D. Lupi (a cura di). La riforma Gentile e la nuova anima della scuo¬ 
la, Milano-Roma 1924, pp. 285-317. 

^ D. Lupi, Il comandamento della patria, Milano 1925, p. 71. 


IL La patria in camicia nera 


61 


Stabilire così un simbolico vincolo fra i testimoni dell’eroismo di 
guerra e le nuove generazioni. In occasione della cerimonia di con¬ 
segna delle bandiere alle scuole romane, il 17 maggio 1923, alla 
presenza dei sovrani, Dario Lupi, deputato fascista toscano e sot¬ 
tosegretario alia Pubblica istruzione, ideatore del rito, spiegò agli 
scolari che la bandiera doveva essere da loro accolta come una 
«nova eucaristia»: con essa, disse aulicamente, «ricevete entro di 
voi, per farla vostra, incancellabilmente, la idea immensa e bene¬ 
detta della Patria» che «penetra nel vostro cuore, e si confonde con 
il vostro spirito, e si fa grazia della vostra grazia, in voi essa si im¬ 
medesima e si riplasma»^. Per conferire al rito del saluto «austera 
solennità». Lupi dispose che il suo significato venisse «illustrato 
con amore e praticato con religione vera» anche «facendone più 
rara la ricorrenza», ma in nessun caso meno di una volta al mese e 
in «forme severe e suggestive»*^. 

Il rito del saluto alla bandiera fu solo una delle varie iniziati¬ 
ve prese da Lupi. Egli ripristinò anche l’obbligo di esporre nel¬ 
le classi i ritratti di Cristo e del Re; incoraggiò la partecipazione 
delle scolaresche alle gare di canto corale degli inni nazionali; in¬ 
citò le scuole ad effettuare pellegrinaggi alla tomba del Milite 
Ignoto. Sua fu anche l’iniziativa di onorare la memoria dei caduti 
«nel simbolo vivente di una pianta», idea «antichissima nella pra¬ 
tica... tornata in onore dopo la strage della Grande guerra, ri¬ 
chiamata dal desiderio ansioso dei superstiti di manifestare ai 
morti, nei modi più eloquenti, la loro riconoscenza»^®. Ogni città, 
paese e borgo, dispose il 30 novembre 1922, doveva creare un 
Viale o un Parco della rimembranza, piantando un albero per 
ogni soldato caduto nella Grande guerra. Questo rito doveva es¬ 
sere compiuto dalle scolaresche^ b Monumenti viventi inseriti 
nell’ambiente della vita urbana, le «selve votive» simboleggiava¬ 
no la spirituale comunione fra i vivi e i morti per la patria: era- 

® Ivi, pp. 68-69. 

^ Lupi (a cura di). La riforma Gentile cit., pp. 292-293. 

Ivi, p. 207. 

" Ivi, pp. 207-271; G.F. Marini, La rimembranza, in «Il Popolo d’Italia», 
29 dicembre 1922, cfr. anche D. Lupi, Parchi e viali della rimembranza, Firen¬ 
ze 1923. Sul simbolismo dell’albero e la diffusione dei «boschi degli eroi» do¬ 
po la prima guerra mondiale, cfr. G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideolo¬ 
gie nazionaliste, trad. it. di P. Negri, Roma-Bari 1982, pp. 253-276. 



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Il culto del littorio 


no «luoghi sacri» al culto della nazione, dove i fanciulli si sareb¬ 
bero educati nella «santa emulazione» degli eroi. Queste inizia¬ 
tive ebbero un discreto successo: fino al febbraio 1924, i comu¬ 
ni in cui era stata inaugurata la bandiera nelle scuole erano 6.579 
su 8.893; ed erano stati creati 2.217 parchi e viali su 8.703 co- 
muni^2. Per rendere più attiva e appassionante la partecipazione 
delle scuole al culto della patria, il governo istituì anche una guar¬ 
dia d'onore, formata da scolari, cui venne affidata la custodia dei 
monumenti e delle «selve votive» 

Lupi meritò certamente dai credenti nella «religione della pa¬ 
tria» l’appellativo di «iniziatore dei riti novelli - delle insegne e del¬ 
le memorie - nelle scuole - dove nasce e s’infutura - la vittoriosa 
Italia»^"*. Queste iniziative, prese nel quadro della riforma Genti¬ 
le, erano parte di un disegno preciso di politicizzazione della scuo¬ 
la, attraverso l’introduzione, in una forma sconosciuta nel passa¬ 
to, di riti e simboli per educare i ragazzi nel culto della patria, esal¬ 
tando soprattutto, attraverso la Grande guerra, il fascismo. Una 
circolare del 13 febbraio 1923 dispose infatti che gli alberi votivi 
dovevano essere dedicati anche ai «martiri fascisti» perché «la fe¬ 
de stessa che condusse al sacrificio i martiri del Fascismo è la fede 
stessa che circonfuse di gloria l’olocausto santo dei caduti in guer- 
ra»^^. L’istituzione della guardia d’onore fu solo il primo passo ver¬ 
so la militarizzazione dell’educazione scolastica, avviata all’inse¬ 
gna del culto della patria e dei caduti, che trasformerà la scuola, at¬ 
traverso successive riforme, in uno dei luoghi privilegiati per l’in¬ 
segnamento dei dogmi e la pratica dei riti del culto del littorio 


Ivi, pp. 317 e 271. 

1^ Cfr. R.D. 9 dicembre 1923, n. 2747; Lupi (a cura di). La riforma Genti¬ 
le cit., pp. 411-426. 

1^ «L’Idea nazionale», 2 giugno 1923; Un libro di propaganda nazionale, ivi, 
12 dicembre 1923. 

Lupi (a cura di). La riforma Gentile cit., pp. 230-231. 

1^ Sull’uso del simbolismo e sulla pratica liturgica patriottico-fascista nella 
scuola manca uno studio specifico, ma utili elementi si trovano in T.M. Maz¬ 
zatosta, Il regime fascista tra educazione e propaganda 1935-1943, Bologna 1978; 
A. Fava, Chiesa e propaganda nella stampa locale: riti e modelli «religiosi» del¬ 
la propaganda fascista in Umbria, in A. Monticone (a cura di). Cattolici e fasci¬ 
sti in Umbria (1922-1945), Bologna 1978, pp. 247-295; M. Isnenghi, L’Educa¬ 
zione dell’italiano, Bologna 1979; A. Fava, La guerra a scuola. Propaganda, me¬ 
moria, rito (1915-1940), in D. Leoni, D. Zadra (a cura di). La grande guerra, 
Bologna 1986, pp. 685-713. 


IL La patria in camicia nera 


63 


Il culto del tricolore diventò un rito quasi quotidiano. Durante il 
1923 si assistè, specialmente nella capitale, a numerose «sagre della 
bandiera», promosse dalle forze armate, dalle associazioni combat¬ 
tentistiche, dai fascisti. Piazza Venezia e l’Altare della patria diven¬ 
nero il «centro sacro», dove si celebravano frequenti riti di benedi¬ 
zione e consegna delle bandiere. Gli oppositori del fascismo giudi¬ 
cavano l’eccesso di riti una retorica festaiola: «Non è retorica», rea¬ 
giva un giornale fascista romano, perché non «esiste grandezza di 
nazioni, senza manifestazioni rituali della religione della Patria. 
Ogni popolo, che fu grande nella Storia, fu anche ricco di simboli e 
di esterne liturgie». E aggiungeva che chi non condivideva il culto 
della bandiera doveva esser messo al bando dalla comunità nazio¬ 
nale, perché chi «disprezza d simbolo tnon] sente il ‘rispetto uma¬ 
no’ per tutto ciò che forma H patrimonio spirituale della Nazione. 
Anche d disprezzo del simbolo è indice di vigliaccheria, tanto è ve¬ 
ro che nei giorni dell’ignominia, le decorazioni si nascondevano e le 
insegne si riponevano con ogni cura». La sagra delle bandiere se¬ 
gnava «una data storica; un giorno luminoso di un’era nuova»^^. 

Era chiaro, da questo come da altri commenti della stampa 
fascista e filofascista, che la venerazione della bandiera rappre¬ 
sentava qualcosa di più che un omaggio reso al simbolo della pa¬ 
tria: era l’inizio di un radicale mutamento di clima politico, in cui 
non sarebbe stato più consentito avere atteggiamenti indifferen¬ 
ti, o peggio ostili, verso la sacralità della patria. Il fascismo mira¬ 
va ad affermare la sua diversità privilegiata rispetto a tutti gli al¬ 
tri partiti, anche attraverso l’istituzione di un culto della patria, 
che doveva legittimare e consacrare il «regime fascista», secondo 
l’espressione corrente già aU’indomani della marcia su Roma, co¬ 
me unica espressione della volontà della «nuova Italia» sorta dal¬ 
la guerra, e unico interprete della volontà della nazione. 


Peste deir unità nazionale 

Subito dopo l’andata al potere, il fascismo rinnovò e arricchì 
il calendario delle feste laiche dello Stato, fissandone le modalità 


Sagra nazionale, in «Il Giornale di Roma», 25 giugno 1923. Cfr. anche 
G. Bottai, Sagra italica, ivi, 22 e 24 aprile 1923. 



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Il culto del littorio 


di celebrazione*^. Alle feste dello Statuto, del 20 settembre e del 
4 novembre (che era stata istituita il 23 ottobre 1922) furono ag¬ 
giunte, fra le feste civili, il 24 maggio, anniversario dell’entrata in 
guerra, e il 21 aprile. Natale di Roma, per celebrare la giornata 
del lavoro in sostituzione della festa del Primo maggio. Tuttavia, 
nella istituzionalizzazione del culto del littorio, queste feste eb¬ 
bero funzioni differenti, o non l’ebbero affatto, come accadde 
per le due feste tradizionali dell’Italia unita, l’anniversario dello 
Statuto e il 20 settembre. 

Rito di carattere prettamente monarchico e militare, la festa 
dello Statuto, negli ultimi anni, era stata ignorata da molte am¬ 
ministrazioni, e trascurata anche nella capitale. Per l’anniversa¬ 
rio del 1923, fu ripristinata la rivista militare, che i governi del 
dopoguerra, secondo quanto scriveva il quotidiano dei naziona¬ 
listi, non avevano osato consentire, confinando le manifestazioni 
militari all’interno delle caserme, col minimo di spettatori*^. Il 3 
giugno, la ricorrenza fu festeggiata a Roma e nelle altre città con 
rinnovato fasto; imbandieramento degli edifici pubblici, cortei, 
discorsi e riviste militari nelle città sedi di guarnigione, alla pre¬ 
senza delle autorità civili e religiose. Va però notato lo scarso ri¬ 
lievo che la pubblicistica fascista diede a queste cerimonie: la cro¬ 
naca dell’anniversario fu riportata, senza commenti, da «Il Po¬ 
polo d’Italia» in due mezze colonne della terza pagina^'*. Musso¬ 
lini, che in quei giorni era in visita nel Veneto, parlando a Vene¬ 
zia il 3, dopo aver assistito ad una «superba parata», in due di¬ 
scorsi non fece alcun accenno alla ricorrenza. 

In realtà, il fascismo non mostrò mai interesse per la festa dello 
Statuto nell’ambito della istituzionalizzazione del culto del littorio. 
Negli anni del regime, la festa venne doverosamente celebrata, con¬ 
servando il suo carattere monarchico e militare, ma i simboli fasci¬ 
sti rimasero fuori dalla coreografia della parata nella capitale: l’u¬ 
nico inno suonato dalle bande rimase la Marcia reale, che in tutte 
le altre manifestazioni ufficiali era invece abbinata all’inno fascista. 
L’elemento fascista entrò a far parte della rivista militare solo con 

Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1924, fase. 2.4.1 n. 996. 

Finalmente!, in «L’Idea nazionale», 2 giugno 1923. 

L’Italia celebra nella festa dello Statuto la sua fede e la sua disciplina, in 
«II Popolo d’Italia», 5 giugno 1923. 


IL La patria in camicia nera 


65 


una rappresentanza della Milizia e delle organizzazioni giovanili fa¬ 
sciste^*. La stampa del regime relegò in genere la cronaca della fe¬ 
sta nelle pagine interne, fra cerimonie e manifestazioni varie, men¬ 
tre ai riti del culto del littorio, nella capitale e nelle province, erano 
dedicate l’intera prima pagina e, a volte, varie pagine interne^^. Fe¬ 
sta del «vecchio regime», l’anniversario dello Statuto non si pre¬ 
stava ad essere incorporato nella liturgia fascista, come accadde in¬ 
vece per gli anniversari della Grande guerra. Tuttavia, se la ceri¬ 
monia rimase quasi integralmente monarchica nella capitale, nelle 
altre città subì una progressiva contaminazione da parte fascista, 
con la larga partecipazione delle organizzazioni del partito e della 
MVSN, assumendo, nella interpretazione ufficiale, il significato 
simbolico di rito di concordia fra monarchia e regime, fra esercito 
e milizia-^^. La festa monarchica nelle province finì per confonder- 


Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1926, fase. 4.1 n. 2074; ivi, 1927, fase. 2.4.1 
n. 2033. 

In oeeasione della festa dello Statuto nel 1931, il quotidiano di Musso¬ 
lini dedieava due eolonne in quinta pagina alla parata romana, e un eenno som¬ 
mario alle manifestazioni nelle provinee: «La Festa dello Statuto è stata eele- 
brata ieri in tutta Italia. Ovunque ai pubbliei edifiei ed alle ease private è sta¬ 
to esposto il trieolore nazionale. Nelle sedi di guarnigione si sono svolte riviste 
delle truppe e della milizia e cerimonie di carattere militare, alle quali hanno 
presenziato le autorità e le gerarchie, oltre folle di popolo. Altre cerimonie pa¬ 
triottiche e fasciste hanno caratterizzato in alcune città la solennità della gior¬ 
nata. La sera sono state accese ricche luminarie sulle facciate degli uffici e sui 
principali monumenti. Sempre e dovunque ha regnato il massimo entusiasmo» 
(«Il Popolo d’Italia», 9 giugno 1931). 

Citiamo, come esempio di una cerimonia tipica durante il regime, la re¬ 
lazione del prefetto di Ascoh Piceno per la celebrazione dell’anniversario del 
1931: «Questa mattina ad ore nove ebbe luogo la rivista militare nella forma 
più solenne e più austera. Attorno alla bandiera del reggimento fanteria deco¬ 
rato di medaglia d’oro e a fianco valoroso reggimento era presente tutto il fa¬ 
scismo nelle sue organizzazioni e nelle sue rappresentanze. Spettacolo vera¬ 
mente imponente di forza e di patriottismo fascista. Prefetto ha presenziato in¬ 
dossando uniforme della sua carica seguito da tutte le autorità in abito di ce¬ 
rimonia. La città sfarzosamente imbandierata specie nella via e nella piazza del¬ 
la rivista. Al passaggio del reggimento e delle organizzazioni del partito dalle 
finestre venivano lanciati fiori. Una enorme folla di cittadini aveva gremito il 
corso e la piazza recando nella manifestazione il suo spirito patriottico ed il suo 
alto entusiasmo. Nessun incidente.» (ACS, MI, DGPS, 1930-1931, cat. C4, b. 
373, telegramma del 7 giugno 1931). Durante la cerimonia, si svolgevano a vol¬ 
te atti simbolici, come la consegna di un pugnale o di un vessillo, per inneg¬ 
giare «alla fusione di spiriti tra Esercito et Milizia» (ivi, telegramma del pre¬ 
fetto di Alessandria, 7 giugno 1931). 



66 


Il culto del littorio 


I 


si con le altre cerimonie del regime, pur restando l’esercito il prin¬ 
cipale protagonista della manifestazione, al punto che in alcune re¬ 
lazioni sullo svolgimento della festa i prefetti parlavano solo di «ma¬ 
nifestazioni devozione regime e Duce»^*^, di «prova magnifico svi¬ 
luppo idea fascista et attaccamento al Governo Nazionale et al 
Duce»^^, ignorando qualsiasi riferimento al re e alla monarchia. 

Quanto alla festa del 20 settembre, la celebrazione nel 1923 
mostrò chiaramente che il fascismo intendeva cancellare dalla 
manifestazione qualsiasi traccia della tradizione democratica e 
anticlericale, trasformandola in una occasione per esaltare un 
ideale collegamento fra la conquista del 1870 e la «marcia su Ro¬ 
ma». Alle cerimonie organizzate nella capitale per festeggiare la 
data «storicamente fondamentale nella storia della patria e nella 
sua unificazione», il governo volle dare il carattere «di afferma¬ 
zione unitaria al di sopra delle sette e dei partiti», come manife¬ 
stazione di una «compiuta solidarietà degli italiani», che aveva¬ 
no saputo superare «nell’unica fedeltà alla Patria, anche quella 
intransigenza che la devozione religiosa continuava a tener viva 
nello spirito dei credenti»^''’. Negli anni successivi, la festa fu ri¬ 
cordata sempre in tono minore, finché nel 1930, dopo una serie 
di puntigliose polemiche fra Mussolini e il Vaticano, fu sacrifica¬ 
ta sull’altare della conciliazione, e venne abolita^^. 


La fascistizzazione del culto della patria 

Un ruolo centrale nell’istituzione del culto della patria, in fun¬ 
zione della legittimazione del potere fascista, ebbe soprattutto la 
glorificazione della Grande guerra, con i riti per gli anniversari del¬ 
l’intervento e della vittoria. Giunto al potere, il fascismo si impegnò 
molto per sviluppare il mito della guerra, trasfigurandola in una 

2'' Ivi, telegramma del prefetto di Lucca, 8 giugno 1931. 

Ivi, telegramma del prefetto di Messina, 7 giugno 1931. 

Al di sopra delle sette e dei partiti, in «Il Popolo d’Italia», 21 settembre 
1923. Per una dettagliata cronaca delle manifestazioni cfr. «L’Idea nazionale», 
21 settembre 1923. 

27 Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930, fase. 3.3.3. n. 4137; ivi, fase. 14.4 
n. 6735, MAE, Affari politici, 1919-30, S. Sede, b. 9, fase. «Abrogazione della 
festività del 20 settembre». 


II. La patria in camicia nera 


67 


epopea di eroismo e di martirio consacrata alla divinità della patria. 
L’Italia aveva pagato alla storia il tributo di un copioso sacrificio di 
sangue, in una guerra mondiale che aveva legittimato le sue aspira¬ 
zioni di grande potenza. E, come avevano invocato i nazionalisti, il 
Pantheon della sua «storia sacra» si arricchì di caduti, di eroi e di 
martirP^. Il 3 novembre fu pubblicato un decreto che elevava «a di¬ 
gnità di monumenti nazionali le località dei nostri campi di batta¬ 
glia che più sono legati alla storia per immortali fasti di eroismo e 
di sacrificio [...] capisaldi sacri all’epica lotta», capaci di «riassu¬ 
mere e simboleggiare in sé la visione genuina della guerra, di com¬ 
pendiarne le fattezze eroiche, di incarnarne il tormento, il sacrificio 
e l’apoteosi»^^. Nella sua prima riunione, inoltre, il governo Mus¬ 
solini, su proposta del presidente, deliberò di celebrare con gran¬ 
de solennità il 4 novembre, secondo modalità che furono conser¬ 
vate per i successivi anniversari, senza sostanziali cambiamenti. La 
mattina del 4, dopo una funzione religiosa nella chiesa di S. Maria 
degli Angeli, con la partecipazione del re accompagnato da tutti i 
grandi ufficiali dello Stato, i membri del governo e il presidente si 
recarono in piazza Venezia, dove furono accolti da una grande fol¬ 
la. Mussolini e i membri del governo salirono fino all’Altare della 
patria e qui resero omaggio al Milite Ignoto sostando per un minu¬ 
to in ginocchio. Il gesto fu giudicato teatrale da qualche osservato¬ 
re straniero, ma l’importanza del suo significato simbolico, come 
espressione del misticismo politico fascista, non fu trascurata^®. 


28 pgj. quadro sommario dei provvedimenti, cfr. Camera dei deputati, 
Legislatura XXVII, La legislazione fascista 1922-1928, cit., pp. 574-588. 

2^ Dalla relazione che accompagna lo schema del decreto legge, cit. in G.A. 
Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, voi. V, parte II, Firenze 1929, p. 266. 

Cfr. F. Charles-Roux, Souvenirs diplomatiques. Une grande ambassade à 
Rome (1919-1925), Parigi 1961, pp. 192-193. In un rapporto del 2 novembre 
1922 al suo governo Charles-Roux, incaricato d’affari dell’ambasciata francese 
a Roma, aveva osservato a proposito di Mussolini e del fascismo: «Le levier 
dont il s’est servi pour préparer et faire son insurrection est le patriotisme; une 
sorte de sentiment religieux de la patrie, qu’il affirmera encore dans une ma- 
nifestation annoncée pour le 4 novembre, anniversaire de l’armistice. Il y fera 
encore appel dans la suite pour entretenir dans l’opinion publique en général 
les sympathies nombreuses qu’il a éveillées et que son succès a fortifiées. 

Son patriotisme est de nature exaltée, je dirai méme immodérée dans la 
masse fasciste. Le sens de responsabilités ne le tempère que chez M. Mussoli¬ 
ni lui-méme et dans les éléments non fascistes qui sont venus à lui et coopè- 
rent maintenant avec lui» (Archives Ministère des Affaires Étrangères, Paris, 
Europe 1918-1940, Italie, voi. 62). 



68 


Il culto del littorio 


Sei mesi più tardi, Tanniversario dell’entrata in guerra fu ce¬ 
lebrato con eguale solennità nella capitale e nelle altre città con 
la partecipazione delle forze armate, dalle associazioni dei com¬ 
battenti, dei mutilati, degli invalidi, delle madri dei caduti, delle 
vedove e degli orfani di guerra, e naturalmente del partito fasci¬ 
sta. Ovunque la ricorrenza fu festeggiata con imbandieramento 
di edifici pubblici e privati, cerimonie e cortei accompagnati da 
bande al canto di inni patriottici, che si concludevano spesso con 
l’inaugurazione di un monumento o una lapide ai caduti, e con 
orazioni inneggianti alla patria risorta e al nuovo governo nazio¬ 
nale. Mussolini si recò in «sacro pellegrinaggio»^^ al cimitero di 
Redipuglia, dove partecipò, con membri del governo ed alti uf¬ 
ficiali dell’esercito, ad una grande adunata di reduci. Il duca 
d’Aosta, dopo la funzione religiosa, evocò «la gloriosa epopea del 
grande riscatto» e i «primi Eroi» che avevano consacrato la vita 
«sulla forca d’Asburgo, simbolo del martirio redentore nella re¬ 
ligione d’Italia, come la croce nella religione di Cristo»; ricordò 
il martirio di sangue nelle battaglie, il «Golgota tremendo» di Ca- 
poretto, e quindi la resurrezione deir«Italia crocefissa» fino alla 
vittoria. Concluse con un’invocazione ai «martiri sublimi», ai 
«purissimi Eroi», ai «Santi del Carso» di vegliare sulla patria 
«sempre fiammeggiante di avvenire e di gloria»^^. 

L’immagine della resurrezione, legata al culto della Grande 
guerra, era comune nella retorica patriottica, ma essa acquistò un 
particolare significato nella fascistizzazione del mito della guer¬ 
ra, diventando mito di fondazione nell’universo simbolico fasci¬ 
sta sia per quanto riguarda gli aspetti rituali del culto del litto¬ 
rio, sia per quanto riguarda gli aspetti epici, sviluppati nella in¬ 
venzione di una «storia sacra» per la religione fascista. Facendo 
ricorso ad analoghe metafore cristologiche, infatti, il fascismo 
esaltò l’intervento presentandolo come l’atto voluto e imposto da 
una «aristocrazia morale e spirituale del popolo» insorta a recla¬ 
mare «la propria croce per salire il calvario della redenzione»^^. 
Di questa aristocrazia, il fascismo si proclamava principale espres- 

Il sacro pellegrinaggio, in «Il Popolo d’Italia», 24 maggio 1923. 

La commovente adunata di Redipuglia, in «Il Popolo d’Italia», 25 mag¬ 
gio 1923. 

Celebrazioni, in «Il Popolo d’Italia», 24 maggio 1923. 



Fig. 4. Mussolini dinanzi alla tomba del Milite Ignoto. 



70 


Il culto del littorio 


sione, unico erede e legittimo rappresentante. Il 24 maggio, scri¬ 
veva «Il Popolo d’Italia», «che nessun Governo aveva finora osa¬ 
to celebrare, è la data folgorante che segna il limitare della nuo¬ 
va vita, e sta nitidamente tra due periodi, due epoche, due mon¬ 
di di là comincia il dissidio intimo e profondo tra la vecchia 
e la nuova Italia», è la «giornata gloriosa delhinterventismo ita¬ 
liano, è la magnifica epifania dell’anima nuova»^-*, che la rivolu¬ 
zione fascista aveva fatto trionfare. 

Un’intepretazione analoga venne data per l’anniversario del¬ 
la Vittoria, celebrato nel 1923 con eguale solennità dell’anno pre¬ 
cedente, in coincidenza con la celebrazione della «marcia su Ro¬ 
ma» per il primo anno di governo fascista: la crescente parteci¬ 
pazione della popolazione alle feste della Grande guerra, affer¬ 
mava l’organo mussoliniano, testimoniava una «ripresa di senti¬ 
mento patriottico [...] annualmente segnata, dosata, dall’affer- 
marsi e dall’ingigantire del moto fascista, unico e solo artefice 
della ricreata e ritrovata coscienza nazionale del popolo italia- 
no»^^. 

I motivi della fascistizzazione del culto della patria, avviato con 
i riti per la Grande guerra, sono attribuibili, in parte, alla natura 
stessa della religione fascista, che, per il suo carattere sincretico e 
totalitario, mirava ad assimilare i movimenti patriottici affini, co¬ 
me il combattentismo, l’arditismo e il fiumanesimo, imprimendo¬ 
vi il marchio del littorio. Ma vi furono anche motivi di necessità 
politica: il culto della patria, per il fascismo, era un’arma fonda- 
mentale per la conquista del consenso, ma era anche un’arma che 
il patriottismo antifascista adoperava per minare le basi del con¬ 
senso al governo Mussolini, contestando al partito fascista la pre¬ 
tesa di essere l’unico depositario dei valori combattentistici, e l’u¬ 
nico interprete della nazione. Fra il 1923 e il 1925, gli anniversari 
della Grande guerra furono occasione per tensioni e scontri fra op¬ 
poste concezioni della patria, come era già accaduto nell’Italia del 
postrisorgimento. Per il fascismo, conquistare il monopolio del 
culto della patria significava contenderne la celebrazione ai movi¬ 
menti combattentistici antifascisti, che potevano egualmente e a 
giusto titolo reclamare il diritto di essere legittimi custodi del mi- 


Ibid. 

Cinque anni dopo!, in «Il Popolo d’Italia», 6 novembre 1923. 


IL La patria in camicia nera 


71 


to della guerra e della «religione della patria»^^’. Con questi grup¬ 
pi, il fascismo al potere ingaggiò una nuova guerra di simboli e ri¬ 
ti che ebbe il suo momento culminante durante le manifestazioni 
per il 4 novembre 1924^^. In molte città le celebrazioni ufficiali fu¬ 
rono contestate da controdimostrazioni dei combattenti antifasci¬ 
sti, come quelle promosse dall’associazione «Italia Libera», che 
provocarono incidenti soprattutto nella capitale^*. 

Con l’instaurazione del regime di partito e l’eliminazione delle 
opposizioni, il rischio dell’antagonismo scomparve. Per l’anniver¬ 
sario della Vittoria, nel 1925, fu predisposto un rigoroso servizio 
di vigilanza sui «cosiddetti combattenti dissidenti residui dei dis¬ 
solti partiti di opposizione, per prevenire ed eventualmente impe¬ 
dire che possano inscenare manifestazioni di piazza, in contrasto 
con le cerimonie ufficiali e con quelle organizzate dalle associa¬ 
zioni nazionali dei combattenti e dei mutilati»^^. Inoltre, fascistiz¬ 
zati i vertici delle associazioni combattentistiche, si potè procede¬ 
re senza ostacoli alla incorporazione dei riti della «patria risorta» 
nel culto del littorio, anche se alle associazioni della Grande guer¬ 
ra fu lasciato il posto d’onore nelle cerimonie, con una parte prin- 


È possibile seguire, proprio in questo periodo, la strategia del fascismo per 
la conquista dell’universo simbolico patriottico, attuata non solo attraverso 
un’interpretazione tutta fascista degli eventi, ma mettendo in pratica un azione 
preordinata per assicurare al partito fascista l’egemonia nelle manifestazioni pa¬ 
triottiche. Per esempio, in occasione della solennità civile del 16 marzo 1924, per 
celebrare l’annessione di Fiume, Mussolini diede disposizioni ai prefetti di cura¬ 
re l’organizzazione dei festeggiamenti promuovendo nei centri più importanti 
«ed ove è possibile manifestazioni popolari (cortei, comizi ecc.) delle quali sa¬ 
rebbe bene prendessero l’iniziativa le amministrazioni comunali fasciste oppure 
i fasci, d’intesa possibilmente con le associazioni combattenti e mutilati» e con la 
partecipazione di «rappresentanti i Corpi armati (Esercito Marina Aeronautica 
Milizia volontaria Sicurezza Nazionale) che hanno sede sul posto» facendo inol¬ 
tre montare a turno, da questi corpi, la guardia d’onore ai monumenti e alle la¬ 
pidi ai caduti (ACS, PCM, Gabinetto, 1924, fase. 2.4.2 n. 396). 

Per l’organizzazione delle manifestazioni, governo e partito si impegna¬ 
rono in modo da assicurare la massima presenza fascista. Mussolini volle assi¬ 
curarsi anche la partecipazione del re alle cerimonie. Cfr. ACS, PCM, Gabi¬ 
netto 1924, fase. 2.4.1 n. 2709. 

Cfr. L. Zani, Italia libera, Roma-Bari 1975, pp. 102-103; «Il Popolo d I- 
talia», 5 e 6 novembre 1924. Il giornale definì «profanatori del Mito» gli or¬ 
ganizzatori, fra i quali vi erano i fratelli Peppino e Sante Garibaldi, della con¬ 
tromanifestazione romana, che si svolse anche all insegna del garibaldinismo. 

ACS, MI, DGPS, 1925, cat. C4, b. 98, disposizione della questura di Ro¬ 
ma, 2 novembre 1925. Analoghe misure furono prese negli anni successivi. 



72 


li culto del littorio 


cipale nell’organizzazione delle manifestazioni. Nel 1927, per il 24 
maggio, il partito non prese alcuna iniziativa, lasciando l’organiz¬ 
zazione delle celebrazioni all’associazione dei combattenti-^^. La 
celebrazione, si legge nelle disposizioni della questura di Roma per 
l’ordine pubblico, «trova quest’anno unite e concordi tutte le for¬ 
ze vive del Paese, perfetta essendo ormai la fusione di animi e di 
intenti fra i Fasci di combattimento e le associazioni dei combat¬ 
tenti, dei mutilati e dei volontari, di fronte alla grande opera di rin¬ 
novamento compiuta dal Governo Nazionale»-*^ Le cerimonie 
nella capitale culminarono con l’omaggio che combattenti, muti¬ 
lati e invalidi resero al segretario del partito fascista, e con l’atto di 
devozione e di fedeltà al duce e al regime. Alla fascistizzazione dei 
riti, corrispose la fascistizzazione definitiva della storia; le «radio¬ 
se giornate» divennero «l’origine e la prima affermazione di quel¬ 
la volontà rivoluzionaria che doveva condurre allo spodestamen¬ 
to del vecchio regime e all’avvento al potere della nuova genera¬ 
zione italiana [...] i maggiori protagonisti dell’intervento sono in 
gran parte i capi del Fascismo e della Nazione, da Benito Musso¬ 
lini ai suoi collaboratori»-^^. Nella mitologia fascista. Mussolini as¬ 
surse a principale protagonista e artefice dell’intervento e della vit¬ 
toria, e quindi a capo indiscusso dei combattenti. Nel 1930, l’in¬ 
corporazione del rito del 24 maggio nel culto del littorio fu sanci¬ 
ta a Milano con una grande adunata nazionale di combattenti, mu¬ 
tilati e invalidi. Mussolini, dopo aver acceso, con gesto sacerdota¬ 
le, la fiamma sacra sull’ara nel «tempio dei caduti» ricevette dal 
presidente dei mutilati Carlo Delcroix il «Bastone del comando» 
come «premio della riconoscenza al Restauratore della Patria»; 
«Nel consegnarvelo - disse l’oratore -, noi intendiamo riconosce¬ 
re che sta a voi comandare e a noi di ubbidire»*^^. 

Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1927, fase. 2.4.1 n. 2033. 

■*' Ibid. 

«Il Popolo d’Italia», 25 maggio 1931. 

«Il Popolo d’Italia», 23 maggio 1930. Nel 1932, in occasione del XVII an¬ 
niversario dell’intervento, «Il Popolo d’Italia» scriveva che la celebrazione non 
era «soltanto la rievocazione dell’entrata in guerra dell’Italia: nella coscienza del 
popolo ormai il 24 maggio, data fatidica, rappresenta anche l’origine prima del¬ 
la Rivoluzione Fascista e l’inizio di una nuova storia per l’Italia», perché l’inter¬ 
vento «fu infatti la prima manifestazione rivoluzionaria con la quale il popolo ita¬ 
liano affermò la sua nuova volontà di potenza e di liberazione dal vecchio regi¬ 
me politico» (Le cerimonie odierne, in «Il Popolo d’Italia», 24 maggio 1932). 


IL La patria in camicia nera 


73 


La stessa sorte toccò alla festa del 4 novembre che, grazie alla 
contiguità con l’anniversario della «marcia su Roma», si prestava 
facilmente ad essere assimilata a quest’ultima, come altra data de¬ 
cisiva della rivoluzione fascista, perché, affermava «Il Popolo d’I¬ 
talia» nel 1924, il fascismo «prese il potere per la delega e la procu¬ 
ra dei combattenti, vivi e morti» e «vuole continuare a governare in 
nome di questa sublime investitura. Benito Mussolini è l’uomo, il 
quale [...] restaurò il tempio dell’Italia profanata»*^-^. Instaurato il 
regime, la festa conservò il carattere di celebrazione del combat¬ 
tentismo, ma alla rievocazione della Vittoria si affiancò, e sempre 
più si sovrappose, il rito di una collettiva manifestazione di dedi¬ 
zione e di obbedienza al duce e al fascismo, anche se l’incorpora¬ 
zione di questa festa nel culto del littorio dovette esigere all’inizio 
una certa cautela, per non riaccendere tensioni fra combattenti e fa- 
scistP^. Per gli anniversari del 28 ottobre e del 4 novembre del 1930, 
tutte le associazioni della Grande guerra diramarono una dichiara¬ 
zione congiunta che sanciva l’avvenuta assimilazione delle due ri¬ 
correnze; «Uniti nell’amore che è fede noi salutiamo ogni anno le 
due date di gloria; l’una illumina l’altra, ché entrambe ci annunzia¬ 
rono il magnanimo presente con le sue dure fatiche»"^*^. Nel 1930, 
le cerimonie furono dominate dal rito del giuramento dei giovani 
iscritti ai Fasci giovanili, da poco costituiti. Anche per il 4 novem¬ 
bre, dunque, l’incorporazione era stata compiuta; 

stamane - riferiva il prefetto di Modena il 4 novembre 1930 - dopo 
celebrazione messa tempio monumentale questo capoluogo in me¬ 
moria caduti guerra autorità civili militari gerarchi convennero pa¬ 
lazzo Littorio per deporre corona lapide ricordante caduti fascisti et 
per assistere giuramento giovani fascisti stop formatosi poscia impo¬ 
nentissimo corteo con partecipanti autorità fasci organizzazioni Par¬ 
tito et numerosissimo pubblico stop corteo deposto altre corone la¬ 
pidario accademia militare recossi monunlento caduti guerra per 
ascoltare orazione commemorativa."*^ 


Il giorno sacro, in «Il Popolo d’Italia», 4 novembre 1924. 

Su alcuni casi di tensione nel 1925, cfr. ACS, MI, DGPS, 1925, cat. C4, 
b. 98, telegrammi del prefetto di Potenza e del prefetto di Venezia, 4 novem¬ 
bre 1925. 

46 ACS, MI, DGPS, 1930-1931, cat. C4, b. 372, circolare dell’ANC n. 
24219, 23 ottobre 1930. 

47 Ibid. 


ì 






74 


Il culto del littorio 


Col passare degli anni, ai riti della «patria risorta» si sovrappo¬ 
se sempre più il simbolismo fascista. Le cerimonie associavano in 
molti casi, in un unico rito, il culto dei caduti per la patria e il cul¬ 
to dei caduti per la rivoluzione fascista. Parlando ad Enna per l’an- 
niversario della Vittoria, nel 1932, in occasione dell’inaugurazione 
del monumento ai caduti, il sottosegretario Ruggero Romano po¬ 
se «in rilievo come nel decennale del Regime i Caduti della Guer¬ 
ra e della Rivoluzione siano tornati ravvolti nello stesso tricolo- 
re»‘^^. Il partito, inoltre, estese il suo controllo sull’apparato cele¬ 
brativo, fissando le modalità delle cerimonie. La formalizzazione 
rituale tipica degli anniversari della Grande guerra, dopo l’incor¬ 
porazione nel culto del littorio, è descritta sinteticamente nella re¬ 
lazione del prefetto di Padova del 4 novembre 1932: 

Ricorrenza anniversario vittoria con intervento organizzazioni svol¬ 
tasi tutti comuni provincia con grande entusiasmo e senza incidenti. 
Questo capoluogo dopo messa celebrata stamane Duomo, presenti au¬ 
torità civili e militari organizzazioni partito, reparti armati e rappre¬ 
sentanze combattenti e mutilati convenute da tutti comuni provincia, 
formatosi imponente corteo che si è recato monumento caduti per de¬ 
porre corone e assistere benedizione impartita S.E. Arcivescovo. 

Corteo ricostituitosi ha poscia raggiunto al canto inni patriottici 
parco Rimembranze ove sono stati letti fra grandi applausi bollettino 
vittoria bollettino Marina e motivazione concessione croce guerra 
questa città. Pomeriggio oggi questo teatro comunale presente auto¬ 
rità associazioni organizzazioni e gremito pubblico presente questa fe¬ 
derazione combattenti ha efficacemente rievocato data vittoria susci¬ 
tando entusiastiche appassionate manifestazioni consenso e devozio¬ 
ne Casa Savoia Duce e Regime."*^ 


Il simbolo della nuova era 

La istituzione del culto della patria, incentrato sulla glorifica¬ 
zione della guerra, servì a preparare l’ambiente per instaurare il 
culto del littorio come liturgia di Stato. Giunto al potere, il fasci- 

ACS, MI, DGPS, 1932, cat. C4, sezione 2a. b. 58, telegramma del pre¬ 
fetto di Enna, 4 novembre 1932. 

Ibid. 



Fig. 5. Mussolini, i gerarchi e i membri del governo alla tomba del 
Milite Ignoto il 4 novembre 1937 («La Rivista illustrata del Popolo 
d’Italia», novembre 1937). 



76 


Il culto del littorio 


smo accelerò la simbiosi fra la religione nazionale e la religione fa¬ 
scista, avviata dallo squadrismo, e per rendere percepibile imme¬ 
diatamente, per simboli, il significato irrevocabile e rivoluzionario 
del cambiamento di governo avvenuto con la «marcia su Roma», 
iniziò con la fascistizzazione della simbologia dello Stato. 

Alcune settimane dopo la formazione del governo presieduto 
da Benito Mussolini, sorse fra i suoi collaboratori l’idea di cele¬ 
brare l’avvenimento con un atto simbolico. Nella seconda metà 
di dicembre, pervenne a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla 
Presidenza del consiglio, la proposta di «interessare Mussolini 
perché costituisca sin da ora un segno imperituro avvento del 
fascismo al potere», suggerendo in tal senso un «impronta speciale 
da darsi ad una moneta di circolazione normale» in sostituzione 
della spiga o del fiore con l’ape, simboli delle monete in corso. 
Acerbo trasmise la proposta ad Alberto De Stefani, ministro del¬ 
le Finanze, il 22 dicembre, con la preghiera di «promuovere al 
riguardo gli opportuni provvedimenti», perché il presidente l’a¬ 
veva «eminentemente gradita ed approvata» per «il suo speciale 
significato». Il ministro, due giorni dopo, scriveva direttamente 
a Mussolini dicendosi «lieto di aver potuto prevenire un deside¬ 
rio dell’E.V.», perché egli stesso aveva «già da alcuni giorni di¬ 
sposto che fossero preparati i punzoni per le nuove monete [...] 
recanti inciso il fascio littorio, simbolo di Roma antica e della 
nuova Italia»^^’. La proposta, preannunciata il 27 dicembre dal 
«Popolo d’Italia», fu presentata da Mussolini al Consiglio dei mi¬ 
nistri e approvata nella riunione del T gennaio 1923^^ Con un 
regio decreto legge del 21 gennaio, fu quindi disposta remissio¬ 
ne di 100 milioni di lire in pezzi di nichelio puro del valore no¬ 
minale di lire una e di lire due, recanti da un lato l’effigie del re 
e dall’altra il fascio littorio. Margherita Sarfatti, critica d’arte do¬ 
tata di notevole sensibilità per l’estetica della propaganda e per 
l’importanza politica dei simboli, rivolse un pubblico appello al 
presidente del Consiglio invitandolo ad affidare al sottosegreta¬ 
rio per le Belle Arti l’incarico di definire «la impronta, il modo 
e la forma» del fascio «suUe monete della nuova Italia», perché 
la moneta era «arma potentissima per la diffusione del senso del- 


ACS, PCM, Gabinetto, 1922, fase. 9.8 n. 3143. 

«Il Popolo d’Italia», 27 dicembre 1922 e 2 gennaio 1923. 


II. La patria in camicia nera 


77 


la bellezza» e «umile agente di propaganda che penetra ovunque, 
passa per ogni mano, aU’interno e all’estero, dice a tutti e rap¬ 
presenta per tutti l’Italia». Il nuovo simbolo doveva «avere una 
interpretazione di autorità e di bellezza degne» per proclamare 
«alto nei secoli, di sotto la zolla frugata, la gloria di Roma impe¬ 
ritura»; fra «venti secoli, l’ignaro contadino che arando troverà 
nel gesto millenario un dischetto confuso tra la terra bruna, ri¬ 
pulendolo, trovi il nome augusto del Re e il simbolo del Fascio, 
che rinverdisce per opera e onore di Benito Mussolini, impressi 
in suggello di bellezza e di sovrana nobiltà»^^. 

Il fascino della gloria futura, evocata dalla scrittrice che co¬ 
nosceva bene l’intima ambizione del duce, il quale le aveva con¬ 
fidato di essere posseduto dalla smania di «incidere, con la [sua] 
volontà, un segno nel tempo»^^, non poteva certo lasciare indif¬ 
ferente Mussolini. L’incarico di ricostruire Timmagine del fascio 
littorio nella sua originale versione romana fu affidato al senato¬ 
re Giacomo Boni, illustre archeologo che dirigeva gli scavi nel 
Foro e sul Palatino. La figurazione della moneta fu studiata con 
cura speciale, per il «significato simbolico del fascio, il quale non 
è solamente un simbolo di forza e di dominio, ma aveva anche 
un profondo significato religioso»^-^. Mussolini scelse il modello 
raffigurante un fascio di verghe con una scure collocata lateral¬ 
mente. Questa rappresentazione era considerata fedele alla sim¬ 
bologia romana, invece deir«aspetto arbitrario» e delle «defor¬ 
mazioni» che il simbolo aveva subito nella foggia diffusa dalla ri¬ 
voluzione francese e da questa passata poi nella simbologia ri¬ 
sorgimentale, cioè con una scure o un’alabarda, sormontata da 
un cappello frigio, in cima alle verghe^^. 

L’adozione del fascio nelle monete non rimase un episodio 
isolato, dovuto all’iniziativa occasionale di qualche zelante colla¬ 
boratore del duce. Lo stesso Mussolini, secondo quanto scriveva 
«Il Popolo d’Italia» del 14 novembre 1922, aveva voluto far in- 

Il Fascio romano simbolo dello Stato sulle nuove monete, in «Il Popolo 
d’Italia», 13 gennaio 1923. Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1923, fase. 9.8 n. 1379. 

M. Sarfatti, D«x, Milano 1930, p. 314. 

Cfr. Il simbolo del Fascio Romano ricostituito nella sua storica realtà dal 
Sen. Boni, in «Il Giornale di Roma», 3 aprile 1923; L. Falchi, Le origini del Fa¬ 
scio littorio, ivi, 12 aprile 1923. 

” I colori di Roma, in «Il Giornale d’Italia», 21 ottobre 1923. 







78 


Il culto del littorio 


cidere il simbolo del fascio nel sigillo di ministro degli Esteri. Po¬ 
chi mesi dopo, i giornali annunciarono l’emissione di una serie 
speciale di francobolli recanti il simbolo del littorio, dedicati al¬ 
la commemorazione deir«ascesa del Governo nazionale»^^. E il 
21 ottobre la «Gazzetta ufficiale» pubblicò il decreto con cui ve¬ 
nivano «istituite monete nazionali d’oro commemorative della 
Marcia fascista per l’instaurazione del Governo nazionale», nei 
tagli di L. 100 e di L. 20, con l’effigie del re da un lato, e dal¬ 
l’altro il fascio littorio «recante la scure completa a destra orna¬ 
ta di una testa di ariete». 

Il fascio littorio venne così introdotto ufficialmente nell’ico¬ 
nografia dello Stato italiano, e non bastava certo il richiamo alla 
romanità per attenuare il carattere prettamente di partito che 
l’emblema del littorio aveva assunto con il fascismo. Anche il par¬ 
tito fascista, che aveva per insegna il fascio nella foggia risorgi¬ 
mentale, cominciò ad adottare la versione romana, per depurare 
il suo simbolo da qualsiasi ascendenza legata a ideali di libertà. 
Per il fascismo al potere, l’emblema del littorio, simbolo di unità, 
di forza, di disciplina e di giustizia, aveva un significato religio¬ 
so come simbolo della tradizione sacra della romanità, conside¬ 
rato in stretta relazione con il «culto del fuoco sacro. Le verghe 
e la scure sono gli elementi necessari e sufficienti per alimentare 
un focolare e per poterlo alla occorrenza difenderlo»^^. Ma esso 
era soprattutto il simbolo della rivoluzione fascista e della resur¬ 
rezione della patria per opera del duce, preannunciata dalla 
«riapparizione del fascio littorio»: «Nei tempi fortunosi, turbo¬ 
lenti e vili, che straziarono la nostra patria dopo l’ultima imma¬ 
ne guerra d’indipendenza, più che da un servaggio politico, dal 
servaggio spirituale - scrisse un pregiato archeologo dell’epoca - 
il fascio littorio fu impugnato eroicamente da un Duce. E con 
questo simbolo e con questo Duce l’Italia è risorta»’^. 

Come simbolo della rivoluzione fascista, l’immagine del fascio 
littorio dilagò ovunque, fin dal 1923, per esaltare r«era nuova» 
iniziata con l’avvento del fascismo al potere, secondo un’espres- 

56 I nuovi francobolli col Fascio, in «Il Giornale d’Italia», 3 maggio 1923. 

57 Ij nuova serie di francobolli commemorativi dell’ascesa del governo na¬ 
zionale, in «Il Popolo d’Italia», 3 maggio 1923. 

5« P. Ducati, Origine e attributi del fascio littorio, Bologna 1927. 


II. La patria in camicia nera 


79 


sione che entrò subito in voga. Lo troviamo, per esempio, nella 
foggia rivoluzionaria sul cippo marmoreo, che segnava l’inizio dei 
lavori per l’autostrada Milano-Laghi recante l’iscrizione: «Re¬ 
gnando Vittorio Emanuele III, duce del governo Benito Musso- 
lini»5'^. Nella restaurata versione romana, invece, il fascio appare 
nella medaglia della «Prima mostra romana 1923», sormontato 
dall’iscrizione «Incipit vita nova»‘^°. E lo ritroviamo anche fre¬ 
quentemente usato per l’iconografia pubblicitaria, nelle due ver¬ 
sioni, associato all’idea di innovazione, modernità, giovinezza. 

La consacrazione ufficiale della foggia romana avvenne con l’a¬ 
scesa del fascio nella simbologia dello Stato, che accompagnò la 
costruzione del nuovo regime. Con una circolare del 1° dicembre 
1925, Mussolini dispose che doveva essere collocato su tutti gli 
edifici ministeriali il fascio littorio, e questa disposizione fu estesa 
a tutti gli uffici governativi, anche provinciali, l’anno successivo, 
dopo che un decreto del 12 dicembre 1926 aveva dichiarato il fa¬ 
scio emblema dello Stato, perché nel fascio - disse il deputato Ver¬ 
di, relatore della commissione per la conversione in legge del de¬ 
creto - «si riassume il culto per le tradizioni della stirpe e si espri¬ 
me la volontà di esserne degni in una nuova Era di grandezza»^L 
Contemporaneamente fu bloccata la banalizzazione del simbolo, 
vietando la fabbricazione, la vendita e l’uso di distintivi o insegne 
col fascio littorio senza speciale autorizzazione delle autorità del 
governo o del partito fascista^’^ d^I 1° marzo 1927, per disposi¬ 
zione del ministero dell’Aeronautica, il fascio littorio fu applicato 
a tutti gli aeromobili degli enti dipendenti'^^. Pochi giorni dopo, il 
27 marzo, fu decretato che l’emblema del fascio doveva essere ac¬ 
collato a sinistra dello stemma dello Stato, rappresentato dallo scu¬ 
do di Savoia. Inoltre Mussolini, all’inizio del 1928, dispose che tut¬ 
ti gli stabili delle cooperative edilizie finanziate dallo Stato dove- 


” «L’Illustrazione italiana», 1° aprile 1923. 

«Il Giornale d’Italia», 4 aprile 1923. 

R.d. 12 dicembre 1926 n. 2061, Atti parlamentari, Camera dei deputati. 
Legislatura XXVII, sessione 1924-27, Documenti. Disegni di Legge e relazio¬ 
ni, n. 1189-A. Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930, fase. 3.3.2 n. 1880 e Ga¬ 
binetto, 1940-1943, fase. 3.3.2 n. 552. 

R.d.l. 20 dicembre 1926, n. 2273. Cfr. Ministero dell’Interno, Disposi¬ 
zioni per l’uso dell’emblema del Fascio littorio, Roma 1927. 

Cfr. PNF, «Foglio d’ordini», n. 26, 19 marzo V (1927). 















80 


Il culto del littorio 


vano recare sulla facciata il fascio. E ancora, il 14 giugno dello stes¬ 
so anno, fu dato ulteriore incremento all’«uso generalizzato del¬ 
l’emblema della Rivoluzione fascista» come espressione del «sen¬ 
timento di devozione della nazione verso il simbolo dell’idealità 
del Regime» secondo quanto affermava una circolare della Presi¬ 
denza del consiglio, con un decreto che autorizzava comuni, pro¬ 
vince, congregazioni di carità ed enti parastatali a innalzare sui lo¬ 
ro edifici e sulle opere da loro eseguite il fascio littorio, come pu¬ 
re a fregiarne i sigilli e gli atti ufficiali^*’. A coronamento di questa 
ascesa, il governo stabilì, l’11 aprile 1929, la foggia del nuovo stem¬ 
ma dello Stato, sostituendo con due fasci i leoni di sostegno allo 
scudo Savoia, come era nello stemma in vigore dal 1890''’^. 


/ riti della rivoluzione 

L’ascesa del fascio littorio fra i simboli dello Stato accompa¬ 
gnò la contemporanea ascesa, nella sua liturgia, di riti che cele¬ 
bravano l’avvento del fascismo al potere come una rivoluzione 
che segnava l’inizio di una nuova era. Lo stesso termine «regime 
fascista», entrato nel linguaggio politico dei fascisti come degli 
antifascisti all’indomani della «marcia su Roma», era sintomo 
chiaro che il governo presieduto dal duce del fascismo non era 
un governo come i precedenti. L’orientamento totalitario della 
religione fascista, implicito nel suo dinamismo missionario e in¬ 
tegralista, non si espresse soltanto attraverso la monopolizzazio¬ 
ne dei riti patriottici, mettendo al bando qualsiasi altro tipo di li¬ 
turgia di partito contraria al fascismo^’*^’, ma si concretizzò so¬ 
prattutto con la istituzione di riti nazionali fascisti, come l’anni¬ 
versario della fondazione dei Fasci e l’anniversario della «marcia 
su Roma». Accanto alla patria, sugli altari il rituale fascista col¬ 
locava e adorava il fascismo stesso - e il suo duce - assumendo 
col tempo una dimensione tale che finì col confondersi con il cul¬ 
to della patria, se non addirittura col sostituirsi ad esso. 

^ R.d. 14 giugno 1928; cfr. «Il Popolo d’Italia», 16 settembre 1928. 

R.d.l. 11 aprile 1929, n. 504. 

^ Il divieto colpì soprattutto la festa del 1° maggio, che non fu consentito 
celebrare neppure in forma privata. Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1924 fase 
2.4.1 n. 1562. 



Fig. 6. Il nuovo stemma dello Stato italiano, adottato nel 1929. 




























































82 


Il culto del littorio 


Attorno all’evento della «marcia su Roma» era subito fiorita 
una varietà di iniziative che ne volevano esaltare il carattere di gran¬ 
de evento storico, avviandolo verso una trasfigurazione epica. Ab¬ 
biamo già visto le iniziative ufficiali per quanto riguarda monete e 
francobolli. Nel febbraio del 1923 si costituì anche un comitato na¬ 
zionale presieduto dal sindaco di Roma per promuovere l’erezio¬ 
ne di un monumento di esaltazione della «marcia su Roma»^"^. Lo 
stesso Mussolini deliberò di celebrare il primo anno dal suo av¬ 
vento al governo in forma solenne e spettacolare. Nulla, ovvia¬ 
mente, vietava ai fascisti di festeggiare l’ascesa al potere del loro du¬ 
ce. Il partito predispose una serie di iniziative per l’occasione, co¬ 
me la coniazione di una medaglia commemorativa, con relativo 
brevetto firmato da Mussolini^^, e l’edizione di un manifesto uffi¬ 
ciale, opera del pittore Galimberti, che avrebbe dovuto esser pos¬ 
seduto da ogni iscritto al PNF e «conservato nelle case, nelle offi¬ 
cine, negli uffici, nelle scuole e nelle caserme»^^. E carattere di par¬ 
tito ebbe l’organizzazione delle manifestazioni, affidata ad una ap¬ 
posita commissione dal Gran Consiglio nella seduta del 13 luglio^®. 
Ma, fatto senza precedenti nella storia dei governi dell’Italia unita, 
queste celebrazioni assunsero il carattere di una festa nazionale, 
con la partecipazione del governo e delle autorità civili e militari. 

Secondo il programma predisposto dalla commissione e ap¬ 
provato dal duce, furono organizzati quattro giorni di festeg¬ 
giamenti, dal 28 al 31 ottobre, aperti da un messaggio di Mus¬ 
solini ai fascisti e al paese^h Per tutto questo periodo, fu di- 

«Il Popolo d’Italia», 8 febbraio 1923. 

«Il Popolo d’Italia», 6 ottobre 1923. La medaglia, di cui potevano fre¬ 
giarsi tutti gli iscritti al PNF che avevano partecipato alla mobilitazione della 
«marcia», aveva su un lato l’immagine della Vittoria alata, che «nel suo volo 
luminoso corona l’idea fatidica degli artefici primi della Rivoluzione fascista 
maturata in aspre vigilie ed in austere battaglie spirituali», e sul retro la iscri¬ 
zione; «Marcia su Roma, 27 ottobre-T’ novembre 1922». 

ACS, MRF, b. 45, fase. 114, sottofasc. 141. 

Cfr. PNF, Il Gran consiglio nei primi dieci anni dell’era fascista, Roma 
1933, p. 64. 

Il testo inedito del «programma schematico» è in ACS, MRF, b. 50, 
fase. 121, sottofasc. 3; il programma ufficiale fu pubblicato da «Il Popolo d’I¬ 
talia», 2 ottobre 1923. Cfr. anche «Il Popolo d’Italia» del 16, 19, 23 e 24 otto¬ 
bre 1923. La commissione del PNF era composta da De Bono, Bianchi, Giun¬ 
ta, Bastianini, Marinelli e Freddi, con la partecipazione del senatore Filippo 
Cremonesi, regio commissario di Roma. 


II. La patria in camicia nera 


83 


sposto l’imbandieramento degli edifici pubblici, delle caserme e 
degli edifici militari, ed anche, con un invito alla cittadinanza, 
degli edifici privati. L’avvenimento fu rievocato da «grandiose 
cerimonie» - a Milano, Bologna, Perugia e Roma - «ripercor¬ 
rendo le tappe che nelle stesse date l’anno scorso furono per¬ 
corse dalla trionfale marcia delle camicie nere». La mattina del 
28 ottobre, in tutta Italia ci fu la commemorazione dei «marti¬ 
ri fascisti caduti in tutto il periodo della Rivoluzione, dal 1919 
ad oggi», con una messa da campo celebrata alla presenza del¬ 
le autorità civili e militari, della milizia, dei fascisti e del popo¬ 
lo. La commissione aveva suggerito un «eventuale passo» verso 
il Vaticano «per evitare qualche rifiuto da parte dei parroci». 
Alla commemorazione furono invitate le associazioni dei com¬ 
battenti, dei mutilati e delle vedove dei caduti. Lo stesso gior¬ 
no, a Milano, Mussolini passò in rivista al Parco le legioni del¬ 
la MVSN che prestarono giuramento; dopo la rivista, si formò 
un corteo che sfilò per la città fino a piazza Beigioioso, dove 
Mussolini aveva tenuto il discorso conclusivo della sfortunata 
campagna elettorale del 1919, e per questo era divenuta «sacra 
ormai nella storia del fascismo». Così la definì il duce nel suo 
discorso, in cui ribadì la fedeltà alla monarchia, rivendicò al fa¬ 
scismo il merito di aver ristabilito il rispetto per l’esercito e per 
la religione. Nello stesso tempo, ammonì minaccioso gli avver¬ 
sari che «indietro non si torna» ed esaltò la forza armata della 
milizia posta a salvaguardia della rivoluzione, incitandola a te¬ 
nersi pronta per «l’allarme delle grandi giornate»^^. Nel pome¬ 
riggio, Mussolini presenziò all’inaugurazione della nuova Casa 
del Fascio di Milano: le nostre sedi, disse, devono «essere dei 
templi, non solo delle case, devono avere linee armoniose e pos¬ 
senti. Quando il fascista entra nella sede del suo circolo, deve 
entrare in una casa di bellezza, perché siano suscitate in lui emo¬ 
zioni di forza, di potenza, di beltà e di amore»"^^. Il 29 le cele¬ 
brazioni si spostarono a Bologna dove parlarono Mussolini e 
Acerbo, che illustrò l’opera legislativa e amministrativa realizza¬ 
ta nel primo anno di Governo fascista; nel pomeriggio ci fu l’i- 

B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voli., Firenze 
1951-1963, voi. XX, pp. 61-65. 

7’ Ivi, pp. 66-67. 





84 


Il culto del littorio 


naugurazione della Casa del Fascio. Il 30, la celebrazione si svol¬ 
se a Perugia, con lo scoprimento di una lapide all’albergo Bru- 
fani, sede del Quadrumvirato durante la «marcia su Roma»; il 
conferimento della cittadinanza al duce e ai Quadrumviri e, an¬ 
cora, un discorso di Mussolini, che reiterò le minacce agli av¬ 
versari e gli appelli bellicosi alla milizia, inneggiando alla roma¬ 
nità e alla «divina nostra terra protetta da tutti gli Iddii». Mi¬ 
chele Bianchi, segretario del PNF, annunciò che il fascismo non 
era solo fenomeno di «rinascita nazionale» ma «il segno di una 
nuova civiltà che si sperimenta con la storia»"^*^. Per le cerimo¬ 
nie conclusive del 31, Mussolini aveva voluto l’orario ridotto per 
la mattina negli uffici governativi, la sospensione delle udienze 
giudiziarie e vacanza nelle scuole pubbliche. Inoltre, era stato 
anche disposto l’imbandieramento di tutte le ambasciate e con¬ 
solati italiani, l’illuminazione di tutti gli edifici pubblici, l’innal¬ 
zamento del gran pavese su tutte le navi italiane, nei porti d’I¬ 
talia e all’estero. La capitale fu lo scenario per il culmine delle 
celebrazioni: la mattina, mentre nel cielo di Roma volavano cen¬ 
tinaia di aerei, un imponente corteo guidato dal duce e dal Qua¬ 
drumvirato, seguiti dai comandanti delle colonne che erano en¬ 
trate a Roma, dai gagliardetti e dalle fiamme di tutti i fasci d’I¬ 
talia, dai rappresentanti delle associazioni dei combattenti, dei 
mutilati, delle madri e delle vedove dei caduti, dai fasci laziali, 
dalla milizia e dalle medaglie d’oro, e da tutte le organizzazioni 
politiche, sindacali e giovanili del partito fascista, attraversò il 
centro della città seguendo il percorso fatto dalle colonne degli 
squadristi l’anno precedente, da piazza del Popolo al Quirina¬ 
le. Il corteo, accompagnato da canti e bande musicali, sfilò per 
circa cinque ore fra ali di folla nella strada e spettatori alle fi¬ 
nestre e ai balconi imbandierati, fino all’Altare della patria, do¬ 
ve rese omaggio al Milite Ignoto, e quindi in piazza del Quiri¬ 
nale dove il re, che assisteva alla sfilata dal balcone della reggia, 
fu salutato romanamente da Mussolini e ricevette l’omaggio del 
corteo. La sera. Mussolini offrì un solenne ricevimento a palaz¬ 
zo Venezia in onore del re, con oltre duemila invitati tra prin¬ 
cipi reali, membri del governo e del parlamento, corpo diplo- 


M. Bianchi, I discorsi gli scritti, Roma 1931, pp. 101-103. 


11. La patria in camicia nera 


85 


malico, alti dignitari dello Stato, ufficiali dell’esercito, della mi¬ 
lizia, della marina, rappresentanti del partito fascista, etc."^^. 

La «glorificazione della Rivoluzione fascista», come la definì il 
giornale mussoliniano, fu una sorta di «Festa della federazione» 
del fascismo: una spettacolare rassegna delle sue forze, che servi¬ 
va ad esaltare i fascisti, rafforzandone il senso di unità attorno a 
Mussolini in un momento in cui il partito aveva appena superato 
una grave crisi interna, come pure mirava ad impressionare i sim¬ 
patizzanti e ad intimorire gli avversari con l’esibizione della forza 
armata del PNF e la manifestazione del consenso che le istituzio¬ 
ni, i combattenti e la popolazione davano al governo e al fascismo. 
La festa, inoltre, consacrava formalmente le pretese del partito fa¬ 
scista alla diversità privilegiata nei confronti del sistema dei parti¬ 
ti e sigillava l’unione indissolubile fra fascismo e Stato nazionale, 
trasformando una commemorazione di partito in una festa di Sta¬ 
to. La straordinaria gravità deH’awenimento, nel mescolare Stato 
e partito, non era sfuggita a un acuto osservatore come Giovanni 
Amendola, che considerò la commemorazione della «marcia su 
Roma» il sintomo di un nascente «Stato di partito»"^^ e la confer¬ 
ma dello «spirito totalitario» del fascismo, deciso ad imporre agli 
italiani il credo della sua religione: 

Veramente la caratteristica più saliente del moto fascista rimarrà, 
per coloro che lo studieranno in futuro, lo spirito «totalitario»; il qua¬ 
le non consente all’avvenire di avere albe che non saranno salutate col 
gesto romano, come non consente al presente di nutrire anime che 
non siano piegate nella confessione «credo». Questa singolare «guer¬ 
ra di religione» che da oltre un anno imperversa in Italia non vi offre 
una fede (che a voler chiamar fede quella nell’Italia, possiamo ri¬ 
spondere che noi l’avevamo già da tempo quando molti dei suoi at¬ 
tuali banditori non l’avevano ancora scoperta!) ma in compenso vi 
nega il diritto di avere una coscienza - la vostra e non l’altrui - e vi 
preclude con una plumbea ipoteca l’awenire.'^'^ 


Cfr. per la cronaca delle manifestazioni «Il Popolo d’Italia» dal 30 otto¬ 
bre al r’ novembre 1923. 

G. Amendola, Commemorazioni, in «Il Mondo», 11 ottobre 1923, ri¬ 
portato in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Milano-Na- 
poli 1960, pp. 182-185. 

Id., Un anno dopo, in «Il Mondo», 2 novembre 1923, ivi, pp. 194-195. 



86 


Il culto del littorio 


Nel 1924, investito il fascismo dalla crisi aperta daU’assassinio 
di Giacomo Matteotti, il Gran Consiglio deliberò di celebrare il 
secondo anniversario della marcia con manifestazioni meno cla¬ 
morose, curando in special modo l’aspetto militaresco delle ceri¬ 
monie, che comprendevano il giuramento della Milizia al re in 
due grandi adunate a Milano e a Roma il 28 ottobre; manifesta¬ 
zioni pubbliche nelle sedi di partito il 29 con conferenze di pro¬ 
paganda; una seduta straordinaria celebrativa in tutti i comuni 
fascisti e nelle province per il 30, e la manifestazione aviatoria 
nella capitale per il La crisi, che in quel momento minac¬ 
ciava di travolgere il fascismo, e che aveva spinto le associazioni 
combattentistiche a dissociarsi dal PNF e dal governo, aveva in¬ 
dotto i dirigenti fascisti a stabilire prudentemente che la cele¬ 
brazione avrebbe avuto «essenzialmente carattere di partito [...] 
senza chiamare ad essa associazioni e rappresentanze d’altri par- 
titi»^^. Gli organi centrali dei combattenti e dei mutilati delibe¬ 
rarono infatti di non partecipare alla manifestazione. Tuttavia, 
pur senza le cerimonie spettacolari dell’anno precedente, Mus¬ 
solini volle comunque conferire carattere di ufficialità all’anni¬ 
versario, disponendo le stesse modalità di celebrazione previste 
per le feste civili, compresa la vacanza per l’intera giornata del 
28 negli uffici governativi, sospensione delle udienze giudiziarie 
e chiusura delle scuole pubbliche^^. Nonostante la formula di lea¬ 
lismo costituzionale del nuovo giuramento della MVSN^^b le ce¬ 
rimonie furono dominate dallo «spettacolo di forza»^^ della mi¬ 
lizia, come sfida decisiva del partito armato contro quanto rima¬ 
neva del regime parlamentare, contro i fiancheggiatori dubbiosi 
o pentiti, e contro tutte le opposizioni, in nome della rivoluzio¬ 
ne fascista^^. Presenziando al rito del giuramento delle legioni a 
Milano, dalla torretta di un’auto blindata. Mussolini integrò il 


Cfr. PNF, Il Gran consiglio cit., p. 153. 

La marcia su Roma e gli ex-combattenti, in «Il Popolo d’Italia», 16 otto¬ 
bre 1924. 

«« Cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1924, fase. 2.4.1 n. 2564. 

Il milite giurava di essere fedele al re e ai suoi successori, di «osservare 
lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, e di compiere tutti i doveri del 
mio stato per il bene inseparabile del Re e della Patria». 

Spettacolo di forza, in «Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1924. 

Per la cronaca delle manifestazioni, cfr. «Il Popolo d’Italia», 29 e 30 ot¬ 
tobre 1924. 


II. La patria in camicia nera 


87 


giuramento di fedeltà al re chiedendo ai militi di giurare anche 
«la devozione alla causa della rivoluzione fascista per la quale 
siamo pronti a vivere, pronti a combattere e pronti a morire», e 
li elesse a depositari «del mio fuoco, del nostro fuoco sacro»^'*. 

Imboccata la via della costruzione del regime totalitario, la isti¬ 
tuzionalizzazione dei riti della rivoluzione procedette speditamen¬ 
te, all’insegna della vittoria trionfale sul regime parlamentare e sul¬ 
le opposizioni debellate e messe al bando, con la fascistizzazione 
dello Stato e con la definitiva identificazione della religione fasci¬ 
sta con la «religione della patria». «Non c’è più verso - scriveva TI 
Popolo d’Italia’ alla vigilia del 28 ottobre 1925 - di ridurre la cele¬ 
brazione ad un’espressione di Partito»*^^. Per l’anniversario del 
1925, il PNF predispose una celebrazione che doveva «riuscire 
particolarmente ammonitrice e solenne» conservando «il suo or¬ 
mai tradizionale carattere prevalentemente militare», con le adu¬ 
nate della milizia, cortei e discorsi celebrativi, manifestazione avia¬ 
toria nella capitale, etc. Fra le novità della celebrazione, vi fu il ri¬ 
to dell’apposizione del fascio littorio da parte delle amministrazio¬ 
ni pubbliche sulle opere compiute dal governo fascista. Fu inoltre 
prescritta, per i fascisti, la camicia nera per tutta la durata delle ma¬ 
nifestazioni. Mussolini dispose anche che il 28 ottobre, in sostitu¬ 
zione delle lezioni, le scuole governative all’estero «celebrino e il¬ 
lustrino Marcia su Roma con cui fascismo apre nuova era storia Na- 
zione»^^, così come era stato disposto dal ministro della Pubblica 
Istruzione per le scuole pubbliche in Italia^^. Celebrando l’anni¬ 
versario a Milano, Mussolini proclamò che «nell’ottobre 1922, non 
c’è stato un cambiamento di ministero, ma c’è stata la creazione di 
un nuovo regime politico», fondato sul principio «tutto nello Sta¬ 
to, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»^^. L’anno 
successivo, l’anniversario del 28 ottobre fu incluso nella liturgia 
dello Stato come giorno festivo a tutti gli effetti civilP^. 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XXI, pp. 125-126. 

Rer la terza celebrazione anniversaria della marcia su Roma, in «Il Popo¬ 
lo d’Italia», 22 ottobre 1925. 

^ «Il Popolo d’Italia», 28 ottobre 1925. 

«Il Popolo d’Italia», 22 ottobre 1925. 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XXI, p. 425. 

R.d.l. 21 ottobre 1926, n. 1779, convertito in legge 6 marzo 1927, n. 267; 
cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1926, fase. 2.4.1 n. 3904. 




Il culto del littorio 


Conservò più a lungo carattere di rito di partito la celebrazio¬ 
ne del 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di com¬ 
battimento. Nel 1923, le cerimonie, tenute la domenica 25 marzo, 
furono limitate a discorsi e cortei senza ufficialità, intonati al tipo 
della commemorazione tradizionale, anche se prevalse nei discor¬ 
si l’esaltazione della rivoluzione fascista e la sua determinazione a 
non arrestarsi davanti alla restaurazione del vecchio regime. Mus¬ 
solini si limitò a ricordare l’anniversario con un paio di telegram¬ 
mi, che richiamavano i fascisti al dovere della disciplina. È proba¬ 
bile che la crisi che stava dilacerando il partito fascista in quel mo¬ 
mento, fra beghe, dissensi e rivolte, fosse poco propizia ad una 
grande celebrazione^^”. L’anno successivo l’anniversario cadde di 
domenica, nel pieno della campagna elettorale e con un partito fa¬ 
scista che aveva ritrovato una certa unità interna. Alla ricorrenza 
fu conferito carattere di ufficialità con un programma concordato 
fra la direzione del PNF e la Presidenza del consiglio, che preve¬ 
deva un corteo dei sindaci fascisti, con i labari dei loro comuni, al 
Milite Ignoto e al Quirinale, seguito da un discorso di Mussolini e 
da un ricevimento offerto dal regio commissario al Campidoglio. 
Mussolini volle anche l’imbandieramento e l’iUuminazione degli 
edifici pubblicPh II partito organizzò cortei e discorsi in ogni città, 
dando particolare risalto al ricordo dei «martiri fascisti» con la ce¬ 
lebrazione del rito dell’appello. A Milano, fu inaugurato un mo¬ 
numento ai caduti fascisti e fu scoperta una lapide sul palazzo di 
piazza S. Sepolcro per ricordare ai posteri i «pochi animosi arsi 
dalla disperata passione di Benito Mussolini» che «qui raccolti ini¬ 
ziarono il grande movimento fascista, che doveva riconquistare al 
popolo Italiano la fede nella Patria, la libertà, la disciplina del la¬ 
voro, il rispetto del Mondo»^^. Nel 1925 la nascita del fascismo fu 
rievocata con manifestazioni d’impronta militaresca, che doveva¬ 
no essere «solenni e ammonitrici per amici e nemici»^^. Per gli an¬ 
ni successivi. Mussolini dispose la presenza di ministri alle ceri¬ 
monie e la dispensa dal servizio dei funzionari fascisti per consen- 

Cfr. «Il Popolo d’Italia», 23 e 27 marzo 1923. 

Cfr. Per la celebrazione fascista a Roma, in «Il Popolo d’Italia», 21 mar¬ 
zo 1923; Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XX, pp. 205-217. 

Anniversario, in «Il Popolo d’Italia», 23 marzo 1924. 

ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930, fase. 14.2 n. 1016, comunicato del¬ 
l’Agenzia Stefani, 20 marzo 1925. 


II. La patria in camicia nera 


89 


tire loro di partecipare alle celebrazioni^-^. Nel 1930, infine, nel 
quadro di un riordinamento del calendario liturgico dello Stato fa¬ 
scista, al 23 marzo fu conferito il carattere di solennità civile^^. 


Il calendario del regime 

L’istituzionalizzazione dei simboli e dei riti della religione fa¬ 
scista nella liturgia dello Stato coincise con un altro atto simbolico 
che doveva esaltare il carattere rivoluzionario del regime fascista. 
Già nel 1923 Mussolini usava datare i testi da lui firmati aggiun¬ 
gendo, all’anno cristiano, l’indicazione «anno primo dell’era fa- 
scista»^*^. Quest’uso si era presto diffuso fra i fascisti. L’anniversa¬ 
rio del 28 ottobre era salutato come inizio dell’«Era fascista». Al¬ 
la fine del 1925, il prefetto di Reggio Emilia ritenne opportuno rac¬ 
comandare agli enti della provincia la consuetudine di aggiungere 
l’indicazione dell’anno dell’Era fascista a quello dell’Era cristiana, 
«mediante apposizione in numero romano, come usa fare il Du¬ 
ce», per rendere omaggio «al principio della fascistizzazione inte¬ 
grale - anche nelle manifestazioni esteriori - della vita nazionale», 
cui si ispiravano «le disposizioni per l’apposizione del segno litto¬ 
rio alle opere pubbliche e per il saluto romano-fascista nelle pub¬ 
bliche amministrazioni»^^. Un anno dopo, fu il ministro della Pub¬ 
blica Istruzione a chiedere al duce «l’onore» di aggiungere, in tut¬ 
ti gli atti ufficiali del ministero, alla data dell’anno scolastico la da¬ 
tazione della rivoluzione fascista «affinché sia sempre presente al¬ 
lo spirito ed alla mente dei giovani», perché la scuola «sente tutta 
la bellezza dell’ideale fascista... vive una nuova vita dal giorno in 
cui il Fascismo volle e seppe rigenerarla»^^. Mussolini approvò e 


Ivi, circolare del 26 marzo 1927; cfr. anche, per gli anni successivi, fase. 
14.2 n. 1016; fase. 3.3.3 n. 10695. 

Legge 27 dicembre 1930, n. 1726. 

Cfr. C. Sobrero, Un anno di passione italiana, in «Il Popolo d’Italia», 18 
ottobre 1923; Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. p. 335 (messaggio alla 
nuova direzione del giornale «Epoca», 19 ottobre 1923). 

ACS, MI, DGPS, 1925, cat. Gl, Pasci di combattimento, b. 126, tele¬ 
gramma del prefetto, 18 dicembre 1925. 

ACS, PCM, Gabinetto, 1940-1943, fase. 3.17 n. 4198, lettera di Pietro 
Fedele a Mussolini, 9 novembre 1926. 











90 


Il culto del littorio 


subito dopo inviò una circolare in cui esprimeva il desiderio che in 
tutti gli atti ufficiali dell’amministrazione dello Stato venisse ag¬ 
giunta sempre anche la data «dell’annuale dell’assunzione al Po¬ 
tere del Governo fascista»^^. La decisione suscitò qualche per¬ 
plessità per la numerazione annuale dell’Era fascista: alcuni, per 
esempio, indicavano come «anno I» il periodo dal 28 ottobre al 31 
dicembre 1922. Della questione fu interessato anche il re, il quale 
fece osservare che il computo dell’anno fascista doveva decorrere 
dal 28 ottobre al 27 ottobre dell’anno successivo, non solo perché 
sembrava al sovrano poco «confacente all’importanza storica del¬ 
la Rivoluzione Fascista considerare per un anno intero i due ulti¬ 
mi mesi del 1922>>, ma anche per il riscontro che tale sistema ave¬ 
va nel calendario adottato dalla prima repubblica francese^®®. 
Mussolini concordò con il parere del sovrano e il 27 ottobre 1927 
fu definitivamente stabilito che negli atti delle amministrazioni 
dello Stato doveva essere indicato l’annuale dell’avvento al potere 
del governo fascista, datando dal 29 ottobre l’inizio dell’anno 
Vpoi. 

Dopo il 1926, il culto del littorio, divenuto liturgia dello Sta¬ 
to fascista, sotto la superiore regia del partito, fu istituzionaliz¬ 
zato secondo rigide norme che ne definivano le modalità di svol¬ 
gimento. La prima conseguenza dell’istituzionalizzazione fu il 
divieto della spontaneità nell’organizzazione di feste, riti e ma¬ 
nifestazioni di massa che, ripetendosi frequentemente in manie¬ 
ra disordinata, anche per le più banali circostanze e spesso sen¬ 
za la dovuta preparazione, danneggiavano la serietà del simbo¬ 
lismo liturgico e compromettevano la funzione sacralizzante e 
pedagogica che ad esso il regime assegnava. «Bisogna sostare 
colle cerimonie, adunate e sagre», aveva ammonito Mussolini, 
perché la frequenza «le spoglia di ogni solennità... Il popolo è 
un po’ stanco di cerimonie. Anche in questo caso vale la for¬ 
mula: rare e solenni»^®^. Nel 1926, Mussolini, sollecitato da Emi- 


^ Ivi, circolare del 25 dicembre 1926. 

ACS, PCM, Gabinetto, 1940-1943, fase. 1.7 n. 49269, appunto per il 
capo del governo, 10 gennaio 1927. 

'"1 ACS, PCM, Gabinetto, 1940-1943, fase. 1.7 n. 8403, telegramma del 
sottosegretario alla Presidenza del consiglio Suardo ai ministri, 27 ottobre 1927. 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XXI, p. 140 (discorso dell’ll no¬ 
vembre 1924). 


11. La patria in camicia nera 


91 


lio Bodrero^®^, decise di intervenire per porre un freno a ceri¬ 
monie e manifestazioni pubbliche, impartendo ai prefetti diret¬ 
tive che sottoponevano a «controllo preventivo le pubbliche ma¬ 
nifestazioni con lo scopo di inquadrare l’importante azione so¬ 
ciale che esse svolgono, nello spirito di disciplina e di fattiva ope¬ 
rosità che anima la nazione, impedendo quelle manifestazioni 
che, per il fine che si propongono, contrastino con la nuova co¬ 
scienza e limitando e coordinando le altre in modo da assicurar¬ 
ne la migliore riuscita, con la minore dispersione di energie, di 
risorse e di contributi»^”'*. Il governo quindi emanò provvedi¬ 
menti legislativi per disciplinare la materia, convinto che «la ele¬ 
zione e il coordinamento, ispirati a criteri di alto sentimento na¬ 
zionale e di pratica utilità, elevano la funzione sociale anche di 
questa importante forma di attività, inquadrandola nell’opera di 
costante elevazione morale e spirituale della Nazione, che Go¬ 
verno e cittadini in meravigliosa armonia di intenti, alacremente 
svolgono»*”^. E poiché queste misure non sortirono l’effetto de¬ 
siderato, Mussolini decise di vietare dal 7 novembre 1927 fino 
all’8 maggio 1928 

ogni cerimonia, manifestazione, celebrazione, anniversari, centenari 
grandi e piccoli, nonché discorsi di qualsiasi calibro perché le auto¬ 
rità non devono essere distratte dai loro doveri, si devono fare eco¬ 
nomie anche piccole, soprattutto di tempo, e bisogna evitare il senso 
di sazietà alle popolazioni.*”^ 

Il provvedimento non riguardava i riti del culto del littorio, 
che anzi acquistarono in seguito a questa restrizione maggior ri¬ 
lievo e solennità; ma anche per queste manifestazioni furono 
adottate misure che, in armonia con l’awenuta istituzionalizza- 

ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930, fase. 3.3.2 n. 1962, appunto per il 
capo del governo, 12 maggio 1926. 

Ivi, Mussolini ai prefetti del regno, 23 agosto 1926. Tutta la materia del¬ 
le manifestazioni pubbliche venne disciplinata con il r.d.l. 6 agosto 1926, n. 
1486, convertito in legge r8 novembre 1926. 

Ivi, relazione per la conversione in legge del r.d.l. 6 agosto 1926, n. 1486, 
convertito nella legge 27 febbraio 1927, n. 244. 

ACS, PCM, Gabinetto, 1928, fase. 3.3.9 n. 1962; fase. 1.3.4 n. 1660, riu¬ 
nione del Consiglio dei ministri, 17 ottobre 1927; circolare del capo del go¬ 
verno, 15 novembre 1927. 




92 


Il culto del littorio 


zione della liturgia fascista, ne disciplinavano ora rigorosamente 
le modalità di svolgimento. I segretari federali dovevano limita¬ 
re «le manifestazioni e le cerimonie troppo frequenti, troppo ri¬ 
correnti e troppo domenicali» non per coartare o diminuire lo 
«spirito guerriero del fascismo», ma perché «nelle ore dell’ardua 
fatica o della battaglia che incalza, l’abito della ‘sagra’ non serve; 
esso deve essere sostituito da una divisa austera»: perciò le fede¬ 
razioni dovevano riservare «lo spettacolo superbo dello schiera¬ 
mento di tutte le loro forze» solo aUe grandi date della «Marcia 
su Roma» e dell’anniversario della fondazione dei fasci^”^. Il 
Gran Consiglio fissò il «calendario del regime» per scandire il 
ritmo della liturgia fascista, stabilendo «che tre sole giornate sia¬ 
no dedicate alla celebrazione degli avvenimenti storici della vita 
del Regime e del Partito»: il 23 marzo per «l’esaltazione e la af¬ 
fermazione delle forze giovanili», il 21 aprile per «la celebrazio¬ 
ne delle forze della produzione e del lavoro» e il 28 ottobre «per 
la rievocazione e la esaltazione deU’awenimento che ha conclu¬ 
so, con la vittoria della Rivoluzione, molti anni di lotte e di sa- 
crifici»^®^. 


107 pisiF, «Foglio d’ordini», n. 15, 22 novembre V (1926). 

108 PNF, «Foglio d’ordini», n. 19, 8 gennaio V (1927). 


L’«ARCANGELO MONDANO» 


Giganteggia avanti ad ognuno, la realtà dello 
Stato educatore, che fa coscienti le masse, che 
le fa elemento creatore della storia, che le 
orienta verso il raggiungimento di quei fini, 
nel cui ambito si giustificano parimenti la vi¬ 
ta e il lavoro degli umili e dei grandi. 

G. Bottai 

Lo Stato fascista ha, di una Chiesa, il vinco¬ 
lo mistico e propriamente religioso. Esso 
esalta i principi del sacrificio e della rinuncia; 
professa una filosofia eroica della vita, un’e¬ 
tica antiedonistica, una concezione del mon¬ 
do antiinteUettualista e antimaterialista; lavo¬ 
ra per l’avvento di un ordine nuovo di carat¬ 
tere essenzialmente spirituale. 

Di una Chiesa, inoltre, lo Stato si attribuisce la 
missione edificante, educatrice, apostolica e ca¬ 
ritativa. Esso si consacra ad un’opera di costan¬ 
te apostolato fra i tiepidi e gli ignoranti. Come 
il cattolicismo, con i suoi ordini e congregazio¬ 
ni, lo Stato moltiplica le opere destinate ad aiu¬ 
tare i suoi membri o a conquistare quelli che esi¬ 
tano ancora a credere nei benefici del regime. 

Il partito ha il ruolo fondamentale di assicu¬ 
rare allo Stato questa «ecclesiasticità» adem¬ 
piendo alla duplice funzione di elemento di¬ 
namico e zelatore dello Stato. 


M. Prélot 




Dopo la «marcia su Roma», il fascismo accentuò il suo caratte¬ 
re di religione laica, sia nella definizione ideologica che nel modo 
di vivere e praticare l’esperienza politica attraverso miti, riti e sim¬ 
boli. Nello stesso tempo, però, cercò anche di servirsi della reli¬ 
gione tradizionale per spianare la strada alle sue ambizioni di do¬ 
minio, presentandosi come restauratore dei valori dello spirito e 
del prestigio della religione cattolica dopo un’epoca di agnostici¬ 
smo, di ateismo e di materialismo. Fin dal 1921, accantonando cer¬ 
ti atteggiamenti anticlericali, iconoclasti e paganeggianti del primo 
fascismo. Mussolini aveva esaltato l’importanza storica della reli¬ 
gione cattolica come «l’unica idea universale che oggi esista a Ro- 
ma»h potenza spirituale mondiale di cui gli italiani dovevano es¬ 
sere orgogliosi e che poteva essere «utilizzata per l’espansione na- 
zionale»^. Giunto al potere. Mussolini citò fra i suoi alti meriti an¬ 
che quello di non aver toccato né diminuito la Chiesa, «un altro 
dei pilastri della società nazionale», perché la religione «è patri¬ 
monio sacro dei popoli»^. Ma non per questo i fascisti smisero di 
parlare del fascismo come di una religione: anzi non esitarono a fa¬ 
re frequenti confronti fra il loro movimento e il cristianesimo, con 
l’intento di far riverberare sul fascismo il crisma della religione tra¬ 
dizionale, sublimando così le loro pretese religiose, per orientare 
verso il culto del littorio, con la suggestione dell’analogia, la devo¬ 
zione di un popolo in larghissima maggioranza ancora cattolico. Il 
fascismo - affermava «Il Popolo d’Italia» - «è una fede civile e po¬ 
litica, ma è anche una religione, una milizia, una disciplina dello 
spirito che ha avuto, come il Cristianesimo, i suoi confessori, i suoi 

' Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voli., Firenze 1951- 
1963, voi. XVI, p. 444 (primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921). 

^ Ivi, voi. XVII, p. 221 (discorso al III congresso dei Fasci, 9 novembre 
1921). 

^ Ivi, voi. XX, p. 62 (discorso del 28 ottobre 1923, a Milano, per il primo 
anniversario della «marcia su Roma»). 




96 


Il culto del littorio 


testimoni, i suoi santi»*^. La fede nel fascismo, proclamava Musso¬ 
lini, «la mia fede, è qualche cosa che va al di là del semplice parti¬ 
to, della semplice idea e della sua necessaria struttura militare, del 
suo necessario sindacalismo, del suo tesseramento politico. Il fa¬ 
scismo è un fenomeno religioso di vaste proporzioni storiche ed è 
il prodotto di una razza»^. 


La religione rivelata 

La rapidità clamorosa dell’ascesa al potere di un movimento 
che aveva poco più di tre anni di vita si prestava facilmente ad 
essere rappresentata come un miracolo dovuto alla nuova fede, 
predicata da Mussolini e dai suoi primi, esigui seguaci, che l’a¬ 
vevano diffusa col sacrificio e con la lotta in un’Italia devastata 
dalla «bestia trionfante» del bolscevismo. I pochi della prima ora 
si moltiplicarono poi in legioni di virili e virtuosi crociati che, de¬ 
diti anima e corpo alla patria, con la fede della religione fascista 
avevano sconfitto e ucciso il «drago rosso», salvando non solo l’I¬ 
talia dal pericolo del bolscevismo, ma recando una parola di sal¬ 
vezza per l’intera umanità, sempre pronti a nuove lotte e a nuo¬ 
vi sacrifici. La trasfigurazione sacralizzante deH’origine del fasci¬ 
smo già compiuta nel 1925, è delineata nei suoi motivi essenzia¬ 
li in un articolo dell’organo dei Fasci italiani all’estero: 

Il misticismo del Fascismo è il crisma del suo trionfo. Il ragiona¬ 
mento non si comunica, l’emozione sì. Il ragionamento convince, non 
attrae. Il sangue è più forte del sillogismo. La scienza pretende di spie¬ 
gare il miracolo, ma agli occhi della folla il miracolo resta, seduce e crea 
neofiti. Forse, fra un secolo, si dirà nelle storie che dopo la guerra sur- 
se in Italia un Messia, che cominciò a parlare a cinquanta persone e finì 
per evangelizzarne un milione: che questi illuminati si sparsero in Ita¬ 
lia e con la fede, con la devozione, col sacrificio conquistarono il cuore 
delle masse: che le loro parole erano desuete, venivano da così lontano 
che erano dimenticate, dicevano di doveri quando tutti parlavano di di¬ 
ritti, di disciplina quando tutti si davano alla licenza, di famiglia quan- 


Un rito fascista, in «Il Popolo d’Italia», 13 dicembre 1923. 

^ Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XIX, p. 274 (discorso del 17 giugno 
1923 a Cremona). 


III. L’«arcangelo mondano>. 


97 


do trionfava l’individualismo, di proprietà, mentre la ricchezza diveni¬ 
va anonima, di patria allora che l’odio covava tra i cittadini e l’interes¬ 
se scavalcava le frontiere, di religione e tutti la negavano per paura del 
giudice supremo. Ma finirono per vincere, perché rendevano bene per 
male, perché proteggevano i loro stessi nemici, perché compievano 
ogni giorno miracoli d’amore, perché ogni ora raccontava gli umili lo¬ 
ro eroismi, perché al loro contatto gli uomini divenivano migliori e con 
la loro azione l’Italia più ordinata, più tranquilla, più prospera, più 
grande, perché avevano nel canto la letizia della loro bontà e negli oc¬ 
chi la luce del loro sacrificio, perché cadevano con un grido di fede e 
per uno che cadeva cento ne sorgevano, perché infine quando il vero 
sfolgora da ogni parte, neppure i gufi possono negarlo. 

Così ha vinto il Fascismo, per opera della sua milizia [...] La coppa 
del sacrificio è tesa ai «migliori» e noi dobbiamo berla. Poi diremo con 
Cristo quando bevve alla spugna intrisa di aceto e di fiele: «Consum- 
matum est». Il suo sacrificio è la salvezza altrui. Che importa l’indivi¬ 
duo? È la Stirpe che conta, è il suo rinnovamento che è necessario per 
il bene della Patria e del mondo. Il Duce ha parlato [...] Il suo coman¬ 
damento è la nostra legge o meglio ancora è la rivelazione della nostra 
legge, la quale è già in noi. La lotta continua ed è aspra. D’ogni donde 
si guarda all’Italia come al faro di luce, che guida l’umanità al salva¬ 
mento [...] Noi siamo i principi e i triari delle nuove legioni di civiltà*^. 

Il carattere religioso del fascismo fu enfatizzato notevolmen¬ 
te durante la prima fase di governo, fra il 1923 e il 1926, princi¬ 
palmente per legittimare il monopolio del patriottismo e per ri¬ 
vendicare, di conseguenza, il diritto al monopolio del potere. 
Ogni avversario del fascismo diventava così un nemico della «re¬ 
ligione della patria». Da qui, la pretesa del governo fascista di 
avere il diritto di perseguitare e bandire chi non si convertiva al 
culto nazionale, cioè, in altri termini, chi non accettava la ver¬ 
sione fascista di questa religione; l’adesione al fascismo doveva 
essere un atto di dedizione totale e definitivo: 

chi viene a noi, o diventa nostro, anima e corpo, spirito e carne, o sarà 
inesorabilmente stroncato — ammoniva Dario Lupi all’inizio del 1923 -. 
Perché noi sappiamo e sentiamo di essere nel vero; perché tra tutte le 
ideologie, del presente e del passato [...] noi sentiamo e sappiamo che 


Santa Milizia, in «I fasci italiani all’estero», 2 maggio 1925. 




Il culto del littorio 


la nostra sola è intonata meravigliosamente al momento storico che si 
attraversa, al domani storico che si prepara; così come è quella sola che 
rispecchia fedelmente i più profondi strati dell’anima e della sensibilità 
della stirpe^ 

Era già operante l’impulso della nuova religione politica al¬ 
l’integralismo: 

I fascisti hanno ragione di scomunicare gli eretici della Patria - af¬ 
fermava «Critica fascista» del 15 luglio 1923 -, come la Chiesa ebbe 
sempre ragione quando scacciò dalla comunione dei veri credenti gli 
eretici della sua fede, mentre, anche questi, pretendevano di posse¬ 
derla. Così il Cristo che taluni si raffigurano tutto mansueto e quasi 
in veste di un liberale, si armò un giorno d’aspri flagelli per discac¬ 
ciare dal tempio di Dio i barattieri e i profanatori [...] Il fascismo non 
è un partito chiuso politicamente, ma religiosamente. Esso non può 
accettare che gli uomini i quali credono nelle sue verità di fede [...] 
Come la Chiesa ha i suoi dogmi religiosi, così il Fascismo ha i suoi 
dogmi di fede nazionale.^ 

Con queste premesse, le illusioni sulla possibilità di istituire 
una religione civile, tale da conciliare il culto della nazione con 
il culto della libertà, come era stato negli ideali dei patrioti ri¬ 
sorgimentali, svanirono mentre cresceva l’intolleranza della reli¬ 
gione fascista e, insieme con la fascistizzazione dello Stato, veni¬ 
va avviato il processo della sua sacralizzazione. La fede fascista - 
scriveva nel 1925 Ettore Lolini, un noto esperto di problemi del¬ 
la burocrazia convertito al fascismo - era una «santa follia» che 
«si sente e si accetta col cuore e collo spirito in tutta la sua su¬ 
blime grandezza irrazionale, o si respinge e si odia e si combatte 
con pari fede»: ma solo «quando della fede e dell’idea fascista sa¬ 
ranno compenetrate tutte le istituzioni dello Stato italiano, solo 
allora avrà raggiunto il suo pieno sviluppo la Rivoluzione Fasci¬ 
sta»^. 

^ D. Lupi, Il comandamento della patria, Milano 1925, p. 24 (discorso a Pe¬ 
rugia del 18 febbraio 1923). 

® P. MisciatteUi, La mistica del fascismo, in «Critica fascista», 15 luglio 1923. 

^ E. Lolini, La conquista ideale dello Stato, in «La Conquista dello Stato», 
15 febbraio 1925, in Id., Per l’attuazione dello Stato fascista, Firenze 1928, pp. 
58-64. 


III. L’«arcangelo mondano> 


99 


Una teologia politica per lo Stato nuovo 

In origine, la religione fascista era stata in larga parte espres¬ 
sione spontanea, ad un certo livello di massa, soprattutto dello 
squadrismo e ne rifletteva le caratteristiche di spontaneità ribel¬ 
le, di immediato emozionalismo aggressivo e anarchicheggiante, 
d’un sentimento della fede comune non ancora subordinata alle 
regole di una chiesa. La religione fascista, prima della «marcia su 
Roma», non era ancora vincolata all’obbedienza cieca e alla fede 
indiscussa nella infallibilità di un capo. Ma salito il fascismo al 
potere, questa situazione divenne incompatibile con la necessità 
della disciplina e dell’unità, capisaldi della concezione fascista 
dello Stato nuovo. Non solo il ribellismo squadrista doveva es¬ 
sere domato e debellato ovunque fosse ancora attivo, ma anche 
la spontaneità dei simboli e dei riti doveva ora cedere alla istitu¬ 
zionalizzazione del sistema di credenze e di valori espressi dal fa¬ 
scismo. Al «tempo eroico», della lotta e della distruzione del vec¬ 
chio ordine liberale, seguiva ora il «tempo della costruzione», il 
lavoro per edificare il nuovo ordine. Si passava, per così dire, dal¬ 
la religione come sentimento di immediata esperienza vissuta, al¬ 
la religione come sistema di credenze, come fede definita e re¬ 
golata secondo i dogmi di una teologia politica codificata. «La 
religione rivelata è venuta al punto di scrivere i suoi codici e di 
costruire i suoi tempii. Occorrono dottori e costruttori», scrive¬ 
va Bottai^®. Era necessario «sistematizzare la fede», dichiarava «Il 
Popolo d’Italia»: «ricondurla a compiti precisi e a determinati 
obiettivi è l’unico mezzo per fondare gli ordini nuovi della so¬ 
cietà. Ma, per questo, occorre non concedere nulla agli egoismi 
e inquadrare fermissimamente le gerarchie nelle funzioni»^. 

L’istituzionalizzazione della religione fascista avvenne attra¬ 
verso il contributo decisivo apportato alla elaborazione della sua 
teologia politica dagli intellettuali di formazione idealista, che da 
anni predicavano una crociata culturale per la spiritualizzazione 
della politica. Eredi dello statalismo etico della Destra o reduci 
da travagliate esperienze democratiche, questi intellettuali erano 

G. Bottai, Disciplina, in «Critica fascista», 15 luglio 1923. 

“ G. Gamberini, Sistematizzare la fede, in «Il Popolo d’Italia», 4 aprile 


1928. 




100 


Il culto del littorio 


concordi nel voler conferire allo Stato un carattere di laica reli¬ 
giosità, attribuendogli quindi primarie funzioni pedagogiche nel¬ 
la educazione delle masse per la formazione di una coscienza na¬ 
zionale^^. Ad essi il fascismo apparve come la rivelazione della 
nuova religione politica, da anni agognata e a lungo cercata: 

Nel Partito fascista - scriveva uno di questi intellettuali, capo del¬ 
l’Ufficio propaganda e vice segretario del partito fascista nel 1925 - 
sono entrato per dovere e per impeto religioso. Mi ha fatto agire non 
solo il pericolo della Patria e l’amore della nostra civiltà, ma la spe¬ 
ranza di uno Stato italiano, che fosse il soggetto della Storia, che mi 
apparve sempre come la stessa vita di Dio. Io ho la religione della sto¬ 
ria: la mia fede è stata sempre quella dell’idealismo romantico, quel¬ 
la del nostro Risorgimento, di che si è alimentato il Fascismo.'^ 

Romolo Murri, già sacerdote promotore della «democrazia 
cristiana» e poi militante radicale per un rinnovamento demo¬ 
cratico-religioso dello Stato, vide nel fascismo la risposta al «pro¬ 
blema spirituale, antico € profondo, della vita italiana: cercare 
una fede che sia intima suscitatrice di storia, una azione che dia 
alla storia coscienza e valore di spiritualità e di universalità [...] 
Oggi come nel Risorgimento si tratta di fare degli italiani una 
Nazione e uno Stato [...] cercando e saldamente istituendo una 
visione, operosa nell’interno delle coscienze medesime, di unità 
nazionale» e di «validità etica dello Stato»^*^. Murri confidava 
nell’azione del governo fascista per l’attuazione di una riforma 


Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo daWantigiolittismo al fascismo, 
Roma-Bari 1999^; G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo do¬ 
poguerra, Brescia 1983. 

Lettera di Giorgio Masi a Mussolini, 13 novembre 1937, in ACS, MI, 
Confinati politici, b. 638, fase. «G. Masi». Insegnante, fervente gentiliano. Ma- 
si era un tipico rappresentante degli idealisti credenti nella religione fascista: 
«Una fede certa nella divinità di questo mondo - scriveva su ‘La Rivolta Idea¬ 
le’, organo della Federazione universitaria fascista, il 19 luglio 1925 (Propa¬ 
ganda fascista) - nella divinità della nostra vita, nel valore assoluto dell’opera 
nostra, anima ed esalta, sopra ogni dolore ed ogni sacrificio, questa nostra eroi¬ 
ca generazione di combattenti cui la guerra, la fede, il sacrificio fecero l’anima 
grande». Caduto in disgrazia per il suo estremismo. Masi nel 1937 fu condan¬ 
nato al confino. 

R. Murri, Fede e fascismo, Milano 1924, p. 23. Cfr. P.G. Zunino, Romo¬ 
lo Murri e il fascismo, in «Fonti e documenti», n. 14, 1985, pp. 631-667. 


111. L’«arcangelo mondano> 


101 


religiosa della politica italiana verso la creazione di un nuovo Sta¬ 
to nazionale, perché riconosceva al fascismo la vitalità e la fede 
di un movimento che aveva «agito sulle coscienze e sulla storia 
con le caratteristiche di entusiasmo, disciplina volontaria, di de¬ 
dizione eroica che son proprie della fede e dello spirito religio¬ 
so»; non solo, ma era anche «una dimostrazione ed una espe¬ 
rienza viva notevolissima di talune qualità ed esigenze della co¬ 
scienza religiosa contemporanea» perché il fascismo aveva la ten¬ 
denza «ad investire la politica di un afflato mistico», muovendo 
guerra ideale contro l’ottimismo e Tindividualismo romantico, 
l’ideologia illuminista e lo scientismo materialista. Perciò, con¬ 
cludeva Murri, il fascismo, conservando il carattere di «una ri¬ 
voluzione non tanto politica quanto spirituale», avrebbe avviato 
«quella intima rinnovazione religiosa che tutta la storia italiana, 
da cinque secoli, invoca e prepara»^^. E, come Murri, molti altri 
protagonisti della contestazione culturale del radicalismo nazio¬ 
nale e dell’avanguardia modernistica degli anni giolittiani videro 
nel fascismo il movimento più prossimo al loro ideale di religio¬ 
ne secolare che doveva finalmente formare r«anima» della na¬ 
zione; un movimento, per di più, dotato della forza, della volontà 
e dell’uomo che non solo aveva saputo interpretare la «nuova 
aspirazione religiosa della nostra coscienza politica»*^, ma si mo¬ 
strava anche capace di realizzarla nella creazione di uno Stato 
nuovo. Non è coincidenza casuale che, come vedremo più avan¬ 
ti, il mito di Mussolini-duce abbia avuto la sua prima manifesta¬ 
zione proprio nell’ambito di questi gruppi culturali, e che alcu¬ 
ni di questi intellettuali abbiano dato una mano alla trasforma¬ 
zione del mito in culto. 

Decisivo per l’elaborazione della teologia politica del fascismo, 
fu l’apporto di Giovanni Gentile e di molti suoi seguaci, che die¬ 
dero alla primitiva rehgiosità laica dello squadrismo un più robu¬ 
sto sostegno culturale, convinti che il fascismo fosse la ripresa del¬ 
la rivoluzione morale sognata da Mazzini. Convertito al fascismo 
nel 1923, il filosofo fu, almeno fino agli anni Trenta, il principale 
teologo dello Stato nuovo: ma anche quando la sua egemonia cul¬ 
turale nel regime cominciò a decHnare, rimase forte ed evidente la 


Ivi, pp. 6-7. 

B. Giuliano, L’esperienza politica dell’Italia, Firenze 1924, p. 311. 




102 


Il culto del littorio 


sua impronta sulla visione fascista dello Stato^^. Gentile, che dal¬ 
l’epoca dell’interventismo si sentiva impegnato, come erede spiri¬ 
tuale dei «profeti del Risorgimento» ad operare politicamente per 
dare una fede e un’anima allo Stato italiano, vide nel fascismo una 
vera religione perché i fascisti avevano «il sentimento religioso per 
cui si prende sul serio la vita»^^, «come culto reso da tutta l’anima 
alla nazione»^^. Il fascismo realizzava la religione politica di Mazzi¬ 
ni nelle forme adatte all’Italia moderna, che aveva affrontato e su¬ 
perato la prova del sacrificio rigenerandosi col sangue versato nel¬ 
la Grande guerra; «figlio della guerra»^^’, esso era «la coscienza vi¬ 
va e operosa della nuova anima nazionale, della giovane Italia [...] 
che fece la guerra»^h Dalla sua religiosità Gentile derivava il carat¬ 
tere totalitario della dottrina fascista, espressione di una «politica 
integrale, la quale non si distingue così dalla morale, dalla religione 
e da ogni concezione della vita»^^. E al fascismo e al suo capo. Gen¬ 
tile affidava il compito di risolvere «il problema religioso» che ave¬ 
va tormentato gli spiriti del Risorgimento, portando a compimen¬ 
to la rivoluzione incompiuta con la creazione di uno Stato nuovo in 
cui realizzare, in modo totalitario, l’integrazione delle masse nella 
nazione: «La quale deve a grado a grado accogliere in sé effettiva¬ 
mente e non solo nominalmente, nella storia e nello stato civile, tut¬ 
ti gli italiani, e tutti educarli, tutti stringerli nella nuova fede»^^. 

Lo Stato, nella concezione gentiliana fatta propria dal fasci¬ 
smo, non solo era l’educatore delle masse, ma era anzi il creato¬ 
re stesso della nazione come unità morale del popolo. In quanto 
tale, era uno Stato che ripudiava l’agnosticismo e la neutralità di 
fronte ai cittadini in materia di valori e di credenze, e si poneva 
di fronte ad essi come un divino demiurgo «che vuol rifare non 
le forme della vita umana, ma il contenuto, l’uomo, il carattere. 

Per un’analisi del contributo culturale di Gentile e dei suoi discepoli al¬ 
la elaborazione dell’ideologia del fascismo, cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideo¬ 
logia fascista, Bologna 1996^, pp. 405-453; per l’aspetto propriamente filosofi- 
co, cfr. A. Del Noce, Giovanni Gentile, Bologna 1990. 

G. Gentile, Fascismo e cultura, Milano 1928, p. 58. 

Id., Che cos’è il fascismo, Firenze 1925, p. 145. 

20 Ivi, p. 53. 

21 Ivi, p. 170. 

22 G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, Roma 1934, riportato in Id., 
Politica e cultura, voi. I, a cura di H.A. Cavallera, Firenze 1990, p. 395. 

2^ Id., Fascismo e cultura, cit., p. 89. 


T 


I ni. L’ «arcangelo mondano» 103 

I 

la fede»^"*. In forma più prosaica, «Il Popolo d Italia» sosteneva 
che il fascismo, prima che partito, «è soprattutto religione della 
Patria e del dovere», che si prefiggeva di raccogliere le masse an- . 
cora assenti dalla politica per «fare gli italiani»^^. 

Nel regime, la definizione del fascismo come religione dello 
Stato divenne formalmente uno dei fondamenti della sua cultu¬ 
ra, e la ritroviamo ovunque, continuamente ribadita e ripetuta 
come formula rituale in tutte le autorappresentazioni, colte o in¬ 
genue, del fascismo; divulgata a tutti i livelli della propaganda, 
da ogni grado della gerarchia. La religione fascista, scriveva nel 
1925 un popolare giornalista del regime, era una forza morale 
che dava agli italiani «ordine, disciplina, armonia di sforzi, vo¬ 
lontà di lavoro e di potenza, spirito di sacrificio, amore mistico 
della patria, obbedienza cieca ad uno solo, coraggio di riforme», 
e come tale era una fede salvifica per tutto il mondo, perché of¬ 
friva un rimedio «ai mali della società moderna, senza distrug- 
' gerla come il bolscevismo nelle sue fondamenta millenarie»-^. Il 

: coraggio del fascista di fronte alla morte, scriveva nel 1928 Sal- 

j vatore Gatto, un giovane giornalista, fascista dal 1919 e squadri¬ 

sta, divenuto nel 1941 vicesegretario del PNF, era la prova che il 
' fascismo era una vera religione, come il cristianesimo: 

Il Fascismo è religione, politica e civile, perché ha una propria 
concezione dello Stato e un modo originale di concepire la vita [...] i 
martiri cristiani e gli eroi giovinetti della Rivoluzione Fascista hanno 
confermato, attraverso i tempi, una luminosa realtà: solo una religio¬ 
ne può negare ed annullare l’attaccamento alla vita mondana.^"^ 

I Nel 1932 Mussolini sentenziò definitivamente nella Dottrina 

I del fascismo: «Il Fascismo è una concezione religiosa della vita, 

24 Mussolini, La dottrina del fascismo. I. Idee fondamentali, riportato in Id., 
Opera Omnia, cit., voi. XXXI'V, pp. 120-121 (il testo, per la parte filosofica, 
era opera di Gentile). 

2’ P. Pedrazza, Facciamo gli italiani, in «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 1924. 
26 M. Appelius, cit. in La religione nazionale del fascismo, in «La Vita ita- 
3 liana», 1925, pp. 316-317. 

2^ S. Gatto, Di fronte al passato, in «Il Raduno», aprile 1928, riportato in 
Id., 1923. Polemiche del pensiero e dell’azione fascista, Roma 1934, p. 61; cfr. 
anche Id., Fascismo è religione, in «La Rivolta Ideale», 13 settembre 1925. 






104 


Il culto del littorio 


in cui Tuomo è veduto nel suo immanente rapporto con una leg¬ 
ge superiore, con una volontà obiettiva, che trascende l’indivi¬ 
duo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società 
spirituale»^*^. E questa società trovava la sua organizzazione nel¬ 
lo Stato totalitario, in cui Videa fascista doveva perennemente 
concretizzarsi, diventando istituzione e fede collettiva. 


Il «vero paradiso» 

L’idea fascista, aveva scritto il federale di Milano Giampaoli 
nel 1929, «è, come l’idea cristiana, un dogma in perpetuo dive- 
nire»2"^. Alla luce di questa definizione, risultava facile giustifica¬ 
re le contraddizioni o i cambiamenti di taluni orientamenti del¬ 
l’ideologia fascista, perché, spiegava il filosofo Balbino Giuliano, 
ministro dell’Educazione nazionale, la religione fascista non era 
irrigidita in una teologia definitiva: 

noi non riusciamo a determinare nella sua esplicita interezza l’idea fa¬ 
scista in un concetto, perché essa ha tutti i caratteri della grande idea 
religiosa, che come il sole è sempre se stessa e sempre diversa, non è 
contenuta in nessun concetto, perché produce dal suo seno teorie di 
concetti, perché, ripeto, è religione e non teologia.’® 

Il sincretismo dell’ideologia fascista accoglieva orientamenti 
diversi al suo interno, ma nessuno di questi, in realtà, poteva aspi¬ 
rare a presentarsi come una interpretazione autentica della «fe¬ 
de», né mettere in discussione i capisaldi della religione fascista. 
Questa, in effetti, non lasciava affatto in uno stadio vaporoso o 
fluido le determinazioni dell’«idea fascista»: in teoria e in prati¬ 
ca esse convergevano tutte verso la sacralizzazione dello Stato, di 
fronte al quale la fluidità della religione si irrigidiva in un dogma 
che non consentiva elasticità di interpretazioni. Le dichiarazioni 
della dottrina fascista, stilata da Mussolini con la collaborazione 
di Gentile, erano perentorie sulla sacralità dello Stato di fronte 


Mussolini, La dottrina del fascismo cit., p. 118. 

M. Giampaoli, 1919, Roma 1929, p. 346. 

B. Giuliano, L’idea etica del fascismo, in «Gerarchia», novembre 1932. 


III. L’«arcangelo mondano> 


105 


all’individuo: per il fascista «tutto è nello Stato, e nuUa di uma¬ 
no o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. 
In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e 
unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita 
del popolo»”: «[...] lo Stato è un assoluto, davanti al quale in¬ 
dividui e gruppi sono il relativo»’^. Del resto, lo stesso Giuliano 
aveva affermato, parlando ai giovani della Scuola di mistica fa¬ 
scista, che «c’è nello Stato una maestà divina a cui è dolce per 
noi obbedire»”. 

Nella sacralizzazione dello Stato totalitario come suprema 
autorità politica, spirituale e morale, e come sommo ed unico 
educatore della collettività si manifestavano i principi costituti¬ 
vi e il massimo ideale della cultura fascista e la sua visione del¬ 
la politica: una visione che, nella concezione dello Stato, pote¬ 
va anche formalmente riconoscere, fra i suoi antenati, J.-J. Rous¬ 
seau’"^. Camillo PeUizzi, uno dei più sensibili interpreti dei miti 
fascisti, immaginava lo Stato quasi come «un soggetto mistico, 
un arcangelo mondano», e considerava il più grave problema 
italiano quello di «ricostituire in noi un senso religioso dello Sta- 

Mussolini, La dottrina del fascismo cit., p. 120. L’ultima frase è dovuta 
direttamente all’intervento del duce sul testo gentiliano, che più genericamen¬ 
te affermava «il fascismo si dice totalitario» e lo Stato fascista «compenetra tut¬ 
ta la vita del popolo». Il testo originale, con le correzioni mussoliniane è in Ar¬ 
chivio della Fondazione Gentile, fase. Mussolini. 

^2 Ivi, p. 129. 

«Il Popolo d’Italia», 20 dicembre 1931. 

Si veda, in proposito, quanto scriveva Felice Battaglia nella voce Rous¬ 
seau del Dizionario di politica del Partito fascista: 

«Il contratto sociale non è all’origine storica dello stato, ma criterio intrin¬ 
seco di razionalità, sia che ne intenda l’essere profondo, sia che orienti l’azio¬ 
ne sua secondo un ideale di giustizia. La volontà generale non è più la volontà 
di tutti, ma l’universale volontà che gli è immanente, e che, come legittima la 
legge, fonda altresì l’autorità. In questo senso il Rousseau inaugura quelle 
profonde vedute sullo stato, che, attraverso l’idealismo germanico, perverran¬ 
no a noi, che lo stato poniamo su un piano di assolutezza, oltre ogni empiri- 
cità. Lo stesso popolo, su cui tanto egli insiste, non è moltitudine disgregata, 
in cui ciascuno conta per uno, paritariamente, secondo l’interpretazione de¬ 
mocratica, ma il depositario di un valore, che va oltre la vita singola, perché 
dello spirito, di un valore perenne che è l’associazione, il vincolo, l’unità. As¬ 
solutismo, altri hanno detto, assolutismo democratico, ma invero non è tale, 
bensì ripetiamo, senso della razionalità immanente allo stato e che lo fa ap¬ 
punto soggetto morale, campo della razionalità compiuta e dispiegata nella po¬ 
litica» (PNF, Dizionario di politica, voi. IV, Roma 1940, p. 157). 






106 


Il culto del littorio 


to»^5 La tradizione statalista italiana e persino lo statalismo 
neoassolutista di Alfredo Rocco, che pure era Tarchitetto dello 
Stato fascista, quasi impallidivano di fronte ai più spericolati pa¬ 
negirici della sacralità dello Stato, disseminati da politici e in¬ 
tellettuali del regime: «Lo stato fascista - scriveva Paolo Orano 
- non può essere concepito e creduto e servito e glorificato che 
religiosamente», e neir«adesione al fascismo c’è una vocazione 
mistica che traduce in missione religiosa la condotta civile». An¬ 
che il cattolicismo, per Orano, doveva contribuire a rafforzare 
la convinzione che lo Stato è «onnipossente e fonte d’ogni be¬ 
ne e d’ogni ascensivo destino nazionale»: «tutto ciò che il cat¬ 
tolicismo ha di fattivo, il fascismo lo assorbe e se ne alimenta e 
della nazione-stato fa il più glorioso regno di Dio in terra»^^’. 
Bottai stesso, che pure sovente polemizzava con il dogmatismo 
dei fascisti più intransigenti, fu uno dei più appassionati asser¬ 
tori del culto dello Stato, in cui vedeva, gentilianamente, il va¬ 
lore supremo della vita sociale, la più alta e completa manife¬ 
stazione della spiritualità dell’uomo, perché nello Stato 

l’uomo realizza i più alti valori morali della sua vita e perciò supera 
tutto quello che vi è in lui di particolare: convenienze personali, in¬ 
teressi, la vita stessa, se è necessario. Nello Stato noi vediamo l’attua¬ 
zione dei massimi valori spirituali: continuità oltre il tempo, grandezza 
morale, missione educatrice di sé e degli altri.^^ 

Per Bottai, lo «Stato potente non è il braccio secolare del di¬ 
vino, che vive nel pensiero, ma è il segno d’ima sacra autenticità 
del pensiero. Uno Stato eroico è la terrena espressione d’un pen¬ 
siero eroico»^^. E dalla sacralità dello Stato discendeva, natural¬ 
mente, la relatività dell’individuo, «transeunte elemento, parte¬ 
cipe di un’opera immensa, che lo trascende: egli porta il suo con¬ 
tributo e scompare. Il suo dovere è di dare la sua opera alla co- 


Q Pellizzi, L’iniziativa individuale nella politica fascista, in «Gerarchia», 
dicembre 1931; Id., Religiosità dello Stato, in «Il Popolo d’Italia», 20 agosto 
1927. 

P. Orano, Il Fascismo, voi. II, Roma 1939, pp. 140-146. 

G. Bottai, Stato corporativo e democrazia, in «Lo Stato», marzo-anrile 

1930. 

Id., Filosofia e rivoluzione, in «Primato», 1° novembre 1940. 


III. L’«arcangelo mondano) 


107 


struzione della vita collettiva nazionale, alla costruzione dello Sta¬ 
to, dovere che non viene meno mai»^^. 

Ci siamo finora imbattuti in filosofi, intellettuali e gerarchi del 
regime, per i quali l’esaltazione dello Stato poteva essere anche un 
rituale atto di dedizione compiuto per dovere burocratico. Ma la 
sacralizzazione dello Stato non rimaneva affatto confinata nel cer¬ 
chio dei dottrinari e dei burocrati: essa pervadeva e dominava tut¬ 
to l’universo simbolico fascista, permeava le istituzioni attraverso 
le quali Stato e partito operavano per il controllo e la trasforma¬ 
zione della coscienza collettiva, si introduceva in ogni aspetto del¬ 
la vita pubblica e dell’educazione, onnipresente, come una divinità 
che tutti assorbe, annichilendoli nella subordinazione alla sua 
propria superiore essenza collettiva. Il partito fascista insegnava 
che fin «dai più teneri anni l’idea dello Stato deve operare suUe gio¬ 
vani anime con la suggestione di un mito che, crescendo l’età, si at¬ 
tua in forme di disciplina civile o di operante milizia»"*®. Lo Stato, 
dichiarava ancora Bottai nelle vesti di ministro dell’Educazione, 
aveva la sua morale che «investe di necessità tutte le attività uma¬ 
ne e finanche i pensieri», continuando, «giorno per giorno, nella 
sua opera di rifacimento del carattere degli Italiani»'* b Agli alunni 
delle scuole elementari veniva insegnato che «il vero paradiso è 
ove si fa la volontà di Dio, che viene sentita anche attraverso la vo¬ 
lontà dello Stato»"*^. Un giovane antifascista, cresciuto nel regime, 
ha lasciato una testimonianza eloquente del clima in cui erano edu¬ 
cate le nuove generazioni: 

[Il fascismo] mi veniva presentato e mi si presentava come una con¬ 
cezione totale, come una religione, con un suo nume: lo Stato, con un 
suo supremo atto di culto: la guerra, con una sua ascesi: la volontà di 
uccidere e di farsi uccidere, con un suo stile onnicomprensivo di vi¬ 
ta: lo «stato di alta tensione ideale», cioè la disposizione perenne al 
«sacrificio supremo» [...] Lo Stato è tutto. Esso era il nume cui tutto 
doveva sacrificarsi.'*^ 


Id., Esperienza corporativa (1929-1935), Firenze 1935, p. 586. 

40 pjqp II cittadino soldato, Roma 1936, p. 13. 

G. Bottai, Le carte della scuola, Milano 1941, pp. 417-418. 

Il libro della terza classe elementare, Roma 1936, p. 65 (l’autore era Naz¬ 
zareno PadeUaro). 

Autotobiografie di giovani del tempo fascista, Brescia 1947, pp. 18-21. 




108 


Il culto del littorio 


Alla sacralizzazione dello Stato educatore e alla propaganda 
della fede partecipavano tutte le istituzioni del regime, dalla scuo¬ 
la ai sindacati, ma il ruolo principale spettava al partito, cui era 
affidato il compito di alimentare «nel popolo il culto dello stato» 
per mutare «il gelido rapporto fra il sovrano e il popolo, in un 
rapporto religioso di devozione», al fine di trasformare «i suddi¬ 
ti in fedeli»'^'*. 


Lordine militare religioso 

L’ideologia fascista, come teologia politica dello Stato, fu fa¬ 
cilmente cristallizzata nei comandamenti di un «credo». Ciò con¬ 
sentì al fascismo di non esporsi ai rischi di conflitti dottrinari. 
L’unica interpretazione «vera» era la pratica quotidiana della fe¬ 
de, vissuta come dedizione religiosa e totale - almeno per quan¬ 
to riguardava i fini supremi della vita in questo mondo - alla vo¬ 
lontà dello Stato. Per sublimare il significato di questa militanza 
politica fondata esclusivamente sull’obbedienza e la dedizione, i 
fascisti definivano il partito come «un Ordine religioso e milita¬ 
re. È religioso perché ha la sua fede propria, nella sua coscienza; 
è militare, perché obbedendo al suo imperativo interiore difen¬ 
de la sua fede ed incontra il sacrificio per essa. Questo è il ca¬ 
rattere mistico del Fascismo, milizia di credenti in un mondo sfi¬ 
duciato ed imbelle»"*^. E il fascismo non nascondeva che la sua 
politica mirava a realizzare un tipo di organizzazione simile alla 
Chiesa cattolica, eletta a modello per la costruzione dello Stato 
totalitario: 

Una delle novità essenziali dello Stato fascista - affermò Alfredo 
Rocco -, che esso ha sotto qualche punto di vista comune con un’al¬ 
tra grande istituzione dalla vita millenaria, la Chiesa cattolica, è quel¬ 
la di possedere, accanto alla normale organizzazione dei poteri pub¬ 
blici, un’altra organizzazione comprendente una infinità di istituzio¬ 
ni, le quali hanno per iscopo di avvicinare lo Stato alle masse, di pe¬ 
netrare profondamente in esse, di organizzarle, di curarne più da vi- 


M. Maraviglia, Alle basi del regime, Roma 1929, p. 36. 
Santa Milizia, cit. 


III. L'«arcangelo mondano> 


109 


cino la vita economica e spirituale, di farsi tramite ed interprete dei 
loro bisogni e delle loro aspirazioni.'*^ 

Ma l’analogia con la Chiesa andava, per i fascisti totalitari, ol¬ 
tre gli aspetti organizzativi e sociali, investendo la natura religio¬ 
sa di questa analogia. 

L’organizzazione dello Stato fascista, scriveva «Critica fasci¬ 
sta», «ripete in qualche modo taluni caratteri più salienti della 
organizzazione cattolico-romana: potere che assomma ed unifica 
le attività dei consociati, le imprime il suo carattere, fa dei suoi 
fini i fini più alti della loro vita civile, non tollera tentativi di sci¬ 
smi o di eresie civili»‘^'^. Come idea religiosa, scriveva nel 1931 
Carlo Scorza, allora segretario dei Fasci giovanili di combatti¬ 
mento, alla vigilia di capeggiare una violenta campagna contro 
l’Azione cattolica, il fascismo doveva trarre insegnamento dalla 
«più grande e saggia maestra che la storia rammenti: la Chiesa 
Cattolica», non quella dei poveri e umili santi, ma «quella degli 
imperituri pilastri, dei grandi Santi, dei grandi Pontefici, dei 
grandi Vescovi, dei grandi Missionari: politici e guerrieri che im¬ 
pugnavano la spada come la croce e usavano indifferentemente 
il rogo e la scomunica, la tortura e il veleno: s’intende, non in 
funzione di potere temporale o personale, ma sempre in funzio¬ 
ne della potenza e della gloria della Chiesa». E come «nuova 
grande religione civile della Patria» il fascismo doveva «ispirarsi 
a questa grande scuola di intransigenza e di fierezza»'**. Per Scor¬ 
za, il partito, tramite le sue organizzazioni giovanili, doveva di¬ 
ventare sempre più «un ordine religioso armato» sul modello del¬ 
la Compagnia di Gesù, consacrato al «mito mussoliniano»'**^. 

Una parte importante per la istituzionalizzazione della reli¬ 
gione fascista fu svolta dai segretari del PNF. Roberto Farinacci, 
segretario dal 1925 al 1926, giustificò con la «fede domenicana» 
del fascismo la politica integralista del partito, che aiutò l’in¬ 
staurazione del regime. Ma si deve soprattutto ad Augusto Tu¬ 
rati (1926-1930) la definizione delle forme istituzionali del culto 

A. Rocco, Scritti e discorsi politici, voi. Ili, Milano 1938, pp. 944-945. 

Dallo Stato alla Chiesa, in «Critica fascista», 15 luglio 1931. 

C. Scorza, Odiare i nemici, in «Gioventù fascista», 12 aprile 1931. 

ACS, SPD, CR, b. 31, fase. 1, Relazione al duce sui Fasci giovanili di com¬ 
battimento, 11 luglio 1931. 




no 


Il culto del littorio 


del littorio. Nei suoi discorsi alle masse e soprattutto ai giovani 
fascisti, il «nuovo apostolo della religione della Patria»^® predicò 
«il bisogno di credere in maniera assoluta; di credere nel Fasci¬ 
smo, nel Duce, nella Rivoluzione, come si crede nella divinità [...] 
noi accettiamo la Rivoluzione con orgoglio, noi accettiamo con 
orgoglio questi dogmi, anche se ci si dimostri che sono sbagliati, 
e li accettiamo senza discutere»^!. Nel 1929, Turati fece pubbli¬ 
care un catechismo di «dottrina fascista» per fissare l'interpreta¬ 
zione ortodossa della «fede fascista», contro «storture di conce¬ 
zioni e di espressioni», riaffermando che il fascismo si fondava 
sulla «subordinazione di tutti alla volontà di un Capo»^^. H suo 
successore Giovanni Giuriati (1930-1931) intensificò il senso fi¬ 
deistico e dogmatico del fascismo soprattutto fra i giovani, svi¬ 
luppando la loro organizzazione per formare i missionari e i sol¬ 
dati della religione fascista secondo il comandamento del duce - 
«credere, obbedire, combattere» - coniato nel 1930 come viati¬ 
co per i Fasci giovanili allora costituiti. Infine, durante la lunga 
segreteria di Achille Starace (1931-1939), la formalizzazione del¬ 
la religione fascista, attraverso una moltiplicazione piuttosto au¬ 
tomatica dei riti del culto del littorio, con una definizione meti¬ 
colosa delle regole di vita per il fascista, raggiunse il culmine, tra¬ 
valicando spesso anche il limite del ridicolo nella esasperata ri¬ 
cerca di un conformismo di atti diretto a produrre un conformi¬ 
smo di coscienze e di credenze. Tutto questo non era privo di 
una sua logica. Il partito probabilmente non si peritava di sfida¬ 
re anche il ridicolo, nella convinzione che, alla fine, l’abito, o me¬ 
glio, lo stile, la regola di comportamento morale e di costume ci¬ 
vile, fissata entro i rigidi parametri di una ordinata scansione dei 
momenti della vita pubblica, come altrettante occasioni di eser¬ 
cizio di virtù civile e testimonianza di fede, avrebbe determinato 
un cambiamento del carattere, portando alla nascita dell’«italia- 
no nuovo». 

Nel 1938 fu pubblicato, a cura del PNF, un nuovo catechi¬ 
smo della religione fascista, che, sotto forma di domande e ri¬ 
sposte, intendeva dare ai fascisti una «semplice guida, necessaria 

«Il Popolo d’Italia», 29 ottobre 1926. 

«Il Popolo d’Italia», 16 luglio 1929. 

La dottrina fascista, Roma 1929, pp. 3, 13. 


III. L’«arcangelo mondano> 


111 


per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell’e¬ 
sistenza»^^. Ogni generazione, ammoniva «Critica fascista», do¬ 
veva abituarsi a considerarlo come «il sillabario della sua fede po^ 
litica»^'^. 


In principio è la fede 

Tutto il processo di istituzionalizzazione della religione fasci¬ 
sta accentuò la formalizzazione della partecipazione politica dei 
militanti del PNF nei termini di una adesione fideistica e nell’a¬ 
dozione di uno stile di vita conforme ai dettami della precettisti¬ 
ca emanata dal duce e, in suo nome, dal partito. 

Il fondamento, l’essenza e il fine dello stile di vita del mili¬ 
tante del PNF si riassumevano nella fede, parola chiave nel lin¬ 
guaggio politico del fascismo: «Bisogna accendere tutta l’anima 
ai focolari della Fede: bisogna credere nella Patria come si crede 
in Dio [...] bisogna divinizzare negli spiriti questa Italia nostra 
già tanto divina, come Dio ce l’ha data», proclamava «Il Popolo 
d’Italia» aH’indomani delle celebrazioni del primo anniversario 
della «marcia su Roma»’^. Il nuovo statuto del PNF del 1926 re¬ 
cava un preambolo intitolato La fede, in cui era solennemente ri¬ 
badito che il fascismo «è soprattutto una fede che ha avuto i suoi 
confessori». 

La identificazione del partito con un ordine religioso milita¬ 
re o con una chiesa^^, servì anche per reprimere i dissensi all’in¬ 
terno del partito stesso, per espellere i ribelli come «traditori del¬ 
la fede» ed imporre l’obbedienza assoluta ai gregari. L’iscrizione 
al PNF non era un semplice atto di adesione ad un programma 
politico, ma comportava un atto di dedizione totale, consacrato 
dal giuramento. Durante il regime, viene introdotta una modifi¬ 
ca molto importante nella formula del giuramento, per cui la de¬ 
dizione è rivolta non alla patria, come all’epoca dello squadrismo, 

PNF, Il primo libro del fascista, Roma 1938, p. 7. 

Dogana, in «Critica fascista» 1“ maggio 1939. 

Dopo la Marna, in «Il Popolo d’Italia», 1“ novembre 1923. 

Cfr. O. Fantini (a cura di). Il partito fascista, Roma 1931, pp. 92, 138. 
Cfr. P. Pombeni, Demagogia e tirannide, Bologna 1984, cap. III. 






112 


Il culto del littorio 


ma specificamente alla causa del fascismo: «Giuro di eseguire 
senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie 
forze e, se è necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzio¬ 
ne Fascista»57. Successivamente, anche in seguito alle polemiche 
con la Chiesa, venne aggiunto che il fascista giurava «nel nome 
di Dio e deiritalia»^^. La variazione di per sé era significativa, 
non solo per il fatto di accostare l’Italia a Dio come garante del 
giuramento, ma per la definitiva conferma dalla istituzionalizza¬ 
zione della militanza fascista come impegno religioso di tutta re¬ 
sistenza, fondato sulla fede e praticato attraverso l’obbedienza as¬ 
soluta. Il giuramento fascista, spiegava il Dizionario di politica, 
«non è nel suo contenuto adesione platonica a un sistema ideo¬ 
logico, ma è espressione volitiva di fedeltà intransigente ad una 
dottrina intesa non come ‘esercitazione di parole’ ma come con¬ 
cezione di vita. È un ‘credo’ politico e nello stesso tempo è un 
‘comandamento’ d’azione animata da profondo contenuto idea¬ 
le». Giurando, il fascista «compie un atto di fede: accettazione 
cosciente ed integrale dell’ordine fascista con tutte le conse¬ 
guenze che ne derivano»^^. Chi infrangeva il giuramento era un 
traditore e veniva espulso dalla «comunità fascista». Nel 1926 il 
nuovo statuto del PNF decretò che il fascista espulso, come «tra¬ 
ditore della causa», doveva «essere messo al bando dalla vita po¬ 
litica». Un nuovo statuto del 1929 aggravò questa sanzione, che 
era l’equivalente della scomunica nella Chiesa cattolica: l’espul¬ 
so dal partito era messo «al bando dalla vita pubblica»^®. 

Il tipo ideale deir«uomo fascista» era il credente-combatten- 
te di una religione, e questo modello veniva proposto fin dal¬ 
l’infanzia alle nuove generazioni inquadrate nelle organizzazioni 
del partito. L’ideale della pedagogia fascista era un «Balilla di 6 
anni che giura fedeltà al Duce, che sfila inquadrato al ritmo dei 
tamburi, che non si aggrappa più alle gonnelle della mamma, im- 


” Statuto del PNF del 1929, art. 13. La formula era stata introdotta per il 
giuramento dei militi della MVSN nel 1926, cfr. PNF, «Foglio d’ordini», n. 7 
15 settembre IV (1926). 

Statuto del PNF del 1932, art. 14. 

” M. Martignetti, Giuramento, in PNF, Dizionario dipolitica, voi. II, Ro¬ 
ma 1940, p. 316. 

“ Cfr. la raccolta degli statuti del PNF in M. Missori, Gerarchie e Statuti 
del PNF, Roma 1986. 


111. L’«arcangelo mondano> 


113 


paurito, ma sogna di combattere e morire per la patria»^L I gio¬ 
vani fascisti erano esortati soprattutto a credere ciecamente nel 
duce: «Abbi sempre fede. La fede te l’ha data Mussolini, perciò 
è cosa sacra [...] Tutto quello che il Duce afferma, è vero. La pa¬ 
rola del Duce non si discute [...] Dopo il ‘Credo’ in Dio recita, 
ogni mattina, il ‘Credo’ in Mussolini»^^. L’organo dei Fasci gio¬ 
vanili proclamava nel 1932 che «Il Fascismo è una forma di vi¬ 
ta, e perciò è una religione: un buon fascista è un religioso. Noi 
crediamo in una mistica fascista, perché è una mistica che ha i 
suoi martiri, che ha i suoi devoti, che tiene e umilia tutto un po¬ 
polo intorno a un’idea»^^. Il fascismo considerava la «fede» il va¬ 
lore primario della militanza politica, la principale qualità 
deir«uomo fascista», al di là delle capacità intellettuali. Cultura 
e intelligenza contavano meno della dedizione ai dogmi della re¬ 
ligione fascista. Negli anni del regime, almeno in linea di prin¬ 
cipio, si stabilì che la «fede» doveva avere la precedenza sulla 
«competenza» perché «la fede è un valore integrale»^"*. Il testo 
ufficiale di dottrina fascista, per i corsi di preparazione politica 
del PNF dove si formavano i nuovi dirigenti, insegnava che «so¬ 
lo una fede può creare realtà nuove»^’^. Tutto ciò, del resto, era 
coerente con la concezione del partito come «ordine religioso¬ 
militare». Il partito era il seminario dove venivano allevati gli 
apostoli e i combattenti della religione fascista, e i nuovi diri¬ 
genti dello Stato-chiesa. La somiglianza della militanza fascista 
con la militanza cattolica è evidente nei principali riti del parti¬ 
to. Dalla liturgia cattolica, per esempio, era ripreso il rito della 
«Leva fascista», istituita nel 1927: un «rito di passaggio» simile 
alla cresima, con cui i giovani provenienti dall’organizzazione 
giovanile, confermando la loro fede nel fascismo, venivano «con¬ 
sacrati fascisti» diventando membri del partito. Il rito si svolge- 


Istruzioni sul libro della prima classe, in «Annali dell’istruzione elemen¬ 
tare», a. XVI n. 3 cit. in T.M. Mazzatosta, Il regime fascista tra educazione e 
propaganda. 1935-1943, Bologna 1978, p. 144. 

«Eja», foglio d’ordini della federazione fascista di Ascoli Piceno, 22 ago¬ 
sto 1936. 

M.P. Bardi, Mostra della Rivoluzione Fascista, in «Gioventù fascista», 10 
luglio 1932. 

^ G. Gamberini, Fede e competenza, in «Critica fascista», 1° agosto 1930. 

PNF, La dottrina del fascismo, Roma 1936, p. 15. 





Fig. 7. La premiazione dei Littoriali in occasione del V annuale dei 
Fasci giovanili celebrato a Roma («La Rivista illustrata del Popolo d’I¬ 
talia», ottobre 1935). 


III. L'«arcangelo mondano> 


115 


va con solenne cerimonia pubblica in tutte le città ma la ceri¬ 
monia più solenne si svolgeva a Roma, alla presenza del duce. Ai 
giovani veniva simbolicamente consegnata la tessera e un mo¬ 
schetto: «La prima è il simbolo della fede; il secondo è lo stru¬ 
mento della nostra forza», proclamò Mussolini in occasione del¬ 
la prima «Leva»^^. I nuovi fascisti, dopo l’appello ai caduti fa¬ 
scisti, giuravano di «eseguire senza discutere gli ordini del Du¬ 
ce» e di servire con tutte le forze, e se necessario «col sangue», 
la causa della rivoluzione fascista. Il segretario del PNF, che con¬ 
feriva l’«altissimo crisma fascista»*’’^, era «il sacerdote che parla 
con voce mistica, con appello vivificatore»^’^: «domani - disse ai 
nuovi fascisti - io vi posso chiedere conto per la vita e per la 
morte di ogni vostro atteggiamento, di ogni vostro gesto, sia buo¬ 
no sia cattivo»*^^. 

1 


Il custode della fiamma sacra 

La partecipazione del partito all’istituzionalizzazione della re¬ 
ligione fascista, al di là delle personali convinzioni dei sommi sa¬ 
cerdoti del regime, fu ispirata anche da considerazioni più prag¬ 
matiche, perché fu un modo per affermare e legittimare il pri¬ 
mato del partito nei confronti delle altre organizzazioni del regi¬ 
me. Solo il partito, sotto gli ordini del duce, aveva il compito di 
custodire «la fiamma della rivoluzione», per agire, nello Stato fa¬ 
scista, come «lievito spirituale, come fiamma alimentata dal san¬ 
gue dei Caduti»^®, secondo quanto affermavano i testi ufficiali 
per i corsi di preparazione politica del PNF. 

Il culto dei caduti, che aveva avuto, come abbiamo visto, una 
parte fondamentale nella nascita della liturgia squadrista, con¬ 
servò un posto d’onore nel culto del littorio, per i militanti e per le 
masse. Il martirio per la «Causa» è al vertice della scala dei valori 

66 pNp^ «Foglio d’ordini», n. 27, 27 marzo V (1927). 

Ivi, n. 45, 17 marzo VI (1928). 

Adunate del fascismo, in «L’Ordine fascista», marzo 1928. 

«Il Popolo d’Italia», 22 marzo 1928. 

70 PNP^ Il partito nazionale fascista, Roma 1936, p. 53; Id., Il cittadino sol¬ 
dato, Roma 1936, p. 19. 






116 


Il culto del littorio 


dell’etica fascista. Come tutte le religioni, il fascismo dava a suo 
modo una risposta al problema della morte, attraverso l’esaltazio¬ 
ne del senso comunitario che integra l’individuo nel gruppo. Chi 
moriva con la fede nel fascismo entrava nel suo universo mitico ed 
acquistava l’immortalità nella memoria collettiva, attraverso la ce¬ 
lebrazione liturgica del culto degli eroi e dei caduti; 

tutte le grandi imprese hanno i loro eroi, tutte le fedi hanno i loro san¬ 
ti - scriveva il vicesegretario del PNF Arturo Marpicati -. Il culto de¬ 
gli eroi ha certo radice nel fatto che essi, anche dopo la morte, vivono 
come forze operanti beneficamente per la causa per la quale sono ca¬ 
duti. Chi affronta la morte per una causa, ha la certezza della continuità 
della sua opera oltre il limite della vita mortale; e per questa certezza, 
sigillata dal martirio, egli veramente vive, come forza immateriale, ma 
di una potenza senza limiti, nella continuità delle generazioni. 

Nel Palazzo littorio, sede della segreteria nazionale del PNF, vi 
era una «cappella votiva», dove «arde una fiamma che mai si spe¬ 
gnerà. È stata accesa dal Duce col fuoco offertogli da un Balilla»; 

La fiamma illumina le parole con cui Mussolini ha tramandato al¬ 
l’eternità la gloria dei martiri. Vigila in alto il monito; credere, obbe¬ 
dire, combattere. Splendono da un lato le parole; Caddero per il Fa¬ 
scismo - vivranno - nel cuore del popolo - perennemente. Di fronte, 
solenne, risponde la sicura promessa: Il sacrificio delle Camicie nere 
consacra - la Rivoluzione del Littorio - nella certezza del futuro - nel¬ 
la gloria della Patria?^ 

In ogni sede del Fascio vi era un «sacrario» dove si venerava 
la memoria dei caduti ed erano custoditi il gagliardetto, i cimeli 
del «tempo eroico», le reliquie dei martiri. Per ricordare «nei se¬ 
coli il sacrificio eroico dei caduti per la rivoluzione delle camicie 
nere», come recitava l’epigrafe dedicatoria, era stata eretta nel 
1926 sul Campidoglio un’ara, che, insieme all’Altare della patria, 
fu la meta spirituale di tutte le cerimonie che si svolgevano in 

A. Marpicati, Il partito fascista, Milano 1935, pp. 129-130. Fin dal 1925, 
il partito aveva dedicato particolare cura a preservare e perpetuare la memoria 
dei caduti fascisti. Cfr. PNF, Pagine eroiche della rivoluzione fascista, Milano 
1925. 


III. L’«arcangelo mondano> 


117 


piazza Venezia. Il ricordo dei martiri era periodicamente rinno¬ 
vato, con il rito dell’appello, in occasione di tutti gli anniversari 
del regime. Nella ricorrenza della morte, i fascisti compivano un 
pellegrinaggio sul luogo dove questa era avvenuta, segnalato da 
una lapide o da un monumento. A Milano, sul luogo dove erano 
caduti tre fascisti, fu eretta una «fontana votiva», simbolo del pe¬ 
renne zampillare di nuove energie dalla memoria dei martiri. Fre¬ 
quente era il rito di dedicare al nome di un martire le nuove ope¬ 
re compiute dal regime. Anche frequente era l’usanza di dedica¬ 
re al caduto un albero, simbolo di vita, di saldo radicamento nel 
suolo natio e di ascensione al cielo. Ai caduti fascisti venivano 
talvolta dedicati speciali sacrari monumentali, come a Bologna, 
per raccoghere le loro salme in un unico luogo di culto. Le sal¬ 
me dei caduti fascisti fiorentini furono traslate nel 1934 nel sa¬ 
crario loro dedicato in Santa Croce, con una solenne cerimonia 
radiodiffusi: «Il nuovo sacrario - scriveva l’organo dei Fasci gio¬ 
vanili - ha in sé la suggestione che esalta la bella morte»"^^. 

La funzione sacerdotale del partito, esaltata soprattutto dai 
suoi dirigenti, era svolta anche attraverso un’intensa rappresen¬ 
tazione simbolica che mirava a rivestire di «sacralità» la sua pre¬ 
senza nella vita civile. Per esempio, le sedi locali del PNF, le Ca¬ 
se del Fascio, erano considerate le «chiese della nostra fede», «gli 
altari della religione della Patria», dove «coltiveremo il religioso 
ricordo dei nostri morti» ed «opereremo a purificare l’anima»^^. 
Come propri «luoghi santi» il partito venerava i locali e le piaz¬ 
ze delle prime adunate, come il «covo», prima sede del giornale 
di Mussolini, piazza S. Sepolcro, e la piazza Beigioioso. 

Nel quadro di questa attività sacerdotale rientrava anche la 
custodia e la venerazione dei simboli del partito. Dall’epoca del¬ 
lo squadrismo, come abbiamo visto, la benedizione dei gagliar¬ 
detti era uno dei più «sacri» riti fascisti. Il gagliardetto, benedetto 
sempre in nome dei martiri fascisti, veniva santificato come sim¬ 
bolo della comunione spirituale della squadra nei suoi compo¬ 
nenti vivi e morti. Citiamo, in proposito, un episodio singolare 
di cui fu protagonista Carlo Scorza, allora segretario federale di 

G. Pucci, Santa Croce sacrario dei nostri martiri, in «Gioventù fascista», 
1" novembre 1934. 

«II Popolo d’Italia», 9 e 30 ottobre 1923. 








118 


Il culto del littorio 


Lucca. Nel 1928 durante una cerimonia a Valdottavo al momen¬ 
to della benedizione dei gagliardetti, poiché era mancata la par¬ 
tecipazione del prete, Scorza prese tre gagliardetti e li benedisse 
lui stesso in nome dei martiri fascisti: 

I nostri gagliardetti - disse nella sua orazione - li abbiamo benedetti 
noi perché quando andavamo a farci scannare non chiedevamo mai una 
benedizione, non perché volessimo compiere qualcosa di irreligioso. 
Dopo che abbiamo ridato la dignità ai sacerdoti, dopo aver messo il 
crocifisso nelle scuole laddove era stato scacciato, abbiamo il diritto di 
infischiarci della benedizione di quel Dio che tutti abbiamo nel cuore. 
Alla nostra benedizione si unisce quella di tutte le mamme, di tutte le 
spose, di tutti gli orfani della doppia guerra: la benedizione di tanto 
sangue versato che se si potessero versare tutte le pile di acqua santa 
non potremmo avere un lavacro più santo. Le bandiere potranno sven¬ 
tolare al sole sicure di essere non meno nobili delle altre. Quando di 
fronte a tutte le fiamme nere dei Balilla e degli Avanguardisti si trove¬ 
ranno gli stracci bianchi dei circoli cattolici dei quali non è noto il pro¬ 
gramma non certo le nostre lance si piegheranno. 

E concluse ricordando i caduti: «Valdottavo deve divenire un 
Altare Fascista [...] Due morti e quattro feriti hanno santificato 
Valdottavo, voi gente dovete esserne degne»'^"'. 

Le insegne del partito conservarono nel regime questa fun¬ 
zione simbolica sacralizzante, ad ogni livello dell’organizzazione, 
con il crisma di un culto ufficiale istituzionalizzato aU’interno del 
partito ma reso obbligatorio per tutti gli italiani'^^. Norme parti- 

Cfr. «Il Telegrafo», 21 maggio 1928, in ACS, SPD, CR, b. 88, fase. «Car¬ 
lo Scorza». 

” Si veda quanto prescriveva il segretario del PNF nel 1926: «‘Giù il cappel¬ 
lo’. È una consuetudine dei fascisti più che legittima quella di esigere dai passan¬ 
ti durante le nostre sfilate, il saluto ai gagliardetti che sono il simbolo vivo della 
nostra passione nutrita di sacrificio e della nostra fede nuova italiana e fascista. 

II Segretario Generale del Partito, allo scopo di precisare su questo punto 
alcune norme, stabilisce che d’ora innanzi i simboli per i quali si deve esigere 
l’atto di omaggio, siano esclusivamente; i labari delle Legioni ed i gagliardetti 
dei Fasci, segnacoli i primi delle nostre forze armate rivoluzionarie; testimoni 
i secondi del martirio dei nostri indimenticabili Caduti. 

Il Partito dichiara che non si deve esigere il saluto per ognuna delle mille 
e mille fiamme di squadre, di gruppi Balilla, Avanguardisti, Sportivi e Piccole 
italiane». PNF, «Foglio d’ordini», n. 14, 12 novembre V (1926). 


III. L’«arcangelo mondano> 


119 


colarmente severe vennero emanate per l’uso del fascio littorio, 
dei distintivi e della «camicia nera», al fine di proteggerne la «sa¬ 
cralità» come simboli della fede fascista. Il gagliardetto, stabiliva 
lo statuto del 1929, era «il simbolo della fede». Ai gagliardetti dei 
Fasci spettava nelle cerimonie ufficiali una scorta d’onore della 
MVSN comandata da un ufficiale; al gagliardetto del Direttorio 
nazionale e delle Federazioni provinciali erano dovuti anche gli 
onori militarF^. Alto significato simbolico veniva attribuito al la¬ 
baro della Segreteria generale e al labaro del duce, cui erano tri¬ 
butati onori speciali durante le «uscite» per le grandi adunate di 
massa o per le riunioni dei gerarchi del PNF. Con la devozione 
particolare dovuta ad una santa reliquia era custodito anche il 
primo gaghardetto, quello del Fascio di Milano, Nel 1932, per la 
ricorrenza del 23 marzo, si svolse nella «sacra e storica» piazza 
S. Sepolcro, una cerimonia per la sostituzione del vecchio vessil¬ 
lo con una nuova insegna. L’oratore, ripiegando «il drappo glo¬ 
rioso» invocò i «nostri Caduti» che «qui convenuti a ricerverne 
la simbolica consegna, lo sollevano lassù, ove, come la luce vivi¬ 
da del loro sacrificio, risplenderà per sempre, ad alimentare eter¬ 
namente la nostra fede». Quando la nuova insegna venne sciolta 
al vento, la folla salutò «il vecchio gagliardetto mentre la pattu¬ 
glia eroica lo trasporta iti alto, insegna eterna del suo olocausto 
e della nostra fede»^^. 

L’intensificazione del ruolo sacerdotale del PNF nel culto del 
littorio, specialmente durante la segreteria di Starace, accompa¬ 
gnò la silenziosa strategia del partito per espandere il suo potere 
all’interno dello Stato. Nel 1932 Starace volle rendere, per così 
dire, più risonante la presenza simbolica del partito, come cen¬ 
tro spirituale del regime, decretando che ogni Casa del Fascio 
doveva avere una «torre littoria» munita di campane, da suona¬ 
re in occasione dei riti del regime. Ancora una volta, all’origine 
di una iniziativa rituale del partito, si trova il pungolo dell’emu¬ 
lazione della tradizione cattolica. Col suono delle campane, stru¬ 
mento «ad un tempo mistico e popolare», spiegò l’organo dei Fa- 

Statuto del PNF del 1929, art. 2. Nei successivi statuti del 1932 e del 
1938 il culto reso ai gagliardetti e ai labari del PNF divenne più articolato e 
solenne. 

«Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1932. 





120 


Il culto del littorio 


sci giovanili, il fascismo evocava una plurisecolare tradizione re¬ 
ligiosa e civile, rendendo più espressivo «il suo originario e più 
che mai vivo carattere di religione. Religione politica, risultato di 
una virile, romana educazione dello spirito, che non può non in¬ 
tegrarsi mirabilmente con la rehgione del ‘divino’»^®. Anche in 
questo modo, il partito rivendicava la sua funzione di custode 
dell’idea e propagatore della fede fascista. 


Il fascio e la croce 

Nelle pagine di dottrina fascista, in cui affermava la totalità 
spirituale dello Stato, Mussolini aveva aggiunto che lo Stato fa¬ 
scista non pretendeva affatto di mettere sugli altari un suo nuo¬ 
vo dio, come aveva fatto Robespierre, ma riconosceva «il Dio de¬ 
gli asceti, dei santi, degli eroi e anche il Dio così com’è visto e 
pregato dal cuore genuino e primitivo del popolo». Lo Stato fa¬ 
scista, aggiungeva Mussolini, non aveva una teologia, ma aveva 
una morale. Tuttavia, per il fatto stesso di rivendicare allo Stato 
la sua propria morale, il fascismo si arrogava in realtà la funzio¬ 
ne propria della religione, la prerogativa di definire il significato 
e il fine ultimo dell’esistenza per milioni di uomini e donne, se¬ 
condo la propria concezione totalitaria della politica, che pone¬ 
va lo Stato come valore supremo e assoluto. Nello Stato fascista, 
spiegava un giurista, «è il principio etico che determina la sua re¬ 
ligiosità e non la religione che determina la sua impronta etica»^^. 
Gentile ricordava che lo Stato controllava la religione «sempre e 
soltanto per i suoi fini e per questo rispetto la governa, per mo¬ 
do che lo Stato può, in un dato momento, contraddire alla reh¬ 
gione, specialmente per quel che riguarda l’ideale della pace e la 
necessità della guerra»^®. 

Il fascismo, in effetti, non si limitò affatto a venerare il Dio 
della tradizione, patrimonio della «religione dei padri», ma in¬ 
tervenne nella dimensione religiosa, come abbiamo visto, co- 

C. De Leva, La Torre littoria, in «Gioventù fascista», 30 dicembre 1932. 

G. Bortolotto, Lo Stato e la dottrina corporativa, Bologna 1930, p. 39. 

G. Gentile, Fuori dell’equivoco, in «Corriere della Sera», 4 settembre 
1929, cit. ivi, p. 40. 


III. L’«arcangelo mondano> 


121 


struendo un proprio universo di miti, di riti e di simboli incen¬ 
trato sulla sacralizzazione dello Stato. E, per questo, rivaleggiò 
con la Chiesa cattolica per il controllo e la formazione delle co¬ 
scienze, anche se, reso cauto dall’esperienza fallimentare di altri 
esperimenti di religioni laiche antagoniste della religione tradi¬ 
zionale, evitò di avventurarsi in una guerra di religione con il 
cattolicismo. Verso la Chiesa l’atteggiamento del fascismo fu 
ispirato più dal realismo politico che dal fanatismo ideologico, 
mettendo in atto quella che potremmo chiamare una strategia 
sincretica di convivenza, mirante ad associare il cattolicismo nel 
proprio progetto totalitario. Mussolini, come osservò Armando 
Carlini, della religione comprendeva «soltanto il lato umano e 
storico» perché egli era «un laico, un purissimo laico», e rima¬ 
neva sempre «il seguace di Nietzsche»: di conseguenza «la mo¬ 
rale del Fascismo da lui fondato è tutta un’esaltazione di prin¬ 
cipi fondamentalmente pagani»^b Mussolini aveva anche una 
grande considerazione per il valore e la potenza della religione 
nella vita collettiva, in quanto fede e tradizione mitico-simboli- 
ca che hanno forti radici nella coscienza delle masse. Perciò era 
convinto che il fascismo, pur rivendicando il primato della po¬ 
litica e l’eticità dello Stato fascista (che «è Cattolico, ma è Fa¬ 
scista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente Fasci- 
sta»^^), doveva evitare una guerra di religione perché su questo 
campo la sconfitta sarebbe stata altamente probabile. In un rap¬ 
porto segreto ai dirigenti federali, tenuto all’inizio del 1930 e ri¬ 
masto inedito^^. Mussolini diede direttive chiare in proposito; 

Non bisogna imbottigliarsi nell’antireligiosità per non dare moti¬ 
vo ai cattolici di turbarsi. Bisogna invece intensificare l’azione educa¬ 
tiva, sportiva, culturale. Finché i preti fanno tridui, processioni ecc., 
non si può fare nulla: in una lotta su questo terreno fra religione e 
Stato perderebbe lo Stato. Un’altra cosa è però l’Azione cattolica e lì 
è nostro dovere fronteggiare; quindi nel campo religioso il massimo 
rispetto, come del resto ha sempre fatto il Fascismo; l’azione di ac- 


A. Carlini, Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, Roma 1934, p. 9. 
Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XXIV, p. 89 (discorso alla Camera del 
13 maggio 1929). 

ACS, MRF, b. 52, fase. «Venezia Euganea», sottofasc. «Vicenza»; fase. 
«Lombardia», sottofasc. «Milano». 




122 


Il culto del littorio 


caparramento degli individui fronteggiarla con altri mezzi adatti, non 
però esagerando i pericoli e non deprimendoci noi stessi rappresen¬ 
tandoceli troppo gravi. Guerra santa in Italia, mai; i preti non porte¬ 
ranno mai i contadini contro lo Stato [...] in linea di massima, con¬ 
sentire, e mostrarsi deferenti anche, per tutto ciò che riguarda mani¬ 
festazioni religiose processioni ecc. tutto ciò che riguarda la salvezza 
delle anime; nel Protestantesimo ognuno si salva da sé; ma noi siamo 
cattolici e li lasciamo fare. Li combattiamo invece senz’altro non ap¬ 
pena tentano di sconfinare nel campo politico, sociale, sportivo. 

Attenendosi a questa realistica linea di orientamento, quattro 
anni dopo il duce ribadì la sua convinzione sulla questione dei 
rapporti fra Stato e religione, lasciandosi andare anche, per me¬ 
glio chiarire il suo pensiero, ad una allusione ironica sulle cor¬ 
renti di religiosità neopagana che proliferavano nella Germania 
nazista. Il nazismo non godeva allora le simpatie del duce. Per 
fare le sue dichiarazioni. Mussolini scelse una tribuna straniera: 

Nel concetto fascista di Stato totalitario, la religione è assoluta- 
mente libera e, nel suo ambito, indipendente. Non ci è mai passato 
per l’anticamera del cervello la bislacca idea di fondare una nuova re¬ 
ligione di Stato o di asservire allo Stato la religione professata dalla 
totalità degli italiani. Il compito dello Stato non consiste nel tentare 
di creare nuovi vangeli o altri dogmi, di rovesciare le vecchie divinità 
per sostituirle con altre, che si chiamano sangue, razza, nordismo e 
simili. Lo Stato fascista non trova che sia suo dovere intervenire nel¬ 
la materia religiosa, e se ciò accade è solo nel caso in cui il fatto reli¬ 
gioso tocchi l’ordine politico e morale dello Stato [...] Uno Stato che 
non voglia seminare il turbamento spirituale e creare la divisione fra 
i suoi cittadini, deve guardarsi da ogni intervento in materia stretta- 
mente religiosa.*"* 

Si è tuttavia legittimati, dopo quanto abbiamo visto in meri¬ 
to alle dichiarazioni sulla religione fascista e la sacralità dello Sta¬ 
to, ad avanzare riserve sulle affermazioni mussoliniane. Al di là 
della volontà di evitare guerre di religione per meditate e reali¬ 
stiche valutazioni dei rischi che tale eventualità comportava, tali 


Mussolini, Stato e Chiesa, in «Le Figaro», 18 dicembre 1934, riportato 
in Id., Opera Omnia, cit., voi. XXVI, pp. 399-401. 


Ul. L’«arcangelo mondano> 


123 


affermazioni apparivano chiaramente troppo reticenti, se non 
semplicemente ipocrite, se confrontate con altre e più impegna¬ 
tive asserzioni mussoliniane in merito alla religione fascista. Cer¬ 
to, l’interesse del fascismo per la religione cattolica era esclusi¬ 
vamente politico, non teologico, nel senso almeno che non sfio¬ 
rava nessuno dei fascisti la tentazione di interferire nelle questioni 
dottrinali cattoliche e tanto meno la pretesa di avanzare una pro¬ 
pria interpretazione della teologia cattolica con intenti più o me¬ 
no riformatori. I riconoscimenti privilegiati alla Chiesa con gli ac¬ 
cordi del Laterano, come pure la volontà di non aprire contese 
religiose, erano dettati dal proposito di utilizzare la religione tra¬ 
dizionale come instrumentum regni. Ma non per questo il fasci¬ 
smo desistette dal ripetere enfaticamente, in ogni circostanza e 
in ogni sede, di essere movimento religioso, di avere una conce¬ 
zione religiosa della politica, che postulava l’assoluto dello Stato 
di fronte al relativo degli individui, né cessò mai di rivendicare, 
in relazione a questa religiosità dello Stato, il diritto indiscutibi¬ 
le di definire la morale del cittadino e il fine ultimo della sua esi¬ 
stenza. 

Alle dichiarazioni di principio corrispose in modo del tutto 
coerente l’enorme dispiego di energie e di impegno che il regi¬ 
me profuse per intensificare la conquista totalitaria delle co¬ 
scienze, dando maggior impulso alla continua elaborazione del¬ 
le proprie forme di culto e di religiosità laica, intervenendo quo¬ 
tidianamente, con meticolosità quasi ossessiva, in materia di com¬ 
portamento, di costume, di morale civile, di stile, per accelerare 
il processo di trasformazione del carattere nazionale attraverso 
l’azione pedagogica dello Stato, onnipresente e dominante in 
ogni momento della vita del cittadino. Per tutto il periodo del re¬ 
gime, soprattutto nei momenti di particolare tensione, il fasci¬ 
smo, governo e partito, condusse contro la Chiesa e le associa¬ 
zioni cattoliche una serrata «guerra dei simboli», vietando ai cat- 
tohci l’uso di bandiere, stendardi o insegne con i colori della ban¬ 
diera pontificia, o rivaleggiò con i simboli della Chiesa come nel 
caso della diffusione della campana civica sulla «torre littoria» 
delle Case del Fascio. Il regime, insomma, non rinunciava a pro¬ 
pagandare la «sua» religione. E ciò lasciava inevitabilmente aper¬ 
ta la via a potenziah conflitti fra Stato totahtario e Chiesa. Risulta 
particolarmente impegnativo quanto veniva dichiarato in propo- 




124 


Il culto del littorio 


sito dal Dizionario di politica del PNF. La Chiesa, scriveva uno 
dei principali curatori del dizionario, «operando sulle coscienze 
per tradurre in esse il proprio patrimonio ideale come conti¬ 
nuità» viene «inevitabilmente [...] ad incontrarsi con l’azione del¬ 
lo Stato, che, quando abbia un contenuto morale da tradurre in 
atto, deve esso pure agire profondamente sulle coscienze. Il dis¬ 
sidio, dunque, fra la Chiesa e lo Stato, quando questo sia anima¬ 
to da una propria volontà morale, è nella realtà stessa delle co¬ 
se». E tale dissidio può esser risolto o con compromessi che ri¬ 
conoscano i valori reciproci e le specifiche sfere di azione o con 
una convergenza, quando entrambi «siano espressione diversa di 
un’identica coscienza umana storicamente determinata, quale si 
manifesta su due piani diversi». In questo caso «la religione as¬ 
sume nel quadro della politica e dello Stato come forma concre¬ 
ta di questa», un valore come «un mezzo di elevamento spirituale 
delle masse» ed «elemento essenziale della nazione», per le for¬ 
me storiche in cui si è determinata: «le forme concrete della re¬ 
ligione, l’organizzazione della Chiesa, i riti, l’etica dell’azione ter¬ 
rena, riflettono la storia del popolo in cui si sono create»*^. 

Per la sua natura totalitaria, affermando il primato della poli¬ 
tica come una esperienza di vita integrale, il fascismo era spinto 
a confondere i confini fra dimensione politica e dimensione reli¬ 
giosa. Esso poneva così un grave dilemma al connubio tra fasci¬ 
smo e cattolicismo, per l’inevitabile ambiguità insita nel rappor¬ 
to fra due fedeltà, che investivano, ciascuna nella sua dimensio¬ 
ne, il significato e il fine ultimo dell’esistenza. Per esempio, non 
tutti i fascisti erano propensi ad interpretare in senso radicale il 
principio totalitario della sacralizzazione dello Stato, al punto da 
renderlo incompatibile con la fede cattolica. Alcuni, pur con¬ 
sentendo a considerare il fascismo una religione politica e civile, 
ribadivano il primato della religione cattolica. Altri, invece, eb¬ 
bero verso questo problema atteggiamenti contraddittori, elusi¬ 
vi, ambigui, e cercarono di conciliare la loro sincera fede nel fa¬ 
scismo come religione politica con la personale devozione al cat¬ 
tolicismo. Questi ultimi pensavano, forse, di risolvere il dilemma 
insistendo sulla necessità di un’unione simbiotica tra fascismo e 

A. Pagliaro, Chiesa, in PNF, Dizionario dipolitica, cit., voi. IV, pp. 39-40. 


IH. L’«arcangelo mondano^ 


125 


cattolicismo, considerati entrambi religioni, a loro modo, totali¬ 
tarie e italiane, vagheggiando un congiungimento delle loro for¬ 
ze per perseguire il comune obiettivo dell’affermazione di una 
«nuova civiltà» che avesse centro nella città sacra alla antica «re¬ 
ligione dei padri» e al moderno culto del littorio. Tipica in que¬ 
sto senso la posizione di Bottai. Superato un giovanile anticleri¬ 
calismo mazziniano, aveva riscoperto fin dal 1922 che «il sostra¬ 
to spirituale di nostra razza, nelle sue più alte espressioni di pen¬ 
siero e nelle sue più umili manifestazioni di vita» era «innegabil¬ 
mente cattolico», il che rendeva la Chiesa di Roma «fattore di vi¬ 
ta nazionale non trascurabile da parte di chi della vita nazionale 
voglia farsi rigeneratore», per risolvere «il problema d’una più 
elevata sistemazione di vita singola e collettiva», che la «moralità 
nuova nata dalla guerra» aveva «angosciosamente riposto» din¬ 
nanzi alle giovani generazioni italiane^^. Nello stesso senso, però, 
mirando alla rigenerazione degli italiani. Bottai sviluppò, in mo¬ 
do coerente con la sua personale visione totalitaria, una conce¬ 
zione religiosa del fascismo, «che non è solo mera azione fisica, 
è anche qualche cosa di più di una dottrina. E una religione po¬ 
litica e civile, che non esclude, anzi integra, quella ecclesiastica, 
conferendole profonda sostanza di vita, continua aderenza alla 
vita stessa, in tutto quanto questa ha di più degno e di più nobi¬ 
le. Da questo punto di vista, il fascismo è semplice, limpido, li¬ 
neare; è la religione dell’Italia»^^. 


G. Bottai, Chiesa e risorgimento, in «Il Popolo di Trieste», 27 gennaio 
1922, riportato in Id., ha politica delle arti. Scritti 1918-1943, a cura di A. Ma- 
si, Roma 1992, pp. 66-67. 

G. Bottai, Il pensiero e l’azione di Giuseppe Mazzini, discorso pronun¬ 
ciato a Genova il 4 maggio 1930, riportato in Id., Incontri, Milano 1943, p. 124. 
I complessi rapporti fra Bottai e il cattolicesimo sono stati studiati, con perizia 
e sensibilità, da R. Moro nella sua introduzione a G. Bottai-don G. De Luca, 
Carteggio 1940-1937, a cura di R. De Felice e R. Moro, Roma 1989. Ci sembra, 
tuttavia, che l’analisi di Moro, pur rilevando talune ambiguità nell’atteggia¬ 
mento di Bottai, non dia adeguato rilievo agli aspetti totalitari del suo fascismo 
anche in merito al problema della religione. Su questo aspetto, ci sia consenti¬ 
to rinviare a E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fasci¬ 
smo, Roma-Bari 1999^, pp. 211-236. Sui rapporti fra totalitarismo fascista e cat¬ 
tolicesimo, cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. IL Lo Stato totalitario 1936-1910, 
Torino 1981, pp. 129 sgg. Per quanto riguarda l’atteggiamento cattolico verso 
l’antidemocrazia fascista, cfr. P.G. Zunino, Interpretazione e memoria del fa¬ 
scismo. Gli anni del regime, Roma-Bari 1991, cap. V. 



126 


Il culto del littorio 


Sul versante del cattolicesimo, nonostante compromessi, in¬ 
tese, sintonie e convergenze, alla sensibilità delle coscienze cat¬ 
toliche più refrattarie ai corteggiamenti del fascismo e alle sedu¬ 
zioni del connubio, non sfuggiva affatto l’insidia essenziale che 
si celava nelle proposte di simbiosi fra totalitarismo laico e tota¬ 
litarismo religioso. Fin dal 1924 un focoso polemista cattolico 
aveva messo in guardia contro un «cattolicismo» inquadrato nel¬ 
la «religione fascista» e contro le «capziose suggestioni e mani¬ 
festazioni manovrate» per far credere «l’esistenza di connubi 
tra il cristianesimo universale e il paganesimo nazionalista», per¬ 
ché, in realtà, il fascismo, per «la sua anima totalitaria, egocen¬ 
trica, assorbente, non tollera forze isolate, incontrollate, fuori del 
suo geloso serraglio; vede di malumore una Chiesa, procedente 
libera per sue chiare tranquille vie protese verso l’eternità», e 
vuole che anche «la Chiesa ha da cospirare alla rinascita, all’èra, 
alle parate e alle sparate, al decoro ducesco»^^. Ed ancora qual¬ 
che anno dopo. Luigi Sturzo, costretto all’esilio dal fascismo, am¬ 
monì che la dottrina fascista era «fondamentalmente pagana è in 
contrasto col cattolicesimo. Si tratta di statolatria e di deificazio¬ 
ne della nazione», perché il fascismo «non ammette discussioni 
e limitazioni: vuole essere adorato per sé, vuole arrivare a creare 
lo Stato fascista»^^. Al vertice stesso della Chiesa restava il so- 


** I. Giordani, Motivi di religione fascista, in «Il Popolo», 10 maggio 1924, 
riportato in La terza pagina de «Il Popolo», a cura di L. Bedeschi, Roma 1973, 
pp. 207-211. Per alcuni aspetti di questa posizione del mondo cattolico, cfr. R. 
Moro, Afascisrno e antifascismo nei movimenti intellettuali di Azione Cattolica 
dopo il ’31, in «Storia contemporanea», dicembre 1975, pp. 733-799. 

L. Sturzo, Pensiero antifascista, Torino 1925, pp. 7-16. Un giornale an¬ 
tifascista di S. Paolo del Brasile, in una corrispondenza da Nizza, riferiva: «Si 
stanno facendo sforzi in Italia perché il fascismo prenda l’aspetto di una vera 
e propria religione. A tal uopo, nonostante le violente proteste del clero catto¬ 
lico e del Vaticano, un ‘Credo’ è insegnato all’infanzia ed alla gioventù fasci¬ 
sta, forzata nelle organizzazioni dei ‘Balilla’ e delle Avanguardie. Il ‘Credo Fa¬ 
scista’ è la parodia del noto credo cristiano di Nicea. Eccolo riportato inte¬ 
gralmente: ‘D: Che cosa significa essere fascista? R: Significa obbedienza cieca 
ai comandamenti, ai principii ed ai sacramenti d’Italia. D: Che cosa è il Credo 
del Fascismo? R: È il Credo dato dagli Apostoli d’Italia e del Fascismo. D: Di 
quanti articoli consiste? R: Di dodici articoli, come segue: Io credo in Roma 
eterna, madre della mia Patria - E nell’Italia sua primogenita - Che nacque dal 
suo vergine utero per la grazia di Dio - Che soffrì sotto i barbari invasori, fu 
crocefissa, morta e sepolta - Che discese nella sepoltura, risorse ancora dai mor- 


111. L’«arcangelo mondano> 


127 


spetto, mai fugato neppure nei momenti di maggior cordialità dei 
rapporti, che la rivendicazione del primato totalitario dello Sta¬ 
to e il sincretismo politico della religione fascista comportassero 
potenziali rischi per il primato religioso della Chiesa, per la sua 
autonomia e per la sua universalità. Pio XI dovette intervenire 
con una enciclica, nel 1931, per esprimere la ferma condanna 
contro la «religiosità» fascista, la formula del giuramento del par¬ 
tito, la statolatria del regime, la pretesa di monopolio dell’edu¬ 
cazione delle nuove generazioni e del dominio delle coscienze'^”. 

Muovendosi nell’ottica del connubio sincretico, la religione 
fascista evitò di porsi come antagonista diretta della religione cat¬ 
tolica - salvo che nelle posizioni estreme dei fascisti più anticle¬ 
ricali o nei fautori di una religiosità che si richiamava ad un tra- 


ti nel secolo decimonono - Che salì in gloria in Cielo nel 1918 e nel 1922 - 
Che siede alla destra di Roma madre - Che di là verrà a giudicare i cattivi e i 
morti - Io credo nel genio di Mussolini - Nel nostro Santo Padre il Fascismo 
e nella comunione dei martiri - Nella conversione degli Italiani e - Nella re¬ 
surrezione dell’Impero - Amen’. 

Le date, come sarà intuito, del 1918 e 1922 sono rispettivamente quella del¬ 
la fondazione dei fasci e della marcia su Roma» («La Difesa», San Paolo, 27 
febbraio 1927). 

Non abbiamo bisogno (20 giugno 1931), in Tutte le encicliche dei sommi 
pontefici, a cura di E. Momigliano, Milano 1959: «Abbiamo infatti vista in azio¬ 
ne una religiosità che si ribella alle disposizioni della superiore Autorità reli¬ 
giosa e ne impone o ne incoraggia la inosservanza: una religiosità che diventa 
persecuzione e tentata distruzione di quello che il Supremo Capo della Reli¬ 
gione notoriamente più apprezza ed ha a cuore; una religiosità che trascende 
e lascia trascendere ad insulti di parola e di fatto contro la Persona del Padre 
di tutti i fedeli fino a gridarlo abbasso ed a morte: veri imparaticci di parrici¬ 
dio. Simigliante religiosità non può in nessun modo conciliarsi con la dottrina 
e con la pratica cattolica, ma è piuttosto quanto può pensarsi di più contrario 
all’una e all’altra. 

La contrarietà è più grave in se stessa e più esiziale nei suoi effetti, quan¬ 
do non è soltanto quella di fatti esteriormente perpetrati e consumati, ma an¬ 
che quella di principii e di massime proclamate come programmatiche e fon¬ 
damentali. 

Una concezione dello Stato che gli fa appartenere le giovani generazioni 
interamente e senza eccezione dalla prima età fino all’età adulta, non è conci¬ 
liabile per un cattolico con la dottrina cattolica, e neanche è conciliabile col di¬ 
ritto naturale della famiglia. Non è per un cattolico conciliabile con la dottri¬ 
na cattolica pretendere che la Chiesa, il Papa, devono limitarsi alle pratiche 
esterne di Religione (Messa e Sacramenti) e che il resto della educazione ap¬ 
partiene allo Stato» (pp. 971-972). Cfr. P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo, 
Roma-Bari 1976, pp. 255 sgg. 



128 


Il culto del littorio 


clizionalismo pagano, come Julius Evola^^ - perché valutava tut¬ 
ti i rischi che un simile atteggiamento avrebbe comportato per la 
stabilità del regime, ma tentò di integrarla nel proprio universo 
mitico. Il cattolicismo poteva essere sincreticamente innestato 
nella religione fascista come «religione dei padri», in quanto, 
cioè, creazione e componente della tradizione della «stirpe ita¬ 
liana», e non in quanto universale «religione dell’uomo» rivelata 
da Dio. Per Mussolini, il cattolicesimo, nato come setta orienta¬ 
le, aveva acquistato universalità soltanto trapiantandosi a Roma 
e ponendo le basi per il suo sviluppo sulla tradizione imperiale. 
A Roma si era «realizzato uno dei miracoli religiosi della storia, 
per cui una idea che avrebbe dovuto distruggere la grande forza 
di Roma è stata da Roma assimilata e convertita in dottrina del¬ 
la sua grandezza»^^. Forse il duce si augurava di veder compie¬ 
re, dalla Roma fascista, lo stesso tipo di miracolo. La Chiesa non 
era venerata dal fascismo in quanto depositaria di una verità di¬ 
vina rivelata, ma era riconosciuta e rispettata come una ierofania 
della romanità, creazione della stirpe italiana e patrimonio es¬ 
senziale della sua tradizione. 

Una particolare interpretazione della romanità del cattolice¬ 
simo, in questo senso, fu proposta da Giovanni Gentile in un ar¬ 
ticolo intitolato Roma eterna?^ scritto in forma quasi oracolare, 
ma molto significativo, secondo noi, per capire il posto che, nel¬ 
la religione dello Stato, il fascismo intendeva assegnare al catto¬ 
licesimo, per trarre da questo sostegno e conferma nell’aspira¬ 
zione a conquistare, come religione, un frammento di eternità 
nella storia umana. Universalità e eternità erano i caratteri della 
romanità, spiegava Gentile. La «prima Roma eterna» era la Ro¬ 
ma imperiale «creatrice dello Stato [...] che comincia ad essere 
lo Stato, come il Tutto degli uomini, fuori del quale l’uomo nul¬ 
la trova che abbia valore». A «questa Roma dello Stato s’appog- 

Su Evola, si vedano in particolare gli studi di M. Rossi, L’interventismo 
politico-culturale delle riviste tradizionaliste negli anni venti: Atanòr (1924) e 
Ignis (1925), in «Storia contemporanea», n. 3, 1987, pp. 457-504; L’avanguar¬ 
dia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola, dal primo dopoguerra 
alla metà degli anni trenta, ivi, n. 6, 1991, pp. 1039-1090. 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XVII, p. 292 (discorso pronunciato 
alla Camera dei deputati il 1“ dicembre 1921). 

G. Gentile, Roma eterna, in «Civiltà», 21 giugno 1940. 


III. L’«arcangelo mondano» 


129 


giò e ne trasse vigore e forma una nuova Roma», quella del cri¬ 
stianesimo, che però portò alla svalutazione dello Stato e alla sua 
subordinazione alla Chiesa, facendo del Vescovo di Roma il nuo¬ 
vo Cesare e creando un «nuovo impero: che è politico ma è an¬ 
che e soprattutto religioso» e «crea pertanto una religione poli¬ 
tica nell’atto stesso che innalza i rapporti politici al livello della 
religiosità». Per questo la «nuova Roma» è «la stessa Roma im¬ 
periale, spiritualizzata e innalzata all’altezza della forma religio¬ 
sa», confermando la sua «effettiva eternità», anche se la Roma 
politica decade e si disgrega, perché la civiltà romana continua¬ 
va a parlare alle genti del mondo, diffondendo nel mondo lo spi¬ 
rito della romanità. Il risorgimento politico dell’Italia si trovò di 
fronte alla necessità di abbattere la Roma papale per creare la 
nuova Roma dell’Italia unita, ma sentì nello stesso tempo l’an¬ 
goscia di perdere in tal modo il senso di universalità di Roma, ri¬ 
dotta «a semplice sede del Governo di uno Stato particolare», e 
perdendo così l’autorità di parlare «e farsi ascoltare da tutti i po¬ 
poli civili». La «terza Roma cercava il suo verbo per salvare Ro¬ 
ma eterna, e salvare se stessa». Solo con il fascismo questa ricer¬ 
ca fu esaudita, perché, affermava Gentile, «Mussolini ha sentito 
la grandezza del passato immanente ed eterno dell’Italia romana 
e cristiana», facendo risorgere e ricongiungendo il culto della 
«Roma dello Stato» con il culto della «Roma della Chiesa» con¬ 
ferendo agli italiani una missione universale. 

Con questa visione del rapporto fra romanità, cattolicesimo e 
fascismo. Gentile indicava al fascismo la via per conquistare, co¬ 
me religione dello Stato, eternità e universalità, proponendogli di 
fondere in sé la «Roma dello Stato» con la «Roma della Chiesa», 
per trarre da questa sintesi le fondamenta di una nuova civiltà 
universale, considerando il cattolicesimo parte costitutiva e inse¬ 
parabile dell’identità italiana, nel comune richiamo alla romanità. 


1 romani della modernità 

L’ideale fascista di religione politica si richiamava, in realtà, al 
modello della religione della «Città antica», alla religione roma¬ 
na soprattutto, che sacralizzava l’ordine politico nel culto dello 
Stato, consentendo la pratica di altri culti solo a patto che questi 



130 


Il culto del littorio 


non fossero in contrasto con la religione dello Stato. Il mito del¬ 
la romanità, prima ancora di essere esaltato dal fascismo per dar 
lustro alle sue conquiste coloniali, si era introdotto nella cultura 
fascista principalmente per legittimare le sue aspirazioni totalita¬ 
rie a istituire una nuova religione dello Stato^"*. Un dotto roma¬ 
nista, e principale cultore e propagandista del mito della roma¬ 
nità nel fascismo, spiegava che l’essenza dello Stato romano era 
«una concezione etico-religiosa in cui sono state innalzate a sim¬ 
boli di fede le ragioni essenziali dell’esistenza e della forza dello 
Stato»*^^. La civiltà romana aveva fondato la sua grandezza «sul¬ 
la viva consapevolezza dell’esistenza di un ordine al quale deve 
sottomettersi ogni momento dell’esistenza ordine in cui la 
preminenza è riservata ai valori politici, nel senso che qualunque 
siano gli aspetti della vita e della storia, non esclusi quelli della 
religione e dell’etica, il momento dominante il fine essenzia¬ 
le è quello della loro organizzazione in vista di un interesse e di 
una elevazione comune. Precetti religiosi, norme etiche, principi 
giuridici non sono che lo sviluppo di questo motivo politico, ori¬ 
ginario e fondamentale»^^. Il fascismo voleva far rivivere «lo spi¬ 
rito della potenza creatrice di Roma che nella famiglia, nella reli¬ 
gione, nell’educazione militare, nelle leggi seppe infondere un sa¬ 
cro rispetto al principio della subordinazione del singolo alla col¬ 
lettività»^^, per ricreare nello Stato totalitario queIl’«intimo nes¬ 
so spirituale fra famiglia e stato, fra stato e religione, in perfetto 
equilibrio», che aveva dato «alla coscienza romana un fondo di 
virtù, di consapevolezza, di disciplina, segreto di grandezza»^^. 

Il mito di Roma fu, insieme col mito del duce, la credenza mi¬ 
tologica più pervasiva di tutto l’universo simbolico fascista^^. 
Quando celebrò il «Natale di Roma» come festa del fascismo. 
Mussolini esaltò la romanità come mito che doveva animare il fa¬ 
scismo: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è 

Cfr. Gentile, Il mito dello Stato nuovo cit., pp. 2òl-2(>%. 

P. De Francisci, Civiltà romana, Roma 1939, p. 48. 

Id., Roma, in PNF, Dizionario di politica, cit., voi. IV, p. 134. 

F. Ciarlantini, Il Fascismo e la Romanità, in «Augustea», 21 aprile 1938. 

E. Ciaceri, Paganesimo, in Dizionario di politica, cit., p. 340. 

SuUe diverse interpretazioni storiografiche del mito della romanità nel 
fascismo, cfr. R. Vesser, Fascisi Doctrine and thè Cult of thè Romanità, in «Jour¬ 
nal of Contemporary History», n. 1, 1992, pp. 5-21. 


111. L’«arcangelo mondano> 


131 


il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito»^°°. Il culto fasci¬ 
sta per la romanità non era condizionato dall’amore e dal rispet¬ 
to archeologico per una originale identità del passato da recupe¬ 
rare e da restaurare. La stessa passione fascista per l’archeologia 
non era animata dalla scienza né rispettava sempre le esigenze 
della scienza, non arrestandosi infatti neppure di fronte a distru¬ 
zioni ed arbitrarie restaurazioni e innovazioni, come nel caso del¬ 
la costruzione del piazzale Augusto imperatore^°h pur di «crea¬ 
re la monumentale Roma del ventesimo secolo»Il fascismo 
praticò una archeologia simbolica, una ricerca attualizzante delle 
vestigia della romanità, ispirata al richiamo mitico del «centro sa¬ 
cro», per entrare in comunione con la «potenza magica» della ro¬ 
manità, al fine di creare, anche arbitrariamente, uno scenario ur¬ 
banistico e monumentale tale da visualizzare la simbiosi fra ro¬ 
manità e fascismo-entro nuovi «spazi sacri», misto di antico e mo¬ 
derno, per celebrare il culto del littorio nella città eterna, pre¬ 
sentando il fascismo erede e culmine della tradizione romana. 

Un esempio importante del culto fascista della romanità, usa¬ 
ta a beneficio del culto del littorio, fu la mostra realizzata nel 1937 
nel quadro delle celebrazioni per il bimillenario di Augusto, inau¬ 
gurata da Mussolini il 23 settembre, in coincidenza con la ria¬ 
pertura della mostra dedicata alla rivoluzione fascistacome a 
voler sottolineare la simbiosi fra romanità e fascismo. L’intento 
politico della mostra augustea, al di là dell’accurata organizza¬ 
zione scientifica, era la celebrazione dell’eternità e della univer¬ 
salità di Roma «che sotto la guida del duce [...] ha ripreso la sua 
fatale missione» di civiltà nel mondo moderno^®"': «in tutta la mo¬ 
stra - disse il professor Giulio Quirino Giglioli, ideatore e orga¬ 
nizzatore, il giorno dell’apertura rivolgendosi a Mussolini - l’o¬ 
pera Vostra di civis romanus è presente e animatrice: non solo in 


100 Mussolini, Passato e avvenire, in «Il Popolo d’Italia», 21 aprile 1922. 

Cfr. S. Kostof, The Emperor and thè Duce: thè Planning of Piazzale Au¬ 
gusto Imperatore in Roma, in H.A. Millon, L. Nochlin (a cura di). Art and Ar- 
chitecture in thè Service ofPolitics, Cambridge (Mass.) 1980, pp. 270-325. 

Mussolini, Opera Omnia cit., voi. XX, p. 335 (discorso in Campidoglio 
del 21 aprile 1924 per il conferimento della cittadinanza onoraria romana a 
Mussolini). 

Infra, pp. 189 sgg. 

La Mostra Augustea della Romanità, Roma 1937. 



132 


Il culto del littorio 


Vostri detti, ma nello spontaneo inevitabile riawicinamento di 
tante Vostre azioni a quelle dei più grandi Romani di duemila e 
più anni fa», e soprattutto a Cesare e ad Augusto, simbolicamente 
ricongiunti nella figura mussoliniana^®^. I visitatori - circa un mi¬ 
lione fino al giorno della chiusura, il 7 novembre 1938 - compi¬ 
vano «un viaggio attraverso la storia della civiltà di Roma»^“^, il¬ 
lustrata da un’imponente esibizione documentaria - plastici, fo¬ 
tografie, riproduzioni di monumenti e statue, modelli, disegni, 
copie di pitture, sculture e mosaici - accompagnati da iscrizioni 
di autori latini alternate con iscrizioni mussoliniane, proseguen¬ 
do poi con l’illustrazione della sua eredità nel cristianesimo e nel 
medioevo per culminare, a conclusione della visita, nel fasci- 
smo^®"^. 

Il fascismo, in tal modo, per dirla con Bottai, operava una tra¬ 
svalutazione della romanità «nel nostro mondo e nel nostro tem¬ 
po», rendendola idea viva ed operante «nel tempo, secondo il no¬ 
stro tempo, col nostro tempo» e non «idea cristallizzata in que¬ 
sta o in quella forma tradizionale, ma viva e continua [...] ade¬ 
rente alla nostra coscienza attuale della storia e della politica»: 
«Il ritorno a Roma, provocato dalla Rivoluzione delle Camicie 
Nere è [...] un rinnovarsi dell’idea di Roma nella coscienza del¬ 
l’italiano moderno; non una restaurazione, ma una rinnovazione, 
una rivoluzione dell’idea di Roma» imprimendo «al nome eter¬ 
no di Roma il sigillo ‘fascista’; perché ne accettiamo l’idea rifa¬ 
cendola nostra, conferendole nuova originalità nel mondo mo- 
derno»^^^. 

Il fascismo si considerava una ripresa della romanità nel XX 
secolo, ed aspirava a conquistare, come la «Roma dello Stato» e 
la «Roma della Chiesa», un suo frammento di eternità lasciando 
nella storia le vestigia della Roma di Mussolini. La mitologia fa- 


Il testo del discorso inaugurale, approvato da Mussolini, è in ACS, PCM, 
Gabinetto, 1937-1939, fase. 14.1 n. 918/1. 

La Mostra Augustea cit. 

Cfr. L. Quilici, Romanità e civiltà romana, in Dalla mostra al museo. Ro¬ 
ma capitale 1870-1911, Venezia 1983, pp. 17-24, e A.M. Liberati Silverio, La 
Mostra Augustea delle Romanità, ivi, pp. 77-90. Sulla frequenza e sul tipo dei 
visitatori, si veda la relazione al Capo del governo in ACS, PCM, Gabinetto, 
1937-1939, fase. 14.1 n. 918/7. 

G. Bottai, Roma e fascismo, in «Roma», ottobre 1937. 



Fig. 8. Publio Morbiducci, La storia di Roma attraverso le opere edi¬ 
lizie, bozzetto (Roma, Collezione A.M. Morbiducci). 








134 


Il culto del littorio 


scista evocava Teternità di Roma a garanzia spirituale per l’Italia 
fascista, collocando la romanità all’inizio della sua rappresenta¬ 
zione mitica della storia italiana, dove la breve storia del fascismo 
appariva come una nuova ierofania della romanità, avvenuta do¬ 
po i secoli della «eclissi della nostra stirpe che si squarcia nel 
1915»^°^, in una visione ciclica millenaristica delle stagioni della 
civiltà italiana, proveniente da un mitico passato di grandezza e 
di potenza per proiettarsi, con il fascismo, verso un nuovo futu¬ 
ro di grandezza e di potenza. Nella religione fascista, il mito di 
Roma assunse la funzione dell’archetipo paradigmatico, rappre¬ 
sentava il tempo della stirpe italiana, continuamente rie¬ 

vocato e rinnovato attraverso miti, simboli e riti per attingervi il 
modello pedagogico per la formazione dell’«italiano nuovo»: 
«tutta la pratica delle virtù latine mi sta dinanzi - dichiarava Mus¬ 
solini Esse rappresentano un patrimonio ch’io cerco d’utiliz¬ 
zare. Il materiale è lo stesso. E là, fuori, è sempre ancora Ro- 
ma»“b 

Il culto della romanità nasceva dal «mistero della continuità 
di Roma»"^. «Il suolo storico sul quale si agisce - asseriva Mus¬ 
solini riferendosi al fascino che su di lui esercitava Roma - ha una 
potenza magica»^^. Le vestigia monumentali conferivano anco¬ 
ra un’aura di sacralità al luogo prediletto dal destino, dove per 
la prima volta si era manifestato il miracolo della grandezza del¬ 
lo «spirito latino», dove si era nuovamente verificato, con il cat¬ 
tolicesimo, il miracolo di una nuova ierofania della romanità, e 
dove ancora, con il fascismo, si compiva il terzo miracolo della 
«resurrezione della nostra razza»^^'^. Roma era «centro d’ispira¬ 
zione, fondamento di costruzioni, suggestione senza intermitten¬ 
ze, simbolo creante realtà e realtà assurgente a simbolo, com- 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XIX, p. 94 (discorso alle medaglie 
d’oro, 8 gennaio 1923). 

““ Sul significato del «tempo mitico» abbiamo presente soprattutto M. 
Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. di V. Vacca, Torino 1986, pp. 
399 sgg. 

‘"E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, pp. 192-193. 

Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XX, p. 234 (discorso pronunciato il 
21 aprile 1924 in Campidoglio per il conferimento della cittadinanza di Roma). 

Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 106. 

' Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XX, p. 65 (discorso pronunciato il 28 
ottobre 1923 a Milano). 


III. L’«arcangelo mondano» 


135 


mercio ininterrotto con una divinità terrestre, mistero che si ce¬ 
lebra nel più intimo della coscienza mussoliniana»^^^. La cele¬ 
brazione del «Natale di Roma» era interpretata dai fascisti come 
un rito iniziatico per entrare in comunione con la romanità: at¬ 
traverso questo rito, animato «da una ‘volontà solare’, da una vo¬ 
lontà imperiale, da una volontà di potenza [...] l’Italiano nuovo 
riprende contatto spiritualmente con il romano antico»“^. Asso¬ 
ciato al mito della romanità, quindi, anche il mito deIl’«uomo 
nuovo» acquistava significato religioso, simbolo della metanoia 
del popolo italiano che il fascismo voleva forgiare per renderlo 
degno erede spirituale dei romani, pronto, come i romani, a sfi¬ 
dare il destino per costruire una «nuova civiltà», modellata sul¬ 
lo spirito dei romani, combattenti invitti, ma anche «costruttori 
formidabili che potevano sfidare, come hanno sfidato, il tem¬ 
po» ^ 

Il fascismo aveva l’ossessione del tempo. La religione, ha scrit¬ 
to Mircea Eliade, è un’aspirazione all’immortalità che nasce dal¬ 
la «nostalgia dell’eternità», dal desiderio di poter vivere «me¬ 
diante la trasfigurazione della durata in un istante eterno»^An¬ 
che nel fascismo troviamo tracce consistenti di questa aspirazio¬ 
ne, tradotta nei termini propri di una cultura che identificava 
l’immortalità di un popolo con il mito della civiltà, cioè con la 
sua capacità a vincere la sfida del destino imprimendo il suo se¬ 
gno nella storia. Il comandamento mussoliniano «durare», più 
che mettere a nudo una politica opportunistica che viveva alla 
giornata, rivela l’impulso di una volontà di potenza che vuole sfi¬ 
dare il tempo. L’atteggiamento verso la morte, il culto dei cadu¬ 
ti, lo slancio futuristico verso l’azione e il mito della «rivoluzio¬ 
ne continua» come pure la stessa smania di protagonismo nella 
politica del mondo, sono altrettante manifestazioni di una vo¬ 
lontà di potenza in lotta contro il tempo e di un desiderio di im¬ 
mortalità. E la stessa insistenza del fascismo sulla necessità della 
fede derivava da questa volontà di sfida, considerando la fede 
stessa una forza contro il destino e una scintilla di eternità. 


N. PadeUaro, Fascismo educatore, Roma 1938, p. 18. 

“^M. Scaligero, Natale di Roma, in «Gioventù fascista», 21 aprile 1933. 
Mussolini, Passato e avvenire, cit. 

Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 422. 




136 


Il culto del littorio 


Il «destino» è un’immagine importante nell’universo simboli¬ 
co del fascismo: nel contesto della «storia sacra» della religione 
fascista, evoca una oscura divinità che sovrasta le vicende della 
storia, mettendo alla prova con le sue sfide cicliche la capacità 
dei popoli di lasciare una impronta duratura nella storia dando 
vita ad una civiltà. La storia, per il fascismo, era una perpetua 
lotta fra il destino e la volontà, una lotta che scandiva il ciclico 
sorgere e tramontare delle civiltà. Il destino era una divinità im¬ 
prevedibile e inesorabile, ma la volontà poteva, in straordinarie 
circostanze, sostenere la sfida. Il duce, intimamente persuaso di 
possedere il dono di indovinare il proprio secolo, era convinto di 
vivere in una delle cicliche svolte epocali, in cui il destino offri¬ 
va al popolo italiano l’occasione di provare ancora la sua virtù. 
Dopo una eclissi di secoli di decadenza, gli italiani avevano l’oc¬ 
casione di creare una nuova civiltà. Ma la sfida poteva essere vin¬ 
ta solo con la fede nella religione fascista e con la totale sotto- 
missione alla guida del duce, che plasmava il carattere degli ita¬ 
liani per creare una razza di dominatori e di conquistatori: 

La grande ora non batte a tutte le ore e a tutti gli orologi. La ruo¬ 
ta del destino passa. È sapiente colui che, essendo vigilante, la affer¬ 
ra nel minuto in cui trascorre dinnanzi a lui. [...] Se mi riuscirà, e se 
riuscirà al Fascismo di sagomare così come io voglio il carattere de¬ 
gli italiani, state tranquilli e certi e sicuri che quando la ruota del de¬ 
stino passerà a portata delle nostre mani noi saremo pronti ad affer¬ 
rarla ed a piegarla alla nostra volontà. 

Il progetto pedagogico dello Stato totalitario si potrebbe com¬ 
pendiare nell’aspirazione a forgiare gli italiani come «romani del¬ 
la modernità», capaci di vincere la sfida del tempo e di impri¬ 
mere il segno del littorio sul corso degli eventi. Nella visione di 
questo assurdo esperimento si riassume il significato e la funzio¬ 
ne che il fascismo attribuiva alla sacralizzazione della politica. 

E per realizzare il suo esperimento totalitario, rigenerare il ca¬ 
rattere degli italiani e creare un «italiano nuovo», integralmente 
fascista, il regime non esitò ad entrare in conflitto con la Chiesa, 


Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XXII, p. 100 (discorso nel VII anni¬ 
versario della fondazione dei Fasci, 28 marzo 1926). 


III. L’«arcangelo mondano> 


137 


come accadde prima della Conciliazione e subito dopo questa, e 
ancora, successivamente, nel 1931 e nel 1938. Il motivo del con¬ 
flitto fu sempre lo stesso: lo Stato fascista rivendicava il mono¬ 
polio dell’educazione delle nuove generazioni, come di tutta la 
coUettività, secondo i valori della propria etica nazionalista e 
guerriera, e non ammetteva condizionamenti e limiti alla totale 
fedeltà e dedizione dei cittadini verso lo Stato 


'2" Sulla crisi del 1931, cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del 
consenso 1929-1936, Torino 1974, pp. 246 sgg.; sulla crisi del 1938, cfr. Id., 
Mussolini il duce. II. Gli anni4el consenso 1936-1940, cit., pp. 133 sgg. 




IV 

LITURGIA DELL«ARMONICO COLLETTIVO» 


Il fascismo è il massimo esperimento della 
nostra storia nel fare gli italiani. 

Mussolini 

Il problema principale di ogni Stato come di 
ogni rivoluzione, di ogni filosofia degna di 
questo nome come di ogni civiltà, è il pro¬ 
blema dell’uomo, che è quello della pedago¬ 
gia politica, cioè della formazione del perfet¬ 
to cittadino [...] Formazione fisica, formazio¬ 
ne spirituale, formazione politica son compi¬ 
ti che lo Stato non può lasciare affidati all’e¬ 
ventuale buona volontà dell’iniziativa priva¬ 
ta, ma che rappresenta la sua principale 
missione. 

Il Fascismo si direbbe che prenda gli italiani 
uno per uno allo scopo di foggiarli in ogni sen¬ 
so secondo l’imperativo nazionale. Essi deb¬ 
bono diventare perfetti strumenti per il con¬ 
seguimento dei fini dello Stato, come accadde 
con Roma che di tale pedagogia fu maestra in¬ 
superata perché intorno al proprio nome sep¬ 
pe creare una mistica, ond’esso non era più 
quello di una città, ma di una entità addirittu¬ 
ra divina, e l’essere cittadino romano signifi¬ 
cava essere partecipe di tale divinità. 

E. Bodrero 





Gran parte della funzione pedagogica dello Stato fascista si 
svolse attraverso una costante, crescente e capillare opera di «pro¬ 
paganda della fede», per mezzo di riti e manifestazioni di massa. 
Uno degli aspetti principali della religione fascista, infatti, fu l’isti¬ 
tuzionalizzazione di una liturgia di Stato non soltanto per i mili¬ 
tanti del partito ma per tutti gli italiani coinvolti, volenti o nolen¬ 
ti, nella periodica celebrazione dei riti del regime. Nell’istituire 
questa liturgia, il fascismo seguì una propria logica in cui risulta 
presente una realistica consapevolezza della funzione che simboli 
e riti avevano nella moderna politica di massa. Durante il periodo 
fra l’andata al potere e la trasformazione del regime, i riti del fa¬ 
scismo, come abbiamo visto, avevano assolto a diverse funzioni, 
connesse con il processo di consolidamento del nuovo sistema po¬ 
litico. In questa fase essi sono, innanzi tutto, atti simbolici di con¬ 
sacrazione della irrevocabilità del potere del fascismo, legittiman¬ 
dolo come salvatore della patria e unico interprete della volontà 
generale della «nuova Italia» sorta dalla guerra. Con l’intensifica¬ 
zione del proprio rituale, prima ancora di conquistare l’effettivo 
monopolio del potere, il fascismo occupa e monopolizza gli «spa¬ 
zi sacri» per celebrare il culto della patria, integrandolo nel culto 
del littorio. I suoi riti, inoltre, sono sempre uno «spettacolo della 
forza» volto a terrorizzare gli avversari, a impressionare gli incer¬ 
ti, e, nello stesso tempo, a rafforzare il senso di identità, di coesio¬ 
ne e di potenza dei fascisti stessi, in un periodo in cui il partito era 
continuamente scosso da crisi interne. 

Alla fine degli anni Venti, mentre il nuovo regime consolida e 
sviluppa le strutture del suo potere, presidiato da un efficace ap¬ 
parato poliziesco di controllo preventivo e repressivo, il fascismo 
disciplina, limita e coordina l’attività delle manifestazioni colletti¬ 
ve, sottoponendole ad un severo controllo, e formalizza il culto del 
littorio entro un rigido cerimoniale, definito dal partito. Ma non 
per questo il regime si mostra meno interessato a sviluppare il suo 




142 


Il culto del littorio 


sistema di riti: al contrario, lo incrementa, moltiplicandone le ma¬ 
nifestazioni e rivolgendosi ora soprattutto al coinvolgimento delle 
masse esterne al partito. In questa nuova fase, simboli e riti, men¬ 
tre continuavano a svolgere la funzione di rafforzare i legami al- 
Tinterno del fascismo stesso, proiettando all’esterno e all’estero 
un’immagine di unità, di compattezza e di potenza del partito e del 
regime, servivano a magnificare la maestà dello Stato totalitario, a 
rivestire di sacralità il potere del duce e del partito. Simboli e riti 
erano inoltre, in senso lato, mezzi di propaganda e strumenti per 
influire sull’opinione pubblica facendo appello ai sentimenti, alle 
emozioni, alla fantasia e all’entusiasmo. Nei periodi di crisi eco¬ 
nomica, i riti collettivi compensavano con l’eccitazione dell’entu¬ 
siasmo privazioni e disagi; celavano, dietro una facciata di ordine 
ed efficienza, le difficoltà del regime; distraevano periodicamente 
le masse dai problemi inquietanti della politica estera, rassicuran¬ 
dole con una autoesaltante esibizione di potenza. 

L’analisi del significato e della funzione della liturgia nel regi¬ 
me fascista non potrebbe però limitarsi a registrare solo queste 
funzioni pragmatiche e utilitarie, certamente presenti nei proposi¬ 
ti degli organizzatori della liturgia fascista, perché si tratta di fun¬ 
zioni che, in senso generale, non possono essere considerate tipi¬ 
che ed esclusive della liturgia fascista, dal momento che sono fun¬ 
zioni che riti e simboli svolgono in qualsiasi forma di liturgia poli¬ 
tica, democratica o autoritaria. Per comprendere il significato spe¬ 
cifico della liturgia fascista, occorre però volgere la nostra atten¬ 
zione ad un altro aspetto dell’uso del simbolismo e del rituale, con¬ 
siderandoli specificamente come espressioni della religione fasci¬ 
sta. La liturgia politica funzionava come forma di legittimazione 
del potere e come mezzo di manipolazione e di controllo delle 
masse: ma esprimeva anche, e in modo tutt’altro che marginale e 
contingente, credenze, valori e fini propri della cultura fascista. 


Miti politici e politica dei miti 

L’istituzione di una liturgia di Stato fu conseguenza della con¬ 
cezione fascista delle masse, basata sulla convinzione che nella 
massa predomina il sentimento, non la ragione, e che solo fa¬ 
cendo appello ai sentimenti, suscitando emozioni ed entusiasmo. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


143 


attraverso miti che danno forma ai desideri delle masse e le inci¬ 
tano all’azione, è possibile per un movimento politico organizza¬ 
re ed utilizzare la loro energia per il conseguimento dei suoi fi¬ 
ni. Rinunciando ad ogni simulazione demagogica, il fascismo e il 
suo capo non avevano mai nascosto la loro visione della massa: 

La massa - affermava il duce - per me non è altro che un gregge 
di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. 
Soltanto nego che essa possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, 
bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve 
solo di uno dei due, corre pericolo. Il lato mistico e il politico si con¬ 
dizionano l’un l’altro. L’uno senza l’altro è arido, questo senza quel¬ 
lo si disperde al vento delle bandiere.^ 

Tuttavia, pur negando alla massa la capacità e la possibilità di 
autogovernarsi, il fasciamo riconosceva che l’adesione della mas¬ 
sa era una delle grandi forze della politica moderna, e non pote¬ 
va essere trascurata per il consolidamento del suo potere e so¬ 
prattutto per realizzare lo Stato totalitario, perché la «massa è di¬ 
ventata un elemento attivo della vita delle comunità moderne», 
e il rapporto fra governanti e governati «in nessun modo nelle 
condizioni presenti dello spirito dei popoli può ridursi alla ‘do¬ 
minazione’; ma persegue T'adesione’», attraverso l’organizzazio¬ 
ne e la formazione di una unità spirituale collettiva^. E in questa 
visione della politica di massa, aveva un ruolo di primaria im¬ 
portanza il mito, che è un’idea cardine della cultura fascista, pre¬ 
sente nella concezione dello Stato totalitario e nell’idea della 
«nuova civiltà» che esso ambiva realizzare. 

Come ideologia che rifiutava esplicitamente il primato della 
ragione e la cultura razionalista, anche se non rinunciava, nella 
pratica politica, ad avvalersi di un uso razionale dell’irrazionali¬ 
smo, il fascismo esaltava il pensiero mitico ed elaborò una pro¬ 
pria concezione del mito politico sulla scia della definizione di 
G. SoreP, interpretando il mito principalmente come immagine 
e simbolo capace di suscitare nelle masse emozioni, entusiasmo, 

* E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, pp. 121-122. 

^ C. Costamagna, Dottrina del Pascismo, s.I. 1982, p. 108. 

’ Cfr. G. Sorci, Considerazioni sulla violenza, trad. it. di A. Samo, Roma- 
Bari 1974, pp. 73, 177, 180-182. 




144 


Il culto del littorio 


volontà di agire. «Il mito è una fede, è una passione - aveva af¬ 
fermato Mussolini Non è necessario che sia una realtà. È una 
realtà nel fatto che è un pungolo, che è una speranza, che è fe¬ 
de, che è coraggio>d. Questa idea del mito era largamente diffu¬ 
sa nella cultura fascista, era un punto di riferimento quasi obbli¬ 
gato ogni qual volta si parlava di massa e di educazione delle mas¬ 
se. Attraverso i miti - scriveva nel 1923 un collaboratore dell’or¬ 
gano fascista lombardo - «si esprime una ragione di fierezza e di 
orgoglio comune a tutta la stirpe unificata nel ricordo della pas¬ 
sata grandezza, da loro si esprime un esempio di virtù che inve¬ 
ste direttamente la sensibilità, più pronta della persuasione»^. Il 
mito era la forma di pensiero atta a plasmare, come affermava un 
prefetto agli infzi del governo fascista, r«animo eternamente 
bambino delle masse [...] l’anima della popolazione [...] facile 
materia plastica pronta a ricevere l’impronta e il suggello di una 
nuova idea e di un nuovo spirito»*^. Su un livello culturalmente 
più alto, il problema del mito era oggetto di molte riflessioni da 
parte dei più autorevoli intellettuali del fascismo. Giovanni Gen¬ 
tile, per giustificare l’antiintellettualismo fascista e la suggestione 
delle formule dogmatiche che esso adoperava, spiegava che «le 
formule non sono idee e non agiscono come tali. Creano miti, su¬ 
scitano consensi e adesioni cieche, globali, mettono in moto le 
forze del sentimento e della volontà», e per questo suscitano e 
mettono in moto «quei grandi fasci d’uomini che rovesciano po¬ 
sizioni storiche secolari, strumenti animati dal pensiero, che si an¬ 
nida e vive in pochi spiriti guidatori, anzi in uno, che è il Duce»^. 
Carlo Curdo, storico delle idee e impegnato intellettuale fasci¬ 
sta, autore di un saggio sui miti politici, scriveva per l’autorevo¬ 
le Dizionario di politica del PNF, che «il mito rivela una sua pre¬ 
senza attiva e formidabile nei grandi movimenti di masse, specie 


Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 44 voU., Firenze 1951- 
1963, voi. XVIII, p. 457 (discorso pronunciato a Napoli il 24 ottobre 1922). 
Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall'antigiolittismo al fascismo, Roma- 
Bari 19992 , pp. 2(>9-211. 

^ G. Neri, La tradizione mitica che ritorna, in «Il Popolo di Lombardia», 
23 febbraio 1924. 

^ ACS, Gabinetto Pinzi, b. 2, fase. 72, rapporto del prefetto di Pesaro, 10 
maggio 1923. 

2 G. Gentile, Fascismo e cultura, Milano 1928, pp. 48-49. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


145 


a sfondo politico e sociale» ed «ha un’importanza decisiva nella 
vita dei popoli». Come «una rappresentazione, talvolta plastica 
talvolta inconscia, del mondo, o per lo meno di alcuni suoi aspet¬ 
ti», che sia di «contenuto vero o falso, utile o dannoso», il mito, 
suscitato da un uomo o sorto da un movimento, «quando assur¬ 
ge veramente a convinzione di larghi strati sociali, a fede di fol¬ 
le, esprime un’interpretazione della vita e della storia, incita gli 
uomini, che credono in esso, ad azioni talvolta eroiche e sovru¬ 
mane. In nome di un assoluto che non consente dubbi, con un 
linguaggio facile ma imperativo, il mito diventa una fede, una re¬ 
ligione, una forza morale che, finché dura, è capace delle più au¬ 
daci imprese». Ma per aver forza trascinatrice, il mito «deve sem¬ 
pre riferirsi a taluni bisogni, a talune esigenze degli uomini. Es¬ 
so è intollerante, minaccioso, sicuro di sé; e tuttavia plastico e tal¬ 
volta anche modificabile nel tempo. Ha una sua durata, che è 
spesso relativa all’intrinseca portata del suo valore storico e cioè 
alla sua intransigenza che non è aliena da adattamenti»^. Quan¬ 
do diventano credenze e convinzioni «diffuse e dominanti» i mi¬ 
ti, osservava a sua volta Rodolfo De Màttei, storico del pensiero 
politico, «creano la coscienza collettiva e servono ai governanti 
per condurre gli egoismi nazionali a un’azione di massa»^. 

Seguendo questa linea di interpretazione, il mito veniva consi¬ 
derato dai fascisti come un potente e indispensabile motore e fat¬ 
tore dell’azione politica. Il mito, scriveva Carlo Costamagna, uno 
dei più integralisti fra i giuristi del regime, era una «rappresenta¬ 
zione soggettiva della realtà capace di promuovere una afferma¬ 
zione dello spirito del tutto indipendente dal suo contenuto logi¬ 
co sperimentale»; miti erano le idee «suscitatrici di opinioni, di 
sentimenti, di determinazioni volitive» che «costituiscono le mo¬ 
trici dell’azione politica»^®. Un nuovo Stato e una nuova civiltà si 
fondano e si perpetuano attraverso l’azione di miti divenuti fede 
collettiva della massa. «Il compito dei ‘fondatori’ è quello appun¬ 
to di portare agli uomini le rivelazioni, che suscitano le rivoluzio- 

® C. Curdo, Mito, in PNF, Dizionario di politica, voi. Ili, Roma 1940, p. 
186. Cfr. Id., Miti della politica, Roma 1940. 

’ R. De Mattei, Miti politici e fatti economici, in «Educazione fascista», lu¬ 
glio 1928. 

C. Costamagna, Razza, in PNF, Dizionario di politica, cit., voi. IV, pp. 

23-29. 






146 


Il culto del littorio 


ni, promuovono la trasformazione dei regimi, creano gli stati e ge¬ 
nerano le civiltà mondiali»^. Per gli ideologi di un «misticismo» 
fascista, i quali identificavano l’essenza del fascismo stesso con il 
mito di Mussolini, tutti i grandi avvenimenti che trasformano la 
storia sono eventi mitici creati sotto l’impulso della fede^^. 

Il mito, dunque, per la cultura fascista, non era una forma 
mentale confinabile nel mondo arcaico o in uno stadio primitivo 
della mentalità, ma era una forma strutturale del pensiero uma¬ 
no, quale si esprimeva soprattutto nelle creazioni artistiche e nei 
movimenti religiosi, ma in forma altrettanto rilevante anche nel 
mondo della politica. Anzi Bottai vedeva nella tendenza alla crea¬ 
zione di miti politici, che «investono la nostra stessa civiltà», una 
caratteristica della modernità. C’era una «esigenza di miti», sen¬ 
tita soprattutto dalle masse e in funzione delle masse, «per dare 
e chiarire un ideale da realizzare, un’aspirazione che tocchi e uni¬ 
fichi i loro sentimenti», ed era compito dei politici eleborare mi¬ 
ti capaci di rispondere all’esigenza delle masse^^. 

La necessità di miti politici, per i «fondatori di civiltà», qua¬ 
li si consideravano i fascisti, portava con sé, inevitabilmente, l’u¬ 
so di simboli e riti. Mussolini aveva certamente presente, su que¬ 
sto tema, la lezione di Gustave Le Bon, autore che egli ammira¬ 
va molto: «Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, 
ma senza i riti e i simboli la fede non potrebbe durare»Il fa¬ 
scismo era consapevole della circolarità fra mito, rito e simbolo, 
come condizione necessaria per instillare e mantener viva una fe¬ 
de collettiva. Sullo spirito umano, affermava Camillo Pellizzi, 
aveva maggior peso «un bel simbolo che non una mediocre realtà 
di fatto»’^^. Una rivoluzione, aveva scritto nel 1927 un dirigente 
del PNF, si riconosce «anche dalla potenza dei suoi simboli e dal¬ 
la bellezza dei suoi riti»^''’. Ma l’importanza politica del simboli- 

Id., Regime, ivi, pp. 31-35. 

Cfr. D. Marchesini, La scuola dei gerarchi, Milano 1976, p. 105. 

l miti moderni, in «Primato», 15 febbraio 1942. 

G. Le Bon, Aphorismes du temp présent, Paris 1919, p. 96. 

C. Pellizzi, Problemi e realtà del fascismo, Firenze 1924, p. 116. Pellizzi 
tornò molti anni dopo a riflettere da sociologo sul problema del simbolo, del 
mito e del rito, con considerazioni, per certi aspetti, anticipatrici dell’analisi 
scientifica della liturgia politica, ancora degne di nota: cfr. Id., Rito e linguag¬ 
gio, Roma 1964, in particolare il capitolo Vili. 

«Il Popolo d’Italia», 19 marzo 1927. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


147 


smo, per i fascisti, non si limitava all’aspetto estetico. Forme di 
visualizzazione e di drammatizzazione del mito, i simboli e i riti 
erano necessari per rendere accessibili al sentimento delle masse 
i miti della «religione fascista» e convertirle alla sua fede. Dalla 
necessità di concretizzare in segni visibili il fascino dell’autorità, 
insegnava il sociologo fascista Roberto Michels, ha origine il sim¬ 
bolismo politico, «tratto d’unione tra l’autorità e le masse, pres¬ 
so le quali esso ne mantiene il prestigio»La massa, sosteneva 
l’autore di un trattato sulla concezione fascista dello Stato, «ha 
bisogno di spiritualismo, di religiosità, di catechismo, di rito»*^. 

Muovendo da questi presupposti culturali, al di là di quelle che 
potevano essere le loro intime convinzioni e credenze in materia, i 
fascisti riconoscevano alla religione come sistema di credenze, di 
miti e di riti, una funzione sociale predominante nella vita colletti¬ 
va, come forza di unificazione spirituale, ancor più necessaria in 
una società che alle antiche fratture storiche, sociali, culturali della 
sua plurisecolare frammentazione politica e geografica, aveva ag¬ 
giunto le più recenti fratture della lotta di classe e dei conflitti ideo¬ 
logici, che avevano accompagnato il processo di industrializzazio¬ 
ne e di modernizzazione, e l’entrata delle masse sulla scena politi¬ 
ca. La reintegrazione della società nell’ordine presupponeva, per il 
fascismo, l’imposizione di una disciplina autoritaria, ma esigeva an¬ 
che una integrazione culturale attraverso le forme più idonee a eser¬ 
citare un’influenza sulle masse, per realizzare la nazionalizzazione 
delle masse. Rispetto alla classe dirigente liberale, il fascismo af¬ 
frontava in pratica con maggior consapevolezza e sensibilità demo¬ 
cratica - nel senso della «democrazia totalitaria»^^ - il problema 
della formazione dell’unità morale degli italiani, procedendo riso¬ 
lutamente all’opera di indottrinamento e di conversione con meto¬ 
di totalitari, convinto che non vi fosse alcuna possibilità realistica, 
nella società moderna, di nazionalizzare le masse cercando di con¬ 
ciliare la libertà dell’individuo con l’unità morale della nazione: so¬ 
lo sacrificando la libertà si poteva mirare a realizzare l’unità, attra¬ 
verso la conversione collettiva dell’individuo e delle masse alla re- 

R. Michels, Studi sulla democrazia e sull’autorità, Firenze 1933, p. 75. 

G. Bortolotto, Lo Stato e la dottrina corporativa, Bologna 1930, p. 35. 

Cfr. J. Talinon, Le origini della democrazia totalitaria, trad. it. di M.L. Iz- 
zo Agnetti, Bologna 1967. 




148 


Il culto del littorio 


ligione del fascismo. Lo Stato doveva operare a tempo pieno come 
un grande istituto di rieducazione collettiva, dove, alla forzata eli¬ 
minazione delle forme di cultura di massa antagoniste, contrarie ad 
accettare il primato dello Stato, si accompagnava la sperimentazio¬ 
ne di nuove forme di cultura collettiva per una integrazione totali¬ 
taria delle masse, secondo i valori e i fini propri del fascismo e del¬ 
la sua cultura. Per d fascismo, la conversione delle masse ai suoi mi¬ 
ti era condizione indispensabile e necessaria non solo per consoli¬ 
dare il potere, già saldamente presidiato dal sistema poliziesco, ma 
per realizzare il suo ambizioso progetto totalitario, la rigenerazio¬ 
ne degli italiani per creare un «armonico collettivo». Il processo di 
integrazione totalitario era una «rivoluzione continua», che richie¬ 
deva una capillare organizzazione della collettività nel campo del¬ 
la politica, della produzione e del «tempo libero», e la costante mo¬ 
bilitazione delle masse. Era un fondamentale postulato della peda¬ 
gogia totalitaria la convinzione che «per gli uomini assenti dalla vi¬ 
ta politica le virtù civili si deformano. La politica fascista vuole es¬ 
sere una continua mobilitazione»^”. Solo con la socializzazione di 
un proprio sistema di miti e di credenze, facendo diventare la reli¬ 
gione fascista abito mentale, etica civile e stile di vita della colletti¬ 
vità nazionale, il fascismo riteneva di poter conseguire in modo at¬ 
tivo e duraturo l’integrazione delle masse entro le strutture dello 
Stato totalitario, trasformando la massa in una comunità morale 
animata da una unica fede. E uno dei principali veicoli per propa¬ 
gandare fra le masse i miti del regime, e per instillare e tener viva in 
esse la fede nella religione fascista, era l’adozione di un sistema di 
simboli e riti capaci di influire sul sentimento della massa, secondo 
le forme tipiche delle religioni. 


I tralignati discepoli di Rousseau 

Ancora una volta, i fascisti seguivano i precetti dell’autore del¬ 
la Psicologia della folla: 

Le feste nazionali, le grandi commemorazioni, le bandiere, le sta¬ 
tue, le pompe ufficiali, le toghe dei magistrati, l’apparato della giu- 


N. Padellaro, Fascismo educatore, Roma 1938, p. 165. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


149 


stizia con le sue bilance simboliche, sono i più sicuri sostegni della 
tradizione e della comunità di sentimenti su cui si fonda la forza del¬ 
la nazione.^^ 

La liturgia di massa era necessaria quanto l’organizzazione to¬ 
talitaria per promuovere la mobilitazione delle masse e conqui¬ 
stare il loro consenso, inteso non come libera e critica parteci¬ 
pazione, ma come adesione di fede: attraverso la pratica dei riti, 
con la costante opera di indottrinamento catechistico da parte 
del partito e dello Stato, la religione fascista doveva divenire com¬ 
ponente essenziale della mentalità e del carattere degli italiani, 
trasformarsi in tradizione e costume, suscitando e alimentando 
l’entusiastica partecipazione delle masse alla vita del regime. A 
questo scopo, però, la liturgia di massa, disse Mussohni, doveva 
avere anche un «elemento festoso»: 

Musica e donne sono il lievito della folla e la rendono più legge¬ 
ra. Il saluto romano, tutti i canti e le formule, le date e le commemo¬ 
razioni, sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimen¬ 
to. Così è già stato nell’antica Roma.^^ 

Mussolini aveva certamente avuto qualche familiarità, quanto 
meno negli anni della militanza socialista, con la storiografia del¬ 
la rivoluzione francese, e probabilmente, parlando di riti e sim¬ 
boli, aveva in mente le suggestive pagine di Michelet sulle feste 
e i culti rivoluzionari, ma aveva anche presente l’uso di simboli 
e riti nella Russia bolscevica. Un diplomatico sovietico, riferen¬ 
dosi alle relazioni «persino confidenziali» fra Stalin e Mussolini 
negh anni Trenta, ha rivelato che Mussolini aveva chiesto e ave¬ 
va avuto da Stalin la sceneggiatura delle manifestazioni nella piaz¬ 
za Rossa per il Primo maggio e l’anniversario della rivoluzione 
d’ottobre, e che le aveva copiate, come aveva constatato lo stes¬ 
so diplomatico assistendo ad una manifestazione fascista con la 
presenza di MussolinP^. Riferendosi probabilmente a queste 

G. Le Bon, La vie des vérités, Paris 1920, pp. 38-39. 

Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 122. 

2^ Veterans speak of thè diplomatic Service, in «International Affairs», 1989, 
n. 9, p. 132. Cfr. R. De Felice, Mussolini l’alleato, voi. I, tomo II, Torino 1990, 
p. 1281, n. 1. A conferma dell’interesse di Mussolini per i rituali sovietici, ri- 





150 


Il culto del littorio 


esperienze, Mussolini affermava che ogni rivoluzione deve crea¬ 
re nuove forme, nuovi miti e nuovi riti per dare ordine, ritmo, 
entusiasmo alle masse: 

allora le vecchie tradizioni si devono utilizzare e trasformare. Nuove 
feste, gesti e forme si devono creare, affinché essi stessi divengano 
nuovamente tradizione. La festa degli aeroplani, che abbiamo istitui¬ 
ta, è oggi nuova. Fra cinquant’anni la abbellirà la patina della tradi- 
zione.^"* 

Per organizzare la sua liturgia, la rivoluzione fascista non eb¬ 
be un artista come Jacques-Louis David, il grande coreografo del¬ 
le feste civili della rivoluzione francese. Non è tuttavia arbitrario 
affermare che, per certi aspetti, gli organizzatori del culto del lit¬ 
torio, con i loro propositi di pedagogia di massa, possono essere 
considerati i continuatori, per quanto spuri, della tradizione ri¬ 
voluzionaria, tralignati discepoli di Rousseau nell’applicazione 
dei suoi precetti sulle feste civili per l’edificazione di una «re¬ 
pubblica della virtù». Come per la sacralizzazione dello «Stato 
educatore», anche nella istituzione della liturgia politica il fasci¬ 
smo si muoveva sulla via aperta dalla rivoluzione francese, pur 
dileggiando platealmente gli «immortali principi dell’89» e l’u- 
topismo razionalista ed egualitarista dei giacobinP^. Ai culti del¬ 
la Francia rivoluzionaria, in effetti, aveva fatto esplicito riferi¬ 
mento, nel 1922, un collaboratore della rivista di Mussolini: 

Pochi dogmi valgono a ciò meglio di prolisse dissertazioni. E più 
efficace d’ogni dogma è per esaltare il sentimento, la coreografia ester¬ 
na, il cerimoniale, il rito. Un forte sentimento si manifesta irresisti¬ 
bilmente in atti esterni [...] Durante la rivoluzione francese, l’esalta¬ 
zione religiosa del popolo si manifestò in un pittoresco rituale laico. 
Qualcosa di simile si produce oggi nelle file fasciste.^^ 

sulta che nel 1927 egli chiese al ministero degli Esteri informazioni sull’uso del 
«gran pavese» nelle feste sovietiche, cfr. ACS, PCM, Gabinetto, 1927, fase. 
15.19 n. 2446. 

Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 72. 

Cfr. G.L. Mosse, Fascism and thè French Revolution, in «Journal of Con- 
temporary History», 24, 1989, pp. 5-26. 

Volt, Vilfredo Pereto e il fascismo, in «Gerarchia», ottobre 1922. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo» 


151 


Il richiamo alla rivoluzione francese non appariva, allora, in¬ 
giustificato o blasfemo. Un giornalista francese, presidente del¬ 
l’associazione della stampa straniera a Roma, esaminando con no¬ 
tevole acume il misticismo e il simbolismo politico dei fascisti al¬ 
la fine del 1924, riscontrò varie analogie fra rivoluzione francese 
e rivoluzione fascista, fino a parlare di una «filiazione» del fasci¬ 
smo dal giacobinismo. Come i giacobini, scriveva De Nolva, il fa¬ 
scismo vuole creare un mondo virtuoso, e per compiere la sua 
missione proclama la necessità e la legittimità della dittatura ri¬ 
voluzionaria, consacrandola con il culto della patria^"^. 


Riti della comunione di massa 

Dopo aver posto il suo potere su solide basi, il fascismo con¬ 
tinuò a dedicarsi alla elaborazione di una liturgia nazionale, coe¬ 
rente con le sue idee sui miti, sui riti e sui simboli, come parte 
fondamentale nel suo progetto totalitario di creazione dell’«ita- 
liano nuovo». La sua azione, in questo campo, si sviluppò, come 
abbiamo visto, con l’istituzione di un organico sistema di riti, fe¬ 
ste e manifestazioni collettive, per celebrare il culto del littorio 
durante tutto l’arco deU’«anno fascista» secondo il ritmo fissato 
dal «calendario del regime». Ma ai riti periodici delle feste del¬ 
l’unità, della monarchia e della Grande guerra, degli anniversari 
della rivoluzione e del Natale di Roma, di volta in volta si ag¬ 
giungevano altre manifestazioni di massa, dalle sagre alle mostre, 
dalle parate alle grandi adunate organizzate in occasione di even¬ 
ti straordinari, come per esempio le manifestazioni per la cam¬ 
pagna d’Etiopia, gli incontri del duce con la foUa durante i suoi 

R. De Nolva, Le mysticisme et l’esprit révolutionnaire du fascisme, in 
«Mercure de France», 1° novembre 1924: «La Rivoluzione aveva l’altare della 
patria, la coccarda tricolore, le tavole della costituzione, la colonna dei diritti 
dell’uomo, gli alberi della libertà, i fasci dell’unità, i riti funebri e le feste com¬ 
memorative in forma di cortei, di cerimonie, di giuochi simbolici e di diverti¬ 
menti educativi. Il fascismo ha l’altare della patria, il fascio dei littori, le tavo¬ 
le della legge (che sono le decisioni del Gran Consiglio), gli alberi della ri¬ 
membranza, i battaglioni degli scolari fascisti, i gruppi femminili, una fraseo¬ 
logia brutale e minacciosa, le processioni civili, divise grossolane, il teschio cu¬ 
cito sulla camicia nera, e la ‘Santa Milizia’, al posto della ‘Santa Montagna’». 








152 


Il culto del littorio 


viaggi per l’Italia, le sue innumerevoli apparizioni al balcone di 
palazzo Venezia per esaudire le invocazioni della folla. L’inesau¬ 
ribile e spettacolare orchestrazione dell’entusiasmo collettivo, nel 
regime fascista, coinvolse milioni di italiani, uomini, donne e 
bambini, e affascinò viaggiatori stranieri simpatizzanti del fasci¬ 
smo e anche disincantati osservatori, che non erano prigionieri 
della sua retorica e neppure soggiogati dal mito del duce. Uno 
studioso americano definì i riti e le cerimonie del fascismo «la 
nuova arte fascista delle celebrazioni secolari»^^. Un altro scrisse 
che le manifestazioni di massa erano la principale industria del¬ 
l’Italia fascista, ed era ingiusto, nei confronti dei suoi organizza¬ 
tori e realizzatori, non includerla nelle statistiche della produ¬ 
zione^ 

La celebrazione di massa del culto del littorio si svolgeva sot¬ 
to la regia del partito fascista e sotto un occhiuto controllo del¬ 
l’apparato poliziesco, che ne assicurava lo svolgimento al riparo 
di eventuali pericoli di turbamento, specialmente nelle grandi 
città. Alla vigilia di ogni manifestazione venivano adottate le op¬ 
portune misure preventive «perché cerimonie stabilite non siano 
turbate da manifestazioni sovversive aut incidenti», procedendo¬ 
si al «tempestivo et largo rastrellamento individui o comunque 
sospetti», alla stretta vigilanza sugli stranieri, alla intensificazio¬ 
ne «servizi frontiera per speciali misure da attuarsi per sicurezza 
via ferrate opere d’arte, ponti, viadotti, opere comunque interes¬ 
santi difesa militare et vita economica nazionale»^”. 

Le forme essenziali dei riti del littorio possono essere descrit¬ 
te riferendoci, come esempio, all’anniversario della «marcia su 
Roma» nel 1926, celebrato «dalla grande massa del popolo ita¬ 
liano, inquadrata nei Fasci, nella Milizia, nei sindacati, nelle or¬ 
ganizzazioni giovanili», con la partecipazione dei decorati, dei 
mutilati, dei combattenti e di «tutte le altre organizzazioni che 
muovono nell’orbita del Regime». La celebrazione aveva una «se¬ 
vera impronta militare» per dare a tutti «l’idea della formidabi¬ 
le compagine di forze che stanno alla base della Rivoluzione Fa- 

H.W. Schneider, Making thè Fascist State, New York 1928, p. 222. 

H. Finer, Mussolini’s Italy, London 1935, p. 404. 

ACS, MI, DGPS, 1930-1931, cat. C4, b. 373, disposizioni della questu¬ 
ra di Roma, 23 ottobre 1929. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo>. 


153 


scista e ne garantiscono contro chiunque la vita e lo sviluppo»^ L 
Nei cortei il posto d’onore era assegnato alle madri vedove e agli 
orfani dei caduti, ai decorati, ai mutilati. Dopo l’omaggio ai ca¬ 
duti della guerra e della rivoluzione, i cortei si recavano ad ap¬ 
porre il simbolo del fascio alle opere pubbliche compiute. Il par¬ 
tito stabilì inoltre che tutte le cerimonie dovevano essere «im¬ 
prontate alla massima severità e sobrietà. Sono esclusi pertanto i 
banchetti e i ricevimenti fastosi». Anche la parte oratoria dove¬ 
va essere limitata alla lettura simbolica del messaggio del duce e 
alla illustrazione, da parte del segretario federale, delle opere 
compiute dal fascismo, «senza abbandonarsi a sfoghi retorici»^^. 
I fascisti avevano l’obbligo di indossare la camicia nera e la sera 
dovevano riunirsi nelle loro sedi per «manifestazioni intime di 
fraternità fra i gregari» nel ricordo dei caduti fascisti. Per esalta¬ 
re la figura del duce, avviato ormai a diventare un mito vivente, 
venne diffuso un film a lui dedicato, «proiettato simultaneamen¬ 
te» in tutti i capoluoghi e nelle colonie, presentando Mussolini 
«in una visione luminosa e viva, che infonderà un amore sempre 
più profondo per l’Italia»^^. Tutto il rituale dell’anniversario era 
interpretato come rinnovamento del «giuramento di fedeltà al¬ 
l’Idea»: «Così tutto un popolo, in perfetta fusione con la mente 
e la passione del suo Capo, ha celebrato l’inizio di un nuovo an¬ 
no di fatiche e di speranze», commentava il «Foglio d’ordini» del 
7 novembre 1926. 

Negli anni successivi, il rituale non subì modifiche sostanzia¬ 
li. Alla vigilia di ogni anniversario il partito dava disposizioni per 
la celebrazione, divisa nei due tempi del rito e della festa per di¬ 
stinguere il «sacro» dal «profano». Il rito, che si celebrava gene¬ 
ralmente la mattina, comprendeva le cerimonie religiose e mar¬ 
ziali: la messa in memoria dei caduti della guerra e della rivolu¬ 
zione, la sfilata di tutte le organizzazioni del regime e delle asso¬ 
ciazioni combattentistiche davanti alle autorità civili e militari, 
l’omaggio ai monumenti dei caduti fascisti e dei caduti della 
Grande guerra, la lettura del messaggio del duce, l’ascolto nelle 
piazze del suo discorso radiodiffuso. La festa si svolgeva nelle ore 

PNF, «Foglio d’ordini», n. 10, 9 ottobre IV (1926). 

PNF, «Foglio d’ordini», n. 11, 15 ottobre IV (1926). 

«Il Popolo d’Italia», 27 ottobre 1926. 






154 


Il culto del littorio 


pomeridiane, e comprendeva gite campestri, balli, canti, tratte¬ 
nimenti musicali. La scenografia per le cerimonie mescolava sim¬ 
boli tradizionali e moderni: imbandieramento e illuminazione 
degli edifici pubblici, suono a distesa per mezz’ora delle campa¬ 
ne delle torri civiche, luminarie nelle piazze e nelle strade, lumi¬ 
nosi simboli del fascio e iscrizioni inneggianti al duce, fiaccolate 
e fuochi accesi la sera «sui picchi delle Alpi e degli Appennini». 
Sintesi simbolica di antico e moderno era la coreografìa rituale 
delle cerimonie nella capitale, con parate militari nello scenario 
dei monumenti romani, stormi di aerei in volo e adunate nel Co¬ 
losseo. Negli anniversari, inoltre, per i fascisti erano prescritte la 
camicia nera, l’uniforme dell’organizzazione di appartenenza, le 
decorazioni. La sera, tutti i fascisti dovevano riunirsi nelle loro 
sedi «in fraternità di ricordi e di propositi»^"’. Per la celebrazio¬ 
ne del 23 marzo, a partire dal 1932, un posto d’onore era riser¬ 
vato ai «sansepolcristi», insigniti di uno speciale brevetto dal du¬ 
ce. Fra le cerimonie del 28 ottobre divenne tipico il rito d’inau¬ 
gurazione delle opere pubbliche compiute nella provincia, cari¬ 
cando di significato simbolico l’idea del costruire, che nella mi¬ 
tologia fascista evocava la romanità, l’attivismo vitalistico, la con¬ 
cretezza realizzatrice, la volontà del «durare» in una continua 
sfida al tempo, la fede nel futuro. 

Le celebrazioni più solenni del culto del littorio si svolgeva¬ 
no naturalmente nella capitale alla presenza di Mussolini, in piaz¬ 
za Venezia, di fronte all’Altare della patria e al palazzo Venezia 
divenuto dal 1929 residenza di lavoro del duce. Il fascismo, scri¬ 
veva un esaltato cantore del mito mussoliniano, aveva riabilitato 
la piazza come luogo di culto: piazza Venezia, collocata fra i tem¬ 
pli antichi della romanità e i templi dell’italianità, era il «centro 
sacro» della religione fascista, la «piazza della Rivoluzione, sin¬ 
tesi di tutte le piazze d’Italia», meta di continui pellegrinaggi e 
adunate oceaniche di folle che «invocano l’apparizione del Du¬ 
ce e la sua parola che opera l’elevazione alle più alte tensioni»^^. 
Nelle cerimonie della capitale, alla rituale parata marziale delle 
forze del regime e al discorso del duce, si aggiungevano talvolta 
altri atti rituali come, nel 1928, il rogo compiuto dal duce, come 

PNF, «Foglio d’ordini», n. 11, 15 ottobre IV (1926). 

O. Dinaie, \m rivoluzione che vince, Foligno 1934, pp. 57-69. 



Fig. 9. L’illuminazione notturna in piazza del Duomo a Milano in oc¬ 
casione del 28 ottobre 1933 («La Rivista illustrata del Popolo d’Ita¬ 
lia», novembre 1933). 





156 


Il culto del littorio 


«simbolo dell’offerta del Popolo italiano al pubblico Erario»^^, 
di 140 milioni di titoli del debito pubblico in due are romane, 
appartenenti alle Terme di Diocleziano, innalzate davanti all’Al¬ 
tare della patria. Le grandi adunate per la campagna d’Etiopia, 
e in particolare la «giornata della fede», furono probabilmente il 
momento della maggiore unità di sentimenti fra il regime e gli 
italiani, l’attimo più prossimo allo stato di mistica comunione che 
il fascismo avrebbe voluto trasformare in condizione permanen¬ 
te della vita collettiva della nazione. 

L’orchestrazione della liturgia di massa non si limitava sol¬ 
tanto ai riti politici del regime, ma abbracciava tutte le manife¬ 
stazioni organizzate della vita collettiva: dalle sagre popolari allo 
sport, alle mostre. Il fascismo si appropriò delle feste tradiziona¬ 
li inserendole nel proprio sistema di miti, simboli e riti, come fe¬ 
ce, per esempio, con la «Befana fascista», istituita dal partito nel 
1928 con la distribuzione di doni ai bambini poveri per far sen¬ 
tire «attraverso il sorriso di un dono gentile, l’affettuosa premu¬ 
ra della Patria fascista»^"^. Nel 1931, la «Befana fascista» a Mila¬ 
no fu distribuita il giorno di Natale, in nome del duce, e fu per 
questo ribattezzata «Natale del Duce», come parte di «un vasto 
programma di assistenza invernale»^^. Lo zelo staraciano per la 
riforma delle abitudini borghesi, non consone con il culto del lit¬ 
torio, si spinse, alla fine degli anni Trenta, fino ad emanare cir¬ 
colari che vietavano gli scambi d’auguri il primo dell’anno, es¬ 
sendo l’inizio dell’«anno fascista» il 29 ottobre, e circolarono per¬ 
sino voci sulla possibile abolizione del Capodanno, sulla scia, si 
diceva della «Germania anticattolica, che sposta e snatura il Na¬ 
tale cristiano con la sua nuova religione della natura»’^. In realtà, 
il fascismo non si spinse mai, nonostante le sollecitazioni degli 
ammiratori della Germania nazista, verso questa direzione, an¬ 
che se, col suo metodo di assimilazione sincretica, incorporò nel 
culto del littorio tutto il complesso delle manifestazioni di vita 
collettiva già esistenti, veicolando i miti della religione fascista per 
vie meno politicamente caratterizzate, e per questo più adatte ad 

Il rogo simbolico, in «Il Popolo d’Italia», 28 ottobre 1928. 

Una circolare di S.E. Turati, in «Il Popolo d’Italia» 15 gennaio 1929. 

Cfr. «Il Popolo d’Italia», 12 dicembre 1931. 

ACS, MI, Divisione polizia politica 1927-1944, b. 220, rapporto da Ro¬ 
ma, 2 gennaio 1939. 


JV. Liturgia dell’«armonico collettivo» 


157 


influire sulla mentalità delle masse diffidenti o recalcitranti ai 
messaggi sfacciatamente ideologici. 

Di simbolismo fascista furono permeate anche le sagre tradizio¬ 
nali della vita rurale, come la «festa dell’uva», che si celebrava l’ulti¬ 
ma domenica di settembre, rilanciata dal regime per «propaganda- 
re fra le masse il consumo dello squisito e saluberrimo frutto della 
vite»"^®, in favore della produzione nazionale. La sagra dell’uva di¬ 
venne un’occasione per esaltare la romanità del fascismo, che re¬ 
staurava l’italianità delle «feste dei raccolti» rievocando, con spirito 
di identità, «le tradizioni sane della terra e della fecondità», che «vin¬ 
cono il tempo e ricongiungono le nuove razze che creano e rico¬ 
struiscono a quelle antiche del Mediterraneo, la cui legge fu appun¬ 
to di costruire e produrre nella realtà»: la festa dell’uva, secondo 
l’organo dei giovani fascisti, era «molto simile a quella dei Romani i 
quali non ammettevano mescolanze barbariche nei loro riti e non 
volevano che contaminazioni orgiastiche guastassero le gioiose feste 
della vendemmia»'’^ Nella rappresentazione fascista, questa festa, 
come altre manifestazioni legate alla produzione agricola e al lavoro 
contadino, non era solo «una colorita e gioconda dimostrazione fol¬ 
cloristica, ma l’espressione sana e vigorosa della vita dei campi, del¬ 
la serena gioia del lavoro agricolo, della feracità lussureggiante dei 
nostri vigneti»"^^. Promossa dal regime come «rito gioioso e solen¬ 
ne», che aggiungeva un «alto valore simbolico» alla sua importanza 
mercantile, abbattendo le barriere «tra officina e vigna, tra vivere 
cittadino e vita rustica», anche la sagra dell’uva portava il suo con¬ 
tributo alla liturgia per r«armonico collettivo», come «grande festa 
autunnale di tutta la nazione» celebrata collettivamente aU’aperto"^^. 

Il fascismo alimentava il culto delle tradizioni legate alla na¬ 
tura e alla vita dei campi, ma non ebbe, come il misticismo ro¬ 
mantico nazista, una «religione della natura»"***: la natura, nel cul- 

L’uva, in «Il Popolo d’Italia», 27 settembre 1931. 

M.S., Spirito rurale, in «Gioventù fascista», 30 settembre 1932. 

Il Duce alla festa dell’uva a Roma, in «Il Popolo d’Italia», 29 settembre 

1931. 

Rustico, 'Vendemmia in città, in «Il Popolo d’Italia», 21 settembre 1932. 

Cfr. G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, trad. it. di F. Saba- 
Sardi, Milano 1968, pp. 27 sgg.; R.A. Pois, Nationalsocialism and thè Religion 
of Nature, London 1986. Sul «mito della terra» nel fascismo, cfr. P.G. Zunino, 
L’ideologia del fascismo, Bologna 1985, pp. 300-309. 





158 


Il culto del littorio 


to del littorio, è la natura domata, redenta e fecondata dal lavo¬ 
ro dell’uomo. Nella sfilata di 207 carri per la «festa dell’uva» del 
1931 a Roma, alla presenza del duce, passò tra i primi un grup¬ 
po di carri della bonifica di Maccarese, che simbolizzavano be¬ 
ne questa idea della natura, rappresentando r«opera di reden¬ 
zione»: il primo carro riproduceva un frammento della palude, 
irta di canneti e giunchi, insidiata dalla malaria; gli altri raffigu¬ 
ravano le varie fasi di progresso nei lavori di bonifica, fino al¬ 
l’ultimo «che offre la visione stupenda di una vendemmia allie¬ 
tata dall’opulenza dei grappoli e dalla festosità delle pingui bot¬ 
ti»'*^. La natura, in quanto tale, non era parte della religione fa¬ 
scista, ma vi era presente come uno degli scenari per la celebra¬ 
zione dei suoi riti: «La vita nuova della nuova Italia deve essere 
tolta al chiuso in cui ammuffiva ed immiseriva quella di un tem¬ 
po e portata nelle aperte vie arieggiate e soleggiate. Muoversi fi¬ 
sicamente vuol dire, per molti, muoversi spiritualmente»'^^. 

L’esaltazione fascista delle forme di vita collettiva all’aperto 
incoraggiava la intensa e diffusa promozione delle attività ginni¬ 
che e sportive, poste anch’esse al servizio della «propaganda del¬ 
la fede» perché, come spiegava nel 1926 la commissione incari¬ 
cata di elaborare un progetto per l’educazione fisica e per la pre¬ 
parazione militare del paese, il «culto del vigore fisico si connet¬ 
te sempre con quello della patria, e dove sorge ideale di riscatto, 
di redenzione nazionale, subito si manifesta l’amore per gli eser¬ 
cizi fisici»*’^. Il regime impiegò cospicue risorse per incrementa¬ 
re la pratica della ginnastica e dello sport, finanziando la costru¬ 
zione di palestre, stadi, colonie, che divennero, anche questi, luo¬ 
ghi dove si praticava il culto della sanità fisica come parte inte¬ 
grante del culto del littorio nell’opera di educazione delle masse 
e di formazione deir«italiano nuovo», preparando il fisico e tem¬ 
prando il carattere del cittadino virile e virtuoso, credente e com¬ 
battente per la patria. Uno dei primi esempi di stadio fascista fu 
il «Littoriale» di Bologna, sorto nel 1927 per iniziativa di Lean¬ 
dro Arpinati, capo fascista locale, al quale «Il Popolo d’Italia» at- 

Il Duce alla festa, cit. 

A. Toni, Il Littoriale polisportivo, in «Il Popolo d’Italia», 28 agosto 1926. 

Commissione per lo studio di un progetto relativo all’ordinamento del¬ 
l’educazione fisica e della preparazione militare del Paese, Relazione e Propo¬ 
ste, Roma 1926, p. 8, cit. in P. Ferrara, L’Italia in palestra, Roma 1992, p. 214. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo>. 


159 


tribuiva un temperamento di «visionario e di pratico che è in ogni 
propiziatore e propugnatore di religioni laiche e chiesastiche»**^. 
Una statua equestre del duce campeggiava aU’interno dell’anfi¬ 
teatro bolognese per eternare l’evento del discorso che nel 1926, 
dall’alto di un cavallo. Mussolini aveva rivolto a cinquantamila 
camicie nere raccolte «nel nudo vaso ellittico del Littoriale, ap¬ 
pena tracciato, come popolazione romana entro il solco della 
città disegnata nel futuro». Nel più grandioso complesso archi- 
tettonico sportivo costruito dal fascismo, il Foro Mussolini, un 
alto monolite di marmo su cui era inciso il nome del duce, do¬ 
minava il vasto piazzale dell’ingresso, per «proiettare nel futuro 
l’epoca e il nome di Mussolini»*^. Renato Ricci, presidente del- 
rÓNB, aveva concepito anche più grandiosi progetti di esalta¬ 
zione del culto del littorio, come una grande statua del fascismo, 
in bronzo, che avrebbe fatto «impallidire il ricordo del leggen¬ 
dario Colosso di Rodi», come scrisse egli stesso al duce. La sta¬ 
tua, tre volte più alta della statua della Libertà, doveva sorgere 
su un’area vasta cinque volte piazza Venezia, denominata «Aren¬ 
go della nazione» esteso su 120.000 mq. e capace di contenere 
300.000 persone. Il progetto, già messo in opera di realizzazio¬ 
ne, fu però abbandonato per il sopraggiungere della guerra d’E¬ 
tiopia e delle sanzioni^^. 

Incoraggiando lo sport, che mirava a «creare la passione nelle 
masse e non già a creare esclusivamente i campioni»^*, il fascismo 
inquadrava anche questa attività nel progetto totalitario di mobi¬ 
litazione collettiva, per vincere la mentalità dell’isolamento priva¬ 
to ed infondere nelle masse il senso della «comunione umana»^^, 
pur incoraggiando, nello stesso tempo, l’agonismo sportivo come 
preparazione al conseguimento del primato nelle competizioni in¬ 
ternazionali. Per il fascismo, lo sport era «da esaltarsi quale auten¬ 
tico servizio e dovere civico» che doveva praticare «il buon citta- 

Toni, Il Littoriale polisportivo, cit. 

C.R. Maccaroni, La «colonna del Duce» verso il mare di Roma, in «Il Car¬ 
lino della sera», 16 gennaio 1929, cit. in S. Setta, Renato Ricci, Bologna 1986, 
p. 159. 

Cfr. Setta, Renato Ricci, cit., pp. 159-165. 

PNF, Atti 1931-1932, Roma 1932, circolare del 16 maggio 1932. 

P.L., La coscienza della collettività e lo sport, in «Bibliografia fascista», 
febbraio 1933. 






160 


Il culto del littorio 


dino fascista» per «essere veramente parte integrante di quel po¬ 
polo che il DUCE ha proclamato essere ‘corpo dello stato’ e coef¬ 
ficiente dinamico di quello stato che è, per la stessa alta definizio¬ 
ne, ‘spirito del corpo’»^^. L’educazione fisica e le attività sportive 
ebbero una parte preponderante nel progetto totalitario di rifor¬ 
ma del carattere, mirando principalmente alla preparazione del 
cittadino-soldato. Ma le grandi manifestazioni ginniche, special- 
mente quelle che si svolgevano periodicamente nella capitale alla 
presenza del duce, in piazza di Siena e al Foro Mussolini, erano al¬ 
trettante occasioni di celebrazione del culto del littorio. La coreo¬ 
grafia dei saggi, il movimento di massa, le sfilate, i canti corali, il 
discorso del duce costituivano il complesso simbolico e rituale di 
un evento cultuale, in cui si compiva l’autoesaltazione dell’unità 
morale e della vigoria fisica del «corpo dello Stato», si proiettava 
l’immagine di ordine, di bellezza, di potenza, di stile deir«armo- 
nico collettivo» e si contribuiva a diffondere, con la suggestione 
spettacolare, la propaganda dei miti fascisti fra le masse dei parte¬ 
cipanti e degli spettatori. 

Nessuna manifestazione collettiva del regime si sottraeva al 
compito di essere veicolo di indottrinamento e di pratica del cul¬ 
to del littorio. Persino esposizioni e mostre di qualsiasi tipo, or¬ 
ganizzate dal regime, furono arruolate per la propaganda della 
fede fascista, come avvenne specialmente durante le celebrazio¬ 
ni del Decennale, che videro il più vasto spiegamento di attività 
rituali e cerimonie di massa per esaltare i primi dieci anni di po¬ 
tere fascista - ed anche per intensificare la propaganda fra le mas¬ 
se sulle quali gravava il peso della «grande crisi», che produceva 
sintomi di crescente malcontento. Nel corso del 1932 furono or¬ 
ganizzate numerose mostre, dalla meccanica agraria alla bonifi¬ 
ca, dalla frutticultura alla panificazione, dalla celebrazione del 
cinquantenario della morte di Garibaldi alla mostra della rivolu¬ 
zione fascista, tutte ispirate però, spiegava «Il Popolo d’Italia», 
ad un criterio unico, «intonandole tutte ad una sana funzione 
educativa», trasformandole da manifestazioni di «gruppi, di ce¬ 
nacoli, di piccole accademie straniate dalla vita del popolo e vi¬ 
ziate daH’inteUettualismo e dal dilettantismo», con scopi di ca- 


R. Nicolai, Sport, in PNF, Dizionario di politica, cit., voi. IV, p. 343. 


IV. Liturgia dell'«armonico collettivo>. 


161 


ratiere «esclusivamente commerciale e pubblicitario» - in «ma¬ 
nifestazioni integrative del compito di educazione nazionale che 
lo Stato fascista si è assunto e che va svolgendo, dalle scuole ài 
campi sportivi, dalle organizzazioni giovanili a quelle dopolavo¬ 
ristiche, alle iniziative più varie, come, per dirne una d’attualità, 
quella dei treni popolari»^*^. 


Litaliano nuovo per la nuova civiltà 

Con i loro riti collettivi, i fascisti si vantavano di aver rinno¬ 
vato quella che potremmo definire Vestetica della massa: «Prima 
del fascismo, le pubbliche manifestazioni erano sommamente an¬ 
tiestetiche. Il Fascismo ha riportato nella città d’Italia quell’‘arte 
del movimento e dell’aggruppamento umano’ di cui si parla ne¬ 
gli Statuti di Fiume. I nostri cortei, quando si snodano per le vie, 
passano sotto gli archi, fanno quadrato nelle piazze, a piè dei 
campanili e delle torri, sono degni delle nostre città, e la loro bel¬ 
lezza accresce la bellezza delle pietre e dei marmi», dando al po¬ 
polo «l’amore affratellante delle ‘feste civiche’, che è poi amore 
della città, della tradizione, e quindi della patria», risvegliando 
nel popolo «l’amore della canzone improvvisa e del canto cora¬ 
le». Le celebrazioni fasciste sono «grandi celebrazioni corali»^^. 
La propaganda era solita rimarcare, ad ogni rito di anniversario 
e ad ogni festa collettiva, la differenza di stile e di spirito rispet¬ 
to ai riti del regime liberale, caratterizzati da un patriottismo abu¬ 
lico e dal terrore della foUa, con un cerimoniale commemorativo 
rivolto al passato. I fascisti sostenevano che i loro riti erano ce¬ 
lebrazioni proiettate verso il futuro, riti che scandivano le tappe 
e le conquiste di una «rivoluzione continua», che stava gettando 
le fondamenta di una «nuova civiltà»: il fascismo non era «in¬ 
tento, come le vecchie democrazie, a commemorare il passato» 
ma continuava la marcia «con lo sguardo rivolto verso l’avveni¬ 
re»; «Tutt’intorno una vecchia civiltà individualistica e libertaria 
va crollando e l’Italia è chiamata a dare nuovi ordinamenti di vi- 

Lettere romane, in «Il Popolo d’Italia», 6 luglio 1932. 

Le opinioni degli altri sul Fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 5 maggio 1922. 




162 


Il culto del littorio 


ta alle nazioni che vorranno salvarsi»^^’. Lo scenario dei riti fasci¬ 
sti si presentava con piazze colme di gente plaudente, uomini 
donne e bambini d’ogni classe, che celebrano all’unisono, in una 
mistica esaltazione, la gloria del fascismo e del suo capo. La stes¬ 
sa festa del lavoro, che aveva visto per anni protagoniste «le folle 
minacciose» ed era stata «l’incubo della classe dirigente», era sta¬ 
ta trasformata da «festa partigiana» in «festa nazionale», espres¬ 
sione del «tessuto connettivo nuovo che tiene saldamente unito 
l’organismo del nostro consorzio civile»^^. 

Il fascismo sosteneva di aver redento la folla trasformandola 
in una massa liturgica che partecipava con gioia e con fede alla 
celebrazione dei riti del regime: 

Con il Fascismo - scriveva «Gioventù fascista» a conclusione del¬ 
le celebrazioni del Decennale - la folla è divenuta armonia di anime: 
inquadramento perfetto di cittadini e partecipazione attiva di essi al¬ 
la grande vita dello Stato [...] Le vie di Roma erano traboccanti di 
questa folla nuova: nel suo ondeggiare pareva che si sollevasse l’am¬ 
pio respiro del Fascismo. Appariva in una figurazione simbolica co¬ 
me la vasta e solida base di una piramide al cui vertice, come forma 
unica e dominante, fosse Mussolini. [...] E non era folla trascinata da 
allucinazioni di carattere demagogico-romantico, ma quella consape¬ 
vole di sé, del suo ubbidire, del suo credere e del suo combattere; fol¬ 
la dallo sguardo sicuro e sereno, fiduciosa ormai in un Capo, in uno 
Stato e in una nobile passione ogni dì sempre più viva: il Fascismo. 
Non collettività senza volto, maschera ordinata di spiriti educati al¬ 
l’epica dei nuovi tempi: non massa amorfa, ma amalgama di valori e 
di fresche intelligenze.^^ 

NeU’esaltazione del rituale e del simbolismo, come manife¬ 
stazione della fede, rientra anche la mania fascista per lo stile e 
la riforma del costume, che imperversò dalla fine degli anni Ven¬ 
ti, soprattutto sotto la segreteria di Starace, e persino negli ulti¬ 
mi giorni di agonia del fascismo, prima del crollo. Il regime, con 
tutte le sue organizzazioni e a tutti i livelli della gerarchia, si de¬ 
dicò con meticolosa pignoleria alla campagna per la riforma del 

Ritorno ideale, in «Il Popolo d’Italia», 23 ottobre 1931. 

” A. Mussolini, La celebrazione, in «Il Popolo d’Italia», 23 aprile 1925., 
M. Scaligero, La folla, in «Gioventù fascista», 10 novembre 1932. 



Fig. IO. Discorso di Mussolini a Bologna, il 24 ottobre 1936 (ACS). 







164 


Il culto del littorio 


costume. Oltre agli aspetti indiscutibilmente risibili, la questione 
dello stile aveva motivazioni complesse, riconducibili all’impor¬ 
tanza che il fascismo attribuiva alla liturgia nella creazione 
dell’«uomo nuovo». Alla vigilia della «marcia su Roma» Musso¬ 
lini aveva accusato la democrazia di aver «tolto lo stile alla vita 
del popolo» mentre «il fascismo riporta lo ‘stile’ nella vita del po¬ 
polo, cioè una linea di condotta; cioè il colore, la forza, il pitto¬ 
resco, l’inaspettato, il mitico»^‘^. «Senza simbolo», ripetè dieci an¬ 
ni dopo, «la vita sarebbe casuale, indifferenziata»^®. Il fascismo, 
spiegava un pedagogo del regime, proprio per la sua natura di 
movimento religioso, aveva ridato lustro e vigore ai miti, ai sim¬ 
boli, ai riti, riportando lo stile nella politica di massa. Lo stile, co¬ 
me espressione di ordine e disciplina animati da una fede, era un 
segno di vittoria sul caos e sull’incertezza, in un mondo uscito 
profondamente sconvolto dalla tragedia della guerra, sospeso fra 
un’epoca in crisi e una nuova epoca, che stentava a definirsi, tra¬ 
vagliato da gravi crisi economiche e morali, sovrastato dall’in¬ 
combente incubo di precipitare nuovamente nel caos: «Lo stile 
mette le anime sotto l’influenza della nobilita dello spirito»^h Lo 
stile, così inteso, era concepito come una espressione della reli¬ 
gione fascista: era, si può dire, la religione tradotta in costume, 
testimonianza vivente della sua etica, regola, «ascesi», perché 
«quando parliamo di stile fascista tutti intendiamo una vittoria 
dello spirito [...] Che cos’è infatti lo stile fascista se non la defi¬ 
nizione rigorosa data con i fatti della dottrina fascista?». Ancora 
una volta, i fascisti seguivano nella loro politica il modello della 
Chiesa: «Una cerimonia religiosa, la celebrazione di un rito, so¬ 
no essenzialmente definizioni; ossia attaccamento visibile alla 
propria fede e pubblica professione di essa [...] Con lo stile, con 
le cerimonie, con i riti fascisti la politica passa dal definitorio al¬ 
l’umano, al vivente, e diviene dispcnsatrice di gioia»®^. 

Nell’organizzazione del culto del littorio, l’orchestrazione de¬ 
magogica e il fanatismo missionario dei fascisti si coniugavano 
con quella che potremmo definire una «passione per la foUa», in 


Mussolini, Opera Omnia, cit., voi. XVIII, p. 438 (discorso pronunciato 
a Milano il 4 ottobre 1922). 

Ludwig, Colloqui con Mussolini, cit., p. 190. 

Padellaro, Fascismo educatore, cit., p. 154. 

62 Ivi, pp. 156-157. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo» 


165 


cui la manipolazione dell’opinione pubblica, la ricerca del con¬ 
senso, il gusto estetico per «l’arte delle grandi parate collettive»®^, 
appaiono ispirate da una volontà di potenza protesa ad agire sul 
corpo sociale per plasmarlo, trasformarlo e creare da esso, come 
opera d’arte, un «armonico collettivo», secondo la formula mus- 
soliniana, per farne cioè un corpo politico con una sola fede e 
una sola morale, tutto interamente dedito allo Stato divinizzato. 
Questa volontà di potenza volta a plasmare la massa, che era al¬ 
la base della politica totalitaria fascista, aveva origine dalla cul¬ 
tura politica rivoluzionaria e dall’esperienza della guerra: «Ognu¬ 
no di noi - scriveva Bottai nel 1918 - è stato o duce o gregario, 
plasmatore di vita, adunatore di energie piane, mature»®"*. Mus¬ 
solini amava paragonare la politica all’arte e definiva il politico 
un artista che plasma la materia umana. In ogni fascista, da Gio¬ 
vanni Gentile ad Achille Starace, dal duce all’ultimo dirigente 
nella scala della gerarchia di partito, vibrava l’ambizione di un 
«plasmatore di vita». L’idea di «plasmare la massa», versione fa¬ 
scista del mito rivoluzionario della rigenerazione morale, era os¬ 
sessivamente presente nella politica di Mussolini e dei fascisti: 

L’epoca del Fascismo sarà veramente iniziata il giorno in cui avrà 
plasmato tutto il popolo, esaltandolo nella sua fede e ingigantendolo 
nelle sue speranze. 

Perché ciò sia possibile, perché il Fascismo conquisti e prenda, si¬ 
no nel profondo, le coscienze e la volontà degli Italiani, è necessario 
che esso crei la sua atmosfera ed il suo ambiente, è necessario che po- 
tenzii, sino nelle più riposte energie, tutte le forze della nazione [...] 

E opera di titani, ma è opera da compiere, quella che tocca agli 
uomini migliori della Rivoluzione fascista: bisogna vagliare alla lente 
del fascismo tutte le opere artistiche e le correnti culturali del passa¬ 
to, bisogna ricreare, con la religione politica e nella religione politica 
che pratichiamo ogni giorno, il mondo come lo sentiamo noi e come 
lo viviamo noi, bisogna piegare le realtà dei tempi che furono alla 
realtà del nostro tempo: più alta, più chiara e più vera perché parte 
di noi e più vicina a noi, perché noi stessi!®^ 

6 ^ Toni, Il Littoriale polisportivo, cit. 

^ G. Bottai, Fine della guerra, in «Mei», 28 novembre 1918, riportato in Id., 
La politica delle arti. Scritti 1913-1913, a cura di A. Masi, Roma 1992, p. 59. 

6 ’ S. Gatto, Di fronte al passato, in «Il Raduno», maggio 1928, riportato in 
Id., 1925. Polemiche del pensiero e dell’azione fascista, Roma 1934, pp. 61-62. 




166 


Il culto del littorio 


Ancora una volta, senza rendersene probabilmente conto, i fa¬ 
scisti calcavano le orme della rivoluzione francese, ripetendo for¬ 
mule di pedagogia politica ispirate all’idea della rigenerazione mo¬ 
rale del popolo, alla concezione dello Stato educatore, al mito 
dell’«uomo nuovo», alla sacralità della patria, alla «passione del¬ 
l’unità», secondo l’efficace espressione di A. Mathiez, traducendo 
la religione civile di Rousseau nella versione di un moderno totali¬ 
tarismo, che non credeva nella bontà naturale dell’uomo e nella 
sua perfettibilità, nel senso di una progressiva emancipazione ver¬ 
so una coscienza libera e razionale, ma credeva nella plasticità del 
carattere, come espressione di tradizione storica, costume, cre¬ 
denze e moralità di un popolo. Lo Stato, con la suggestione del mi¬ 
to, la forza morale di una fede e l’influenza pedagogica della litur¬ 
gia, aveva il potere di agire sul carattere dell’uomo e trasformarlo. 
Il fascismo, ereditando l’assillo dei padri fondatori dell’Unità per 
il problema di «fare gli italiani», era determinato a compiere l’im¬ 
presa, convinto di possedere gli strumenti per operare questa tra¬ 
sformazione, a cui esso legava il suo stesso futuro, riformando il ca¬ 
rattere degli italiani, rigenerandoli dai loro difetti, forgiando un 
popolo nuovo, virtuoso e virile, di «cittadini soldati». Nel proget¬ 
to visionario di una «metanoia» collettiva, che il regime perseguì 
con sempre più ostinata determinazione e intransigente fanatismo 
negli anni Trenta, il fascismo si presentava non più come interpre¬ 
te della nazione, ma come creatore di una nazione nuova: «Sotto il 
regime nasce la nazione [.,.] il Fascismo crea il costume, dal quale 
nasce la nazione, la nazione fascista»^^. E tutte le organizzazioni 
del regime, dal partito all’Opera nazionale dopolavoro, alle orga¬ 
nizzazioni giovanili, come l’Opera nazionale Balilla e i Fasci gio¬ 
vanili, fuse nel 1937 in un’unica organizzazione, la Gioventù ita¬ 
liana del littorio, si applicarono con zelo nell’opera di indottrina¬ 
mento delle masse e delle nuove generazioni secondo gli ideali, i 
dogmi e l’etica della religione fascista per realizzare la riforma del 
carattere. Anche la cultura fu mobilitata per l’impresa, perché la 
«cultura fascista deve essere vita ed espressione di vita; deve crea- 

Il divenire del Regime, in «Il Legionario», organo dei Fasci italiani all’e¬ 
stero, 10 settembre 1927. Sull’idea fascista di nazione, cfr. Gentile, Le origini 
dell’ideologia fascista cit., pp. 149-154; Zunino, L’ideologia del fascismo cit., pp. 
192-202. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


167 


re un tipo d’uomo, l’uomo nuovo, l’uomo intero: simile nella fa¬ 
miglia, nella società, nello Stato»^"^. E la scuola fu, naturalmente, 
uno dei campi dove più intensamente e assiduamente si esercitò la 
«propaganda della fede» attraverso l’indottrinamento catechisti- 
co della religione fascista, che impregnava di sé tutte le materie di 
insegnamento, e la continua pratica liturgica per celebrare riti del¬ 
la patria e della rivoluzione: 

le aule scolastiche sono una esposizione variopinta di tutta la chinca¬ 
glieria fotografica e simbolica del regime - scriveva un informatore 
del partito comunista in un rapporto sul problema della scuola all’i¬ 
nizio degli anni Trenta -. Studiare non importa, importano le parate, 
le divise, i distintivi, i campi ufficiali. 1 maestri seri e dignitosi fre¬ 
mono e sono travolti [...] Il regime dichiara di volere pochissimi «uf¬ 
ficiali della cultura», alcuni sergenti e caporali indispensabili, e vuo¬ 
le rendere impossibile l’elevazione culturale e l’avvenire delle grandi 
masse popolari, per cui la scuola primaria è ridotta ad una palestra di 
propaganda addormentatrice di coscienze [...] 

Così per effetto della vietata discussione e del sospetto politico 
che incombe sugli spiriti nella scuola, è andato sommerso anche quel 
poco di buono che la riforma [Gentile] poteva contenere. Oggi un 
problema solo domina l’indirizzo educativo: la fascistizzazione della 
scuola. Non importa se questo problema è espresso dagli uomini del 
regime con i vocaboli: «plasmare, sagomare, forgiare», in aperto con¬ 
trasto con il concetto che dell’educazione dice di professare l’attuali¬ 
smo gentiliano; importa che la scuola sia strumento di propaganda 
politica, di dominio politico.^* 

Il regime cercò di intensificare sempre più il suo intervento 
plasmatore sulle masse, escogitando sempre nuove forme di mo¬ 
bilitazione e di propaganda. Nel 1932 furono istituiti i «raduni 
domenicali» dove gli oratori incaricati dal partito esercitavano in 
ogni paese r«apostolato propagandistico»^’^, esponendo alle mas¬ 
se «idee e fatti sull’etica fascista»^®, vantando i meriti della poli- 

S. Gatto, Della cultura fascista, in «Bibliografia fascista», maggio 1926, 
riportato in Id., l^25 cit., pp. 63-65. 

APC, 907/2. 

Ritorno all’apostolato, in «Il Popolo d’Italia», 24 giugno 1932. 

Entusiastica partecipazione di popolo ai raduni di propaganda, in «Il Po¬ 
polo d’Italia», 24 maggio 1932. 






168 


Il culto del littorio 


dea del regime, ascoltando i lamenti dei lavoratori per le ristret¬ 
tezze economiche, e lasciando loro la promessa che avrebbero 
«fatto presente a chi di dovere in Roma [...] le varie necessità del 
paese»^h Nel 1935 venne istituito il «sabato fascista», in relazio¬ 
ne alla applicazione della settimana lavorativa di 40 ore: il po¬ 
meriggio del sabato rimasto libero doveva essere dedicato «all’e¬ 
ducazione politica e all’addestramento militare delle organizza¬ 
zioni del Regime»^^. In tal modo le due principali attività peda¬ 
gogiche per la formazione deir«uomo nuovo» avevano il loro 
giorno di celebrazione, acquistando così, come affermava l’orga¬ 
no dei giovani fascisti, «un crisma di religiosità, i cui influssi non 
potranno non riverberarsi nella concezione ch’ogni fascista deve 
avere della sua vita»: si sarebbe così debellato «qudVanalfabeti¬ 
smo politico ch’era tutt’uno con Vanalfabetismo fisico. Si comin¬ 
cia a comprendere che italiano vuol dire fascista, e che fascista 
vuol dire uomo integraleyp^. 

E più che probabile che la crescente invadenza della pedago¬ 
gia totalitaria nella vita degli italiani suscitasse resistenze e rea¬ 
zioni contrarie, specialmente fra i ceti che meno si identificava¬ 
no con i miti del fascismo e meno erano disposti a lasciarsi inte¬ 
grare nella comunità totalitaria. Da più parti pervenivano al ver¬ 
tice del potere le segnalazioni di malcontento e di insofferenza. 


ACS, MI, DGPS, cat. Gl, b. 60, riassunto del discorso pronunziato dal- 
l’on. Mario Jannelli nel raduno di propaganda a Monti, il 29 maggio 1932. La 
prova di questi «raduni» non sembra abbia dato gli effetti sperati, a giudicare 
dai commenti degli informatori del partito: «Non vi è dubbio - riferiva per 
esempio un fiduciario da Roma il 6 luglio 1932 - che ai ‘raduni’ svoltisi in tut¬ 
ta Italia, vi abbiano partecipato immense folle, ma tali ‘raduni’, per i risultati 
ottenuti, erano necessari? Con questi ‘mezzi’ i dirigenti credono di poter pe¬ 
netrare nel popolo? o i dirigenti del Partito si credono soddisfatti solamente 
per l’esteriorità e cioè del concorso delle folle ai ‘raduni’?» (ACS, PNF, SPEP, 
b. 19, fase. «Roma»). Simile il commento della federazione fascista di Pistoia: 
«I raduni di propaganda svoltisi nel corrente mese sono stati, come i prece¬ 
denti, contrassegnati da scarso concorso di popolo, un po’ per difetto di orga¬ 
nizzazione da parte dei gerarchi locali ed un po’ perché le conferenze a base 
di elevate argomentazioni politiche destano nei centri rurali scarso interesse e 
sono ordinariamente poco accessibili alla mentalità delle masse degli agricol¬ 
tori, sull’animo dei quali incombe il problema della vita quotidiana, che U tem¬ 
po va sempre più inasprendo per il perdurare della crisi» (ACS, PNF, SPEP, 
b. 15, fase. «Pistoia», relazione del giugno 1932). 

72 D.l. 20 giugno 1935, n. 1010. 

7^ R.N., Sabato fascista, in «Gioventù fascista», 30 marzo 1935. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


169 


dovuti anche al peggioramento della situazione economica e alla 
crescente ansia e al timore per le minacce di guerra in Europa, 
verso l’accelerazione totalitaria che il regime aveva impresso alla 
mobilitazione di massa: 

Si critica da molti, sento dire - riferiva un informatore della poli¬ 
zia da Firenze il 5 gennaio 1939 -, che il Regime Fascista abbia in¬ 
quadrato in organizzazioni varie tutte le categorie di cittadini e ten¬ 
da sempre più a ridurli e controllarne ogni attività. Si rileva che que¬ 
sto voler inquadrare l’attività degli individui in ogni campo ne sop¬ 
prime ogni libertà e ne soffoca ogni iniziativa e perciò gli individui 
stessi mal tollerano le limitazioni che loro vengono imposte e l’inge¬ 
renza del Regime in tutti i campi, specialmente in quelli nei quali non 
ritengono tale ingerenza giustificata. Onde si dice che questo è un si¬ 
stema di compressione che diventa sempre più insopportabile. 

Ora tutti sopportano e non manifestano apertamente la loro con¬ 
trarietà per timore; ma si pensa che in caso di eventuale insuccesso 
che dovesse scuotere la saldezza del Regime si potrebbe avere una 
violenta reazione a questa compressione.’^* 

E, tuttavia, non mancano neppure segni diversi, i quali mo¬ 
strano come la politica totalitaria riuscisse anche a veicolare fra 
le masse la sua ideologia: «Il fascismo - riferiva un militante co¬ 
munista alla fine del 1932 - è riuscito a influenzare buona parte 
della massa colla sua ideologia e solo combattendo nei suoi or¬ 
ganismi e ivi smascherandolo, noi riusciremo a far comprendere 
agli operai che essi sono stati ingannati»’^. Alla influenza fasci- 


7^ ACS, MI, Divisione polizia politica 1927-1944, b. 220. Sugli effetti nega¬ 
tivi di questa continua mobilitazione un fiduciario del PNF nel 1932, riferiva il 
commento di uno scrittore definito «profondo osservatore», il quale riteneva tra¬ 
montata l’epoca dei discorsi: «ormai si sente nell’aria una stanchezza significati¬ 
va perché i ‘raduni’ e ‘i comizi’ hanno un vizio d’origine e non noto forse ai diri¬ 
genti del Partito e cioè quello della coercizione, dell’improv\àsazione, della mi¬ 
naccia, che i piccoli ras della provincia fanno per poter presentare sempre una 
folla, una grandiosa folla pronta ad applaudire al primo segnale del piccolo ras. 
Si abusa troppo di queste adunate, commemorazioni, raduni, comizi: ogni anni¬ 
versario, ogni piccolo avvenimento si sfrutta con parate d’obbligo, ed è questo 
che annoia, stanca e provoca recriminazioni. Fin che si tratta di giovani le para¬ 
te militari possono piacere; ma agli uomini, ai veri lavoratori?» (ACS, PNF, 
SPEP, b. 19, fase. «Roma», rapporto del 6 luglio 1932). 

75 APC, 1028/3. 





170 


Il culto del littorio 


Sta erano esposti soprattutto i giovani: «forza fresca dei popoli, 
fermento di nuova vita, speranza del domani [...] sono assediati, 
accaparrati dal regime, che si [sic!] li manipola a piacimento, pri¬ 
ma nei balilla, poi negli avanguardisti, poi nella milizia, con gli 
esercizi ginnici, con tutti gli sports, con le gare, le gite, i campeggi, 
con conferenze bellicose e religiose», crescendoli così «in lieta, 
beata, animalesca incoscienza, incuranti dell’avvenire, strafotten¬ 
ti, nemici di padri, di fratelli, di compagni di lavoro»^^. La con¬ 
tinua mobilitazione collettiva per i riti del regime poteva ingene¬ 
rare sentimenti di sazietà e di insofferenza in alcuni, ma suscita¬ 
va anche in altri, idealmente più motivati, entusiasmo di parteci¬ 
pazione o quanto meno un sentimento di attrazione per queste 
forme di vita collettiva: 

Il sabato pomeriggio - scriveva nel suo diario Giaime Pintor -, in 
uniforme da militi si facevano istruzioni pratiche nel giardino dell’u¬ 
niversità. Tutte queste ore perdute e quelle che ci prendevano per 
tanti altri servizi speciali erano un motivo di recriminazioni. Tuttavia 
non rappresentavano soltanto uno spreco: furono un primo esempio 
di vita collettiva e servirono a stringere qualche legame. I maggiori fa¬ 
stidi durante l’anno furono delle mobilitazioni indette per lo studio 
del «passo romano» (era l’epoca in cui sotto Starace il regime si era 
preparato per «incidere sul costume») per la venuta di Hitler a Ro¬ 
ma. Per giornate intere fummo sequestrati alla vita civile e condotti a 
esercitazioni nei sobborghi di Roma. Lunghissime attese, controordi- 
ni, tutto il complesso di inerzia e di fatica delle organizzazioni si ri¬ 
velò in quei giorni e contribuì a creare la prima leggenda. Quelle par¬ 
tenze da casa all’alba con i lattai che giravano per Roma e un freddo 
chiarore su Villa Glori, e i pomeriggi nei quartieri popolari in cui non 
restava che scherzare con le serve e mangiare gelati furono un moti¬ 
vo assai pittoresco di educazione. Ma soprattutto penetrammo inti¬ 
mamente nel complesso spettacolare dei regimi totalitari: imparam¬ 
mo a scomparire nelle decine di migliaia di uomini che prendevano 
parte alle riviste, a camminare al suono di musiche tradizionali e a go¬ 
dere della impersonalità che procura l’uniforme. 

Durante il soggiorno di Hitler a Roma non perdemmo una sola 
parata.^^ 

APC, 1138/1, lettera da Alessandria, 19 aprile 1933. 

G. Pintor, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino 1978, p. 38. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


171 


Attraverso la rete dei suoi informatori, il regime era quoti¬ 
dianamente messo al corrente sulle reazioni della popolazione di 
fronte alla costante e insistente attività di mobilitazione rituale, e 
certamente non ignorava gli effetti negativi che questa provoca¬ 
va. Non per questo però fu indotto a desistere, a concedere tre¬ 
gua e respiro, evitando così di far salire la marea dello sconten¬ 
to e dell’irritazione. Per la sua logica totalitaria, e per la sua na¬ 
tura di religione politica, il fascismo in realtà non poteva rinun¬ 
ciare a proseguire, e persino ad intensificare, la sua opera di pro¬ 
paganda e di mobilitazione, soprattutto per combattere Vindiffe¬ 
renza e la fuga nella vita privata, sempre convinto che fosse 
necessaria una lunga e pressante opera di ortopedia del caratte¬ 
re, come potremmo definirla, per poter formare r«italiano nuo¬ 
vo». Il fascismo, scrisse dopo la caduta del regime un deluso cre¬ 
dente nella «mistica fascista», condannava gli italiani all’entusia¬ 
smo^®. E ciò avveniva, a dispetto d’ogni reazione contraria, non 
solo per amore dello spettacolo ma per poter attuare il progetto 
totalitario di conversione dell’individuo e delle masse al culto del 
littorio. Riti, feste, sagre, adunate, manifestazioni sportive, radu¬ 
ni erano concepiti come strumenti di formazione graduale ma 
continua del senso dell’«armonico collettivo» nelle masse: «Le 
grandi manifestazioni periodiche [...] sono utilissime, indispen¬ 
sabili proprio allo scopo di instillare in tutti il senso di questo 
moto progressivo, la necessità dello sviluppo di quelle virtù civi¬ 
li che il Fascismo ha creato nella Nazione»"^^. I riti austeri e mar¬ 
ziali degli anniversari rivoluzionari erano simboli di forza e di¬ 
sciplina; le sagre della produzione celebravano la laboriosità del¬ 
la stirpe e la collaborazione delle classi; le feste di solidarietà era¬ 
no la prova della cura del regime per i poveri; le grandi adunate 
consacravano l’unione del popolo col regime e col duce; le ceri¬ 
monie funebri per i caduti facisti e per gli uomini rappresentati¬ 
vi del regime erano la testimonianza della immortalità del cre¬ 
dente fascista nella vita perenne dello Stato totalitario. Ma il mo¬ 
tivo ispiratore di tutto il rituale fascista era il mito della comu¬ 
nità totalitaria di un popolo unito da una fede. La «fede» veniva 

M. Rivoire, Vita e morte del fascismo, Milano 1947, p. 141. 

Il Duce assiste al saggio ginnico degli avanguardisti, in «Il Popolo d’Ita¬ 
lia», 10 settembre 1932. 




172 


Il culto del littorio 


ad assumere così il valore di unico fattore egualitario in una so¬ 
cietà che manteneva le sue divisioni sociali, pur proclamando il 
regime di voler «accorciare le distanze», in un sistema politico 
che si fondava sul principio della gerarchia. Simbolo di questo 
egualitarismo della fede voleva essere l’uniforme, la camicia ne¬ 
ra, la partecipazione comune d’ogni ceto alla celebrazione del 
culto del littorio. In questo modo, il fascismo presumeva di ri¬ 
solvere l’antitesi fra l’individuo e la massa, integrando l’individuo 
nella comunità totalitaria, trasformando la massa stessa con «la 
pratica di un costume di vita che sia realizzatore di una coscien¬ 
za della collettività», attuando «forme di vita coesiva, destinate a 
generare stati d’animo collettivi, che da momentanei debbono 
trasmutarsi in permanenti», attraverso manifestazioni di massa 
che «costituiscono una catena di forme di vita che propaganda¬ 
no il senso collettivo della vita e lo rendono substrato psicologi¬ 
co del nostro popolo»^®: 

Le adunate di popolo, lo sport di massa, la folla vivente nello sta¬ 
dio, il canto corale, il teatro di massa, i campeggi e le colonie sono 
tutte espressioni di una vita collettiva, dirette a dare alla nazione un 
senso di esistenza unitaria. Perché si può ritenere l’unitarismo come 
risultato definitivo - nazionale nel senso collettivo della vita, senso 
anche diretto a bruciare il regionalismo. 

Onde si possa costruire un arco di gente italiana, plasmata entro 
i confini come una sola anima e pronta ad una azione di universalità, 
ad un’azione d’impero. 

Per conseguire questo fine, era necessario intensificare in ogni 
aspetto della vita, specialmente delle nuove generazioni, un si¬ 
stema pedagogico collettivistico «che abbia per oggetto imme¬ 
diato la massa e non l’individuo, che tenda, più che alla creazio¬ 
ne di una pleiade di genialoidi, a dare una compagine di elementi, 
dotati di equilibrio morale, tutti portati ad un grado di prepara¬ 
zione sia pure mediocre, ma tutti atti a servire la rivoluzione e 
coscienti di essere cellule operanti dell’organismo rivoluziona¬ 
rio». E i riti del culto del littorio cooperavano con l’azione pe¬ 
dagogica dello Stato e l’irreggimentazione organizzativa del regi- 


U. Bernasconi, Vita di masse, in «Gioventù fascista», 1” maggio 1934. 


IV. Liturgia dell’«armonico collettivo> 


173 


me, per «instillare nella massa e soprattutto nell’intimo, l’inscin- 
dibile e dinamica unità dell’individuo col gruppo ed in ultima 
analisi collo Stato, che rappresenta il gruppo per eccellenza, in 
quanto esso non risponde soltanto a motivi economici, ma anche 
sociali, politici, morali, rehgiosi». 

Con la pedagogia deU’«armonico collettivo», fondata sul pre¬ 
supposto che la conversione alla fede comune nella religione fa¬ 
scista avrebbe unito moralmente, al di là della diversità di con¬ 
dizioni sociali, di possibilità economiche, di differenze di sesso e 
di età, tutti gli italiani, il fascismo riteneva di aver trovato la for¬ 
mula per risolvere, come asseriva Bottai, «il problema del popo¬ 
lo italiano [...] non certo in una formula economica, ma proprio 
nell’esaltazione delle masse affratellate e fuse in una sola volontà, 
in una sola passione, in un solo, altissimo scopo»^h e pretende¬ 
va di realizzare, sacrificando la libertà dell’individuo alla comu¬ 
nità totalitaria, anche «i sogni più affascinanti degli utopisti che 
immaginavano il popolo lieto nel lavoro, bello e gioioso nello sva- 
go»^^. In una comunità siffatta, secondo la logica totalitaria fa¬ 
scista, rifiutava di integrarsi solo chi non credeva nella sacralità 
della patria e dello Stato, chi non aveva fede e non era quindi di¬ 
sposto a sacrificare il proprio «particolare» per il bene comune: 
non solo, quindi, l’antifascista, ma anche il borghese dalla mora¬ 
lità individualistica, scettica, materialistica. La polemica antibor¬ 
ghese, che aveva sempre fatto da sottofondo alla predicazione 
della religione fascista e che divampò nella seconda metà degli 
anni Trenta, trova la sua motivazione, più che in una improba¬ 
bile volontà di abolizione delle differenze di classe, nell’ideale del 
«buon cittadino» dello Stato fascista come «individuo sociale», 
mentre r«egocentrismo dell’individuo determina la sua segrega¬ 
zione dalla compagine dello Stato: i cattivi cittadini vanno confi¬ 
nati od isolati»^^. 

Ciò implicava ulteriori alterazioni della uguaglianza di tutti i 
cittadini di fronte alla legge, oltre a quelle già compiute nella le¬ 
gislazione liberticida che aveva sancito il trapasso di regime, e po- 

** G. Bottai, Commemorazione di Francesco Paolo Michetti, discorso pro¬ 
nunciato a Francavilla a Mare il 31 luglio 1938, in Id., Politica fascista delle ar¬ 
ti, Roma 1940, pp. 153-162. 

“ Popolo sano, in «Il Popolo d’Italia», 5 luglio 1933. 

R. Pavese, Appunti di etica fascista, in «Critica fascista», 15 giugno 1933. 




174 


Il culto del littorio 


neva le premesse per qualsiasi forma di discriminazione fra cit¬ 
tadini «buoni» e cittadini «cattivi», riservandosi il fascismo Te- 
sclusivo privilegio di definire i criteri della discriminazione. A 
rafforzamento e salvaguardia della comunità totalitaria dei «buo¬ 
ni cittadini», il fascismo non escludeva per il futuro, come affer¬ 
mava nel 1927 il giornale di Mussolini, «la prospettiva più in¬ 
transigente di una nuova legislazione la quale, accogliendo gli im¬ 
perativi morali della nuova età, determini sanzioni radicali per 
chi insista nel mantenersi estraneo ai motivi elementari del vive¬ 
re fascista»''^'^. In questa prospettiva, apparirà del tutto coerente 
con la logica totalitaria del fascismo, la radicalizzazione del prin¬ 
cipio di discriminazione, fino all’adozione della legislazione an¬ 
tisemita, nel quadro delle nuove leggi per la «difesa della razza», 
nel senso di una maggiore fanatizzazione del culto del littorio. 

G. Pini, Valore della fede, in «Il Popolo d’Italia», 29 luglio 1927. 


V 

I TEMPLI DELLA FEDE 


Ma di che cosa dispone la Chiesa, per for¬ 
mare il Santo dei Santi e intorno ad esso la 
Casa di Dio? 

Di alcune sublimi verità dello Spirito, e del¬ 
la divina semplicità quotidiana del pane e del 
vino. Nel caso più raro e più prezioso, di 
qualche frammento di reliquia, che non è 
esposta visibilmente, ma la cui presenza invi¬ 
sibile è rivelata da un alone di più visibile glo¬ 
ria, disposto intorno al luogo che la custodi¬ 
sce. 

Il fascismo - con tutta la distanza che separa 
l’umano, anche eroico, dal Divino ed eterno 
- è risalito a questi grandi esempi. Come la 
Chiesa, esso ha affidato all’arte il compito di 
tradurre e glorificare in immagini fisiche, e 
pur spirituali, i fatti dello spirito. Il compito 
di concretare nella realtà questo simbolo del 
mito, toccò come era giusto, all’architettura, 
la più concreta e insieme la più simbolica del¬ 
le arti. 


M.G. Sarfatti 




Anche l’arte fu chiamata a celebrare il mito di Mussolini e 
il culto del littorio. Il fascismo riconosceva agli artisti, che non 
fossero ovviamente militanti antifascisti, libertà di ricerca e di 
espressione nel campo propriamente estetico, e si distinse dal 
bolscevismo e dal nazismo perché non volle imporre un’«arte 
di Stato»: «Dichiaro che è lungi da me - aveva detto Mussoh- 
ni visitando la Mostra del Novecento il 26 marzo 1923 - di in¬ 
coraggiare qualche cosa che possa somigliare all’arte di Stato» 
perché l’arte «rientra nella sfera deirindividuo»h Questa posi¬ 
zione agnostica fu però modificata dopo l’istaurazione del re¬ 
gime, non con l’adozione di canoni estetici ufficiali per un’«ar- 
te di Stato», ma con l’appello agli artisti per la creazione di una 
«arte fascista»: ora che l’Italia era moralmente unita, disse Mus¬ 
solini a Perugia il 5 ottobre 1926, il terreno è preparato per far 
«rinascere una grande arte che può essere tradizionalista ed al 
tempo stesso moderna. Bisogna creare, altrimenti saremo gli 
sfruttatori di un vecchio patrimonio; bisogna creare l’arte nuo¬ 
va dei nostri tempi, l’arte fascista»^. E pur continuando a non 
canonizzare ufficialmente un’estetica di Stato, il fascismo pre¬ 
cisò che solo un’arte integrata nello Stato totalitario per colla¬ 
borare alla funzione educativa delle masse poteva essere consi¬ 
derata arte fascista. Per il fascismo, nel campo dell’arte, come 
nel campo della politica, il nemico era l’individualismo che si 
sottraeva alla fusione neIl’«armonico collettivo» e generava ne¬ 
gli artisti scetticismo, neutralità, indifferenza verso lo Stato e la 
religione fascista. 


^ Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, 4 voli., Firenze 1951- 
1963, voi. XIX, pp. 187-188. 

^ Ivi, voi. }ÒQI, p. 230. 




178 


Il culto del littorio 


Lanista militante per 1’«armonico collettivo» 

Gli artisti erano esortati a disertare la torre d’avorio di un este¬ 
tismo chiuso nel culto dell’arte, a convertirsi alla fede nel fascismo, 
a divenire propagandisti del culto del littorio, partecipando alla vi¬ 
ta deir«armonico collettivo», dando il loro contributo, nel campo 
specifico dell’arte, alla rappresentazione mitica dell’epopea fasci¬ 
sta e alla creazione dei simboli e dei monumenti della «nuova ci¬ 
viltà». Gli individualismi «hanno vita breve - affermava Bottai, di¬ 
scorrendo sull’‘artista nello Stato’ - perché muoiono presto d’iso¬ 
lamento, mentre uno Stato più omogeneo, più attrezzato alla sto¬ 
ria, li coordina nel fascio delle energie collettive»^. Bottai, uno dei 
più convinti e attivi sostenitori del «compito sociale» dell’arte in¬ 
tegrata nella politica dello Stato totalitario, spiegava chiaramente 
che cosa il fascismo chiedeva agli artisti: 

Noi chiediamo all’artista dei fatti, il cui impegno morale non sia 
inferiore a quello che ogni fascista porta nell’adempimento del suo 
compito. Non gli chiediamo la cronaca illustrata dei fatti eroici del 
Fascismo: sappiamo che la nostra realtà è anche la sua realtà e vo¬ 
gliamo che l’artista legga, non nelle pagine dei quotidiani, ma nel¬ 
l’interno della propria anima umana. Questo soltanto noi chiediamo 
agli artisti: di essere attori e non spettatori, protagonisti e non coro 
nella vicenda epica, drammatica, religiosa di quest’Italia antichissima 
e nuova. Solo attraverso un atto di fede, doveroso per tutti, artisti e 
critici, arte e politica cesseranno di essere attività incongruenti per 
conciliarsi finalmente sul piano epico della storia, per suggellare più 
saldamente quella totalitaria unità di ideali, che molti poeti e molti 
artisti hanno sognato come utopia e che il Duce ha definitivamente 
fondata."* 

La libertà concessa nel campo della ricerca estetica era però 
drasticamente richiamata all’ortodossia della religione fascista 
dallo stesso Bottai quando affermava: l’artista che «voglia essere 

’ G. Bottai, L’artista dello Stato, discorso per l’inaugurazione della III Qua¬ 
driennale d’arte, 5 febbraio 1939, riportato in Id., La politica fascista delle ar¬ 
ti, Roma 1940, pp. 179-184. 

Id., Modernità e tradizione dell’arte italiana di oggi, in «Le Arti», febbraio 
1939, riportato in Id., La politica fascista delle arti, cit., pp. 89-90. 


V. 1 templi della fede 


179 


coscientemente partecipe della ideale vita italiana, riveda alla lu¬ 
ce della dottrina e della prassi fascista le proprie idee, ricostrui¬ 
sca su direttive di quelle la propria storia mentale. Condizione 
essenziale, è che in questo esame non si sostituisca una conce¬ 
zione personale a quella affermata nella politica fascista»^. Un ri¬ 
chiamo all’ortodossia, che risuonava anche d’una eco sinistra con 
il riferimento fatto da Bottai, nel pieno della campagna antise¬ 
mita, agli «inquinamenti» subiti dall’arte italiana nell’ultimo tren¬ 
tennio, a «certi artisti [...] colpiti da infezione ebraica», a «certe 
curiosità provvisorie [...] per il dadaismo, il surrealismo», da cui 
erano naturalmente immuni i «veri artisti»: degli altri, aggiunge¬ 
va Bottai, non valeva la pena occuparsi perché i «vari Cagli non 
hanno mai impegnato seriamente il giudizio della gente onesta»^. 

L’idea della funzione politica dell’arte si trova nelle origini 
stesse del fascismo. Dovere dell’artista «in quest’ora di resurre¬ 
zione nazionale», aveva proclamato un giovane scrittore fascista 
nel 1924, era di penetrare «la coscienza e la subcoscienza delle 
masse, ricercar di esse lo spirito, farlo affiorare dal complesso 
della materia di cui per tanta vicenda di anni fu prigioniero»"^. 
Nei fautori della mobilitazione politica degli artisti ricorreva 
continuamente il riferimento alle masse come principali desti¬ 
natarie della funzione pedagogica dell’arte. L’artista deir«era fa¬ 
scista», scriveva Valentino Piccoli, doveva sentire «la grandezza 
spirituale e la funzione politica dell’arte» traendo ispirazione, 
come tutti i grandi artisti della storia italiana, «dall’anelito di 
perfezione di un popolo intero, dalla coscienza della missione 
storica di questa nostra sacra Italia»**. La «stirpe» era la fonte 
dalla quale l’artista doveva attingere ispirazione per essere «nel¬ 
lo stesso tempo lo storico e il profeta del popolo dal quale na¬ 
sce», perché l’artista «è il solo che con la caratteristica sensibi¬ 
lità del proprio essere, attinge vitalità dalle sorgenti vive della 
stirpe e che può additare luminosamente le vie del futuro alla 
nazione. Quando l’animo dell’artista e l’anima del popolo sono 

5 Ivi, p. 80. 

^ G. Bottai, L’arte moderna, in «Critica fascista», P dicembre 1938, ripor¬ 
tato ivi, pp. 63-67. 

^ S. Gotta, Mistica patria, Milano 1924, p. 79. 

* V. Piccoli, I valori civili del Fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 5 giugno 
1932. 




180 


Il culto del littorio 


una cosa sola, allora viene sostanzialmente realizzata dell’arte 
nazionale»^. 

L’appello fascista agli artisti non rimase inascoltato. Si può di¬ 
scettare sull’esistenza di un’«arte fascista», ma certamente ci fu¬ 
rono artisti che operarono, in quanto artisti, per dar forma ai mi¬ 
ti del fascismo, come essi lo interpretavano e vivevano, almeno 
fino al momento in cui, di fronte al crollo dei miti in cui aveva¬ 
no creduto, si appartarono delusi o passarono nel campo del¬ 
l’antifascismo. Fu questo, per esempio, il caso di Giuseppe Pa¬ 
gano, un architetto che fu in continua polemica con il tradizio¬ 
nalismo romanistico imperante in molta architettura del regime: 
fascista dal 1920, squadrista e docente fino al 1941 nella scuola 
di Mistica fascista, passato all’antifascismo alla fine del 1942 e 
morto in un campo di concentramento nazista dopo aver rifiu¬ 
tato di aderire alla Repubblica socialeCi furono probabilmente 
artisti che risposero all’appello per opportunismo, ma altri, e non 
furono certo fra i minori artisti del loro tempo, non solo aderi¬ 
rono al fascismo perché ne accettavano l’ideologia politica, ma 
perché lo interpretarono come un nuovo senso religioso dell’ita¬ 
lianità, accettando con entusiasmo la concezione della funzione 
politica dell’arte nella creazione dello Stato nuovo. Alcuni dei 
principali protagonisti dell’avanguardia modernista furono fra i 
primi fascisti e continuarono ad esserlo anche negli anni del re¬ 
gime, perché considerarono il movimento mussoliniano un’a¬ 
vanguardia che realizzava, partendo dalla politica, il loro ideale 
di rivoluzione totale, intesa come «rivoluzione spirituale», per far 
sorgere non solo una nuova arte, ma un nuovo stile di vita, un 
«uomo nuovo»* h I miti, i simboli, i riti del fascismo apparvero 
ad Ardengo Soffici manifestazione della nuova «religiosità fasci¬ 
sta»*^, in cui si realizzava finalmente la religione secolare a lun¬ 
go agognata per la «nuova Italia». E questi artisti non disdegna¬ 
rono di teorizzare e praticare una estetica della propaganda rivol- 

^ O. Taddeini, L. Mercante, Arte fascista arte per le masse, Roma 1935, p. 46. 

Cfr. ACS, SPD, CO, fase. 515.115; G. Pagano, Architettura e città du¬ 
rante il fascismo, a cura di C. De Seta, Roma-Bari 1976. 

' ^ Una nuova prospettiva per l’analisi dei rapporti fra avanguardia moder¬ 
nistica e cultura politica totalitaria è proposta da I. Golomstock, Arte totalita¬ 
ria, trad. it. di A. Giorgetta, Milano 1990. 

A. Soffici, Fritto misto, in «Il Popolo d’Italia», 7 novembre 1922. 


V. I templi della fede 


181 


ta alla diffusione dei miti fascisti per l’educazione delle masse: 
«In ogni tempo - spiegava al duce il pittore Basilio CasceUa in 
una sua Relazione intorno all’arte quale mezzo di penetrazione po¬ 
litica - fino alla soglia della nostra epoca, l’Arte, aU’infuori e al 
di sopra di ogni discussione, ha servito esclusivamente con tutti 
i suoi mezzi alla esaltazione del Trono e dell’Altare [...] La Chie¬ 
sa ha saputo sempre servirsene per i suoi fini né mai fino ad og¬ 
gi ha derogato dalla sua tradizione; lo Stato invece ha trascurato 
questo potente mezzo, lasciando l’Arte in balia di se stessa, per 
un malinteso scrupolo di libertà». Occorreva invece servirsi del¬ 
l’arte «come di una Religione, che superi anche le divisioni di 
principii e simpatie. Istituire, mi si perdoni il paragone, una spe¬ 
cie di [organizzazione] parallela alla Propaganda Fide papale»*^. 

Gli artisti erano chiamati, come nelle grandi epoche della Chie¬ 
sa, ad illustrare ed esaltare i miti della religione fascista. Questa 
funzione non era attribuita soltanto alle arti figurative, ma a tutte 
le forme d’arte che coinvolgevano un pubblico di massa, come, in 
primo luogo, il teatro. Spettava all’Italia fascista, secondo Rosso di 
San Secondo, restituire «il valore civile religioso poetico al teatro 
inteso come elevata espressione d’un popolo»*"*, come era stato 
nella civiltà greca. Per Anton Giulio Bragaglia, alla civiltà che il fa¬ 
scismo voleva creare non poteva mancare «un alto fervore spiri¬ 
tuale religioso morale, e però anche estetico e artistico», perché «la 


ACS, PCM, Gabinetto, 1928-1930, fase. 3.2.2 n. 10227. Il progetto, pre¬ 
sentato il 14 febbraio 1930 a Mussolini, proponeva di istituire una Mostra trien¬ 
nale e un premio reale per saggi di disegno riservati ai figli di italiani all’estero fra 
i sei e i dodici anni; «accertando noi il temperamento artistico ove esso si trovi - 
concludeva CasceUa - otterremo automaticamente la penetrazione politica del¬ 
l’Idea Italiana, che si espanderà irresistibilmente, poiché l’Arte grande e piccola 
è amore e passione, che ha fatto sempre ai giovani persino abbandonare le case 
paterne. Ond’è che senza alcuno sforzo nel seno di qualsiasi famiglia o scuola noi 
avremo il nostro piccolo amico, il nostro concittadino spirituale che sarà poi il 
nostro più fedele soldato [...] Questo movimento sarà anche naturalmente l’ini¬ 
zio di un rinnovamento neUe Arti, le quali cominceranno così ad avere con un 
unico indirizzo, anche un nuovo stile di educazione per farle servire poi degna¬ 
mente aUa loro funzione politica di Propaganda ed esaltazione deU’ERA FA¬ 
SCISTA». Mussolini diede parere favorevole alla proposta, che fu presa in con¬ 
siderazione da Balbino Giuliano, ministro deU’Educazione nazionale, ma non ci 
risulta che il progetto sia stato poi realizzato. 

Rosso di San Secondo, Il teatro di domani, in «Il Popolo d’Italia», 12 
febbraio 1932. 




182 


Il culto del littorio 


religione della bellezza può bene accompagnarsi alla religione di 
Dio e dello Stato», per rispondere all’esigenza del popolo di «es¬ 
sere guidato alla luce di grandi ideali, che agiscano sugli animi co¬ 
me fede ed entusiasmo virile». Evocando il modello del teatro gre¬ 
co e romano, Bragaglia riteneva che spettasse al teatro «assumere 
questo compito meraviglioso di formare una sensibilità ed una co¬ 
scienza estetica nelle foUe»^^, A tale opera di sensibilizzazione 
estetica collettiva si dedicò l’attività teatrale dei «Carri di Tespi», 
istituiti nel 1929 dall’Opera nazionale dopolavoro, che giravano 
l’Italia tenendo spettacoli per «elevare il senso artistico delle clas¬ 
si inferiori e delle masse operaie»^^. Nel 1936, il ministero della 
Cultura popolare istituì il «sabato teatrale», sempre affidato al- 
rOND, per favorire con particolari agevolazioni economiche la 
partecipazione delle masse rurali e operaie alle manifestazioni tea- 
trali^^, mirando a realizzare, anche attraverso questa forma di spet¬ 
tacolo sociale, «quell’unità di pubblico, sulla quale si basò la gran¬ 
dezza dell’antico teatro», costruendo «un nuovo pubblico, traen- 
dolo dagli strati più diversi del popolo», coinvolgendoli nella fu¬ 
sione di una passione collettiva, come avveniva negli spettacoli 
sportivi^^. In questo senso però vi era, specialmente fra i giovani, 
chi sollecitava un maggior contenuto politico per il «teatro di mas¬ 
se». La funzione propagandistica del teatro poteva intendersi in un 
duplice senso: come «azione educativa rivoluzionaria, diretta a 
creare nel pubblico sentimenti e concetti che non sono quelli del¬ 
la società in cui l’autore teatrale agisce» oppure come «un’opera 
di rivoluzione che tenda non a creare nel pubblico la coscienza di 
un ordine nuovo» ma a far comprendere al pubblico i valori di un 
nuovo «ethos universale», che esso ha già «creato empiricamen¬ 
te». La «fede negli dei nell’antica Grecia, la religiosità medievale, 
il culto dell’Onore nel Gran Secolo Francese, costituiscono nei se¬ 
coli i vincoli da cui restava legato e unificato il popolo», e «dalla ri- 

A.G. Bragaglia, Arte fascista, in «Bibliografia fascista», marzo 1933; cfr. 
A.C. Alberti, Il teatro nel fascismo, Roma 1974. 

F. Sapori, Il fascismo e l’arte, Milano 1934, pp. 34-66. Cfr. V. De Gra¬ 
zia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, trad. it. di P. Negri, Roma- 
Bari 1981, pp. 188-190. 

R.d.l. 28 dicembre 1936, n. 2470; r.d.l. 15 dicembre 1938, n. 2207. 

1* G. Bottai, Popolo a teatro, radioconversazione dell’8 gennaio 1937, ri¬ 
portato in Id., La politica fascista delle arti, cit., pp. 211-216. 


V. I templi della fede 


183 


velazione e dalla esaltazione di queste forze nacquero il teatro gre¬ 
co, il teatro sacro medievale, il teatro di Corneille e Bacine». Se con 
il fascismo si era formato nel popolo un nuovo ethos, spettava dun¬ 
que al «teatro di masse» «la funzione politica di rivelare al popolo 
stesso la sua essenza»^^. Dando per certo che il fascismo aveva rea¬ 
lizzato una «fusione di animi, della quale i millenni non conobbe¬ 
ro l’eguale», un altro esegeta della formula mussoliniana del «tea¬ 
tro di masse» spiegava che ora l’autore poteva «attingere l’uniso¬ 
no delle masse [...] rievocando al popolo il sublime spettacolo del¬ 
l’emotiva rivoluzione» avvenuta con il fascismo^‘\ A questi criteri 
di politicità si ispirarono di fatto gli autori di testi per un teatro fa¬ 
scista, in cui rievocavano l’epopea rivoluzionaria e drammatizza¬ 
vano i miti del fascismo, presentandolo come una vera e propria 
religione. Erano, in larga parte, opere prive di valore artistico, nel¬ 
le quali predominava la rappresentazione delle vicende del fasci¬ 
smo come movimento di fede, fondato e guidato da un capo ge¬ 
niale, che aveva salvato l’Italia dal disordine e dal caos, combat¬ 
tendo contro le fazioni che avevano lacerato l’unità della patria e 
contro la degradazione materialistica del socialismo, e aveva re¬ 
dento gli italiani, unendoli come una sola famiglia, nell’armonia 
della comune patria fascista, guidandoli verso un’era di luminosa 
grandezza, al ritmo di marcia di un popolo guerriero e civilizzato- 
re. L’Italia del primo dopoguerra, le gesta squadriste, la rivoluzio¬ 
ne fascista, la politica sociale del regime, le imprese militari in ter¬ 
ra d’Africa o in Spagna costituivano generalmente lo scenario sto¬ 
rico di questi drammi, in cui i fascisti, spesso rappresentati come 
socialisti pentiti, redenti e convertiti dal «verbo» mussoliniano, 
erano l’incarnazione del Bene, uomini puri e idealisti, eredi e con¬ 
tinuatori del volontarismo risorgimentale, animati solo dalla fede 
nel fascismo e nel duce, pronti ad immolarsi per la salvezza e la 
grandezza della patria nel segno del littorio. Qualcuno di questi la¬ 
vori si concludeva con la visione del duce che si stagliava contro il 
cielo alla guida delle «camicie nere» o con l’apparizione di un lu¬ 
minoso fascio littorio, nunzio radioso dell’alba di una nuova era. I 

A. Zapponi, Funzione politica del teatro, in «Battaglie fasciste-Conquiste 
dell’Impero», gennaio-febbraio 1936. 

K.C., Concezione mussoliniana del teatro, in «Bibliografia fascista», no¬ 
vembre 1933. 




184 


Il culto del littorio 


titoli più frequenti di queste opere sono di per sé indicativi dello 
spirito epico e parenetico che ispirava il «teatro fascista»: Alba fa¬ 
scista, Aurora, Martin fascisti. Luce nelle tenebre. Verso la luce. Ri- 
generazione, Un popolo in marcia, Lltalia in cammino. Redenzione 
era il titolo di uno dei primi, brutti esempi di «teatro fascista», un 
dramma scritto da Roberto Farinacci e portato sulle scene nel 
1927^b Vi era narrata la vicenda di un socialista che, dopo essersi 
reso conto del materialismo, della mancanza di fede religiosa e del¬ 
la viltà dei suoi compagni, si pente e si converte al fascismo; ma so¬ 
lo quando viene ferito mortalmente durante la mobilitazione per 
la «marcia su Roma», versando il suo sangue per la rivoluzione fa¬ 
scista, riceve dal capo degli squadristi la tessera del partito, e vie¬ 
ne accolto come eroe e martire nella comunione squadrista. Anche 
Mussolini si dilettò a comporre, in collaborazione, drammi storici 
che avevano per protagonisti Cesare, Napoleone, Cavour, raffigu¬ 
rati come eroi solitari in lotta con il destino, fra l’incomprensione 
e il tradimento, per conseguire la loro meta di grandezza^^. 

Motivi analoghi di mitologia fascista ispirarono gli artisti che 
operavano nel campo delle arti figurative. Dalle polemiche fra le 
diverse correnti di pittori, scultori e architetti che reclamavano 
di essere riconosciuti quali autentici interpreti dello «stile fasci¬ 
sta», emerge come motivo comune il richiamo alla funzione so¬ 
ciale e politica dell’arte. E quale che fosse il loro orientamento 
estetico, volto alla ripetizione dei modelli classici della romanità 
più tradizionale o volto alla ricerca di una «modernità fascista», 
questi artisti si impegnarono con le loro opere nel propaganda- 
re la religione fascista. Lo scenario figurativo e architettonico che 
essi costruirono per la celebrazione del culto del littorio, ispira¬ 
to a contrastanti e persino opposti indirizzi estetici, può essere 
oggi variamente giudicato dal punto di vista propriamente arti¬ 
stico, ma esso era comunque coerente con il proposito di realiz¬ 
zare una monumentalità religiosa ispirata ai miti del fascismo. 

Fra gli artisti impegnati nella costruzione dell’universo sim¬ 
bolico della religione fascista forse il caso di Sironi è il più rap- 


Cfr. P. Cavallo, Immaginario e rappresentazione. Il teatro fascista di pro¬ 
paganda, Roma 1990. 

Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. 1. Gli anni del consenso 1929-1936, 
Torino 1974, pp. 31-32. 


V. I templi della fede 


185 


presentativo^^. La sua lunga attività di illustratore del giornale di 
Mussolini, di affrescatore, di architetto di mostre e di critico d’ar¬ 
te, produsse la più originale e vasta rappresentazione estetica dei 
miti e della epopea fascista, espressione di una fede tormentata 
ma convinta e cosciente, che lo portò ad aderire anche alla Re¬ 
pubblica sociale. Alla fine del 1942, nel ringraziare Mussolini per 
avergli inviato una foto dedicata «al camerata del vecchio e nuo¬ 
vo tempo», Sironi professava la sua fedeltà: «nulla poteva darmi 
maggior gioia del ’Vostro ricordo del mio ‘tempo antico’ - che 
vuol dire della mia lontana, immacolata ardentissima e totale fe¬ 
deltà. E tale rimane nel ‘tempo nuovo’, poiché se in essa è tutto 
il mio orgoglio, per essa ho vissuto e sofferto e in essa risorgono 
sempre tutte le mie più grandi speranze. Che Iddio protegga ’Voi 
e con Voi tutti noi»^"^. Sironi era presentato, da chi sollecitava 
Mussolini a nominarlo membro dell’Accademia, non solo come 
«l’unico artista che lascerà una traccia profonda della Vostra Era» 
ma come «un devoto, un fedele e un mistico»^^. Sironi era dram¬ 
maticamente affascinato e avvinto dal senso mitico del fascismo, 
legato alla sua idea di modernità, «epoca di miti grandiosi e di 
giganteschi rivolgimenti»^'’, e sentiva come missione il compito 
che era assegnato dal fascismo all’artista nella costruzione della 
«nuova civiltà»: «Oggi è tempo di fede - scriveva nel 1929 -. E 
necessario costruire»^^. Per Sironi, il fascismo era la manifesta¬ 
zione aurorale di una nuova epoca di grandezza dell’arte italia¬ 
na: l’arte fascista doveva «ricollegarsi al nostro grande passato e 
[...] riprenderne il primato»^^, proseguire «il suo grandioso svol- 

SuUa figura di Sironi, per gli aspetti qui trattati, rinviamo in particolare 
ai saggi di E. Braun, Die Gestaltung eines kollektiven Willens, in J. Harten, J. 
Poetter (a cura di), Mario Sironi (1983-1961), Cologne 1988, pp. 40-49; Id., 
Mario Sironi and a Fascisi Art, in E. Braun (a cura di), Italian Art in thè 20'* 
Century, London 1989, pp. 173-180; e ai saggi di E. Pontiggia e F. Benzi in Si¬ 
roni, Il mito dell’architettura, MUano 1990. 

24 ACS, SPD, CO, fase. 545.895. 

2 ’ Ivi, Appunto per il duce, MUano, 12 dicembre 1942. 

2 * M. Sironi, Pittura murale, in «Il Popolo d’Italia», 1” gennaio 1932, ri¬ 
portato in Id., Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, MUano 1980, pp. 
113-115. 

2^ Id., Pubblicazioni d'arte, in «Il Popolo d’Italia», 13 marzo 1929, riporta¬ 
to ivi, pp. 42-44. 

2* Id.,B^^^/fl.^ in «Il Popolo d’Italia», 31 marzo 1933, riportato ivi, pp. 143-148. 






Fig. 11. Mario Sironi, Il Duce (Bergamo, Collezione Davide Cugini). 


V. I templi della fede 


187 


gimento di toni giganteschi, quali quello classico, quello medie¬ 
vale, quello rinascimentale»^^, per far rinascere un nuovo stile ita¬ 
liano, monumentale e decorativo come la grande arte religiosa 
delle epoche classiche, espressione di miti e di simboli evocatori 
delle «complesse orchestrazioni della vita moderna»^®: e tutto ciò 
ridando prestigio e vigore alla funzione politica ed educativa del¬ 
l’arte, che era, per Sironi, funzione tipica della tradizione classi¬ 
ca della grande arte italiana. L’Italia, scriveva Sironi, «tra le altre 
insanzionabili benemerenze, ha in primo luogo questa immensa 
esperienza dell’arte, condotta attraverso e in ferrea dipendenza 
degli eventi e della vita politica»^ b E poiché il fascismo inaugu¬ 
rava nella politica una nuova epoca della civiltà italiana, l’arte do¬ 
veva vivere e interpretare questo nuovo senso della vita e propa¬ 
gandarlo fra le masse, attraverso «l’unità delle arti riconducenti 
pittura e scultura alla funzione mediterranea e solare, decorativa 
e architettonica»^^, nelle forme di una modernistica arcaicità ade¬ 
guata ad esprimere, in un’estetica severa, drammatica ed essen¬ 
ziale, «la primitività pagana e costruttiva dell’evo moderno»”. 
Un nuovo stile, spiegava Sironi, perché più che «mediante il sog¬ 
getto (concezione comunista), è mediante la suggestione del¬ 
l’ambiente, mediante lo stile che l’arte fascista riuscirà a dare nuo¬ 
va impronta all’anima popolare»’*’. Le osservazioni sironiane sul 
problema dello stile echeggiano con perfetta sintonia il proble¬ 
ma dello stile di vita, che ricorre in tutte le forme della liturgia 
pegadogica fascista: 

Il Fascismo è stile di vita: è la vita stessa degli italiani. Nessuna 
formula riescirà mai a esprimerlo compiutamente e tanto meno a con¬ 
tenerlo. Del pari, nessuna formula riescirà mai a esprimere e tanto 


Id., Antelami, in «Rivista illustrata del Popolo d’Italia», febbraio 1936, 
riportato ivi, pp. 210-213. 

Id., Pittura murale, cit. 

Id., Antelami, cit., p. 211. 

Id., Ragioni d’artista, in Dodici tempere di Mario Sironi, Milano 1943, ri¬ 
portato ivi, pp. 248-251. 

Id., Il Maestro, in «Il Popolo d’Italia», 13 marzo 1931 (dedicato allo scul¬ 
tore Adolfo Wildt). 

M. Campigli, C. Carrà, A. Funi, M. Sironi, Manifesto della pittura mu¬ 
rale, in «La Colonna», dicembre 1933, riportato in Sironi, Scritti editi e inedi¬ 
ti, cit., pp. 155-157. 












188 


Il culto del littorio 


meno a contenere ciò che si intende qui per Arte Fascista, cioè a di¬ 
re un’arte che è l’espressione plastica dello spirito Fascista. 

L’Arte Fascista si verrà delineando a poco a poco, e come risul¬ 
tato della lunga fatica dei migliori. Quello che fin d’ora si può e si de¬ 
ve fare, è sgombrare il problema che si pone agli artisti dai molti equi¬ 
voci che sussistono. 

Nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una 
funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. De¬ 
ve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte co¬ 
sì tornerà a essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno al¬ 
le più alte civiltà: im perfetto strumento di governo spirituale. 

La concezione individualista dell’«arte per l’arte» è superata. De¬ 
riva di qui una profonda incompatibilità tra i fini che l’Arte Fascista 
si propone, e tutte quelle forme d’arte che nascono dall’arbitrio, dal¬ 
la singolarizzazione, dall’estetica particolare di un gruppo, di un ce¬ 
nacolo, di un’accademia. La grande inquietudine che turba tuttora 
l’arte europea, è il prodotto di epoche spirituali in decomposizione. 
La pittura moderna, dopo anni e anni di esercitazioni tecnicistiche e 
di minuziose introspezioni dei fenomeni naturalistici di origine nor¬ 
dica, sente oggi il bisogno di una sintesi spirituale superiore.’^ 

Per Sironi, il fascismo stava realizzando un nuovo stile di vi¬ 
ta che dava forma e ordine al caos della modernità, plasmando 
la coscienza delle masse, integrandole in una vita comune. E la 
sua asserzione del principio pedagogico dell’arte, nell’ambito del¬ 
la funzione politica, si inserisce coerentemente nel quadro della 
politica totalitaria, secondo il motivo ispiratore della volontà di 
potenza plasmatrice di coscienze, e nella meta della creazione di 
un «armonico collettivo» di una coscienza unitaria e corale del¬ 
l’anima popolare, che l’arte doveva contribuire a formare, dive¬ 
nendone, nello stesso tempo, la più alta espressione. Abbando¬ 
nando il suo egocentrismo, l’artista doveva divenire «militante», 
affermava Sironi: «un artista che serve un’idea morale, e subor¬ 
dina la propria individualità all’opera collettiva»; con «un intimo 
senso di dedizione all’opera collettiva», l’artista «deve ritornare 
a essere uomo tra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra 
più alta civiltà»^^. Egli si figurava gli artisti fascisti quali «solda- 


Ivi, p. 155. Il corsivo è nostro. 
Ivi, p. 156. 


V. I templi della fede 


189 


ti millenari» che marciano «verso l’avvenire, nel cielo armato di 
canzoni guerriere», moderni eredi dell’arte religiosa e decorativa 
dei popoli mediterranei, dagli egizi agli etruschi ai romani ai bi¬ 
zantini. 


L’epopea della rivoluzione 

Gran parte della produzione dell’arte fascista, e non solo quel¬ 
la di Sironi, era dedicata alla trasfigurazione epica e mitica del fa¬ 
scismo volta alla educazione delle masse. La forza morale ispira¬ 
trice àeXi’artista militante, nella dedizione all’opera collettiva, era 
per Sironi il senso religioso della vita che il fascismo aveva infu¬ 
so in ogni manifestazione collettiva, perché «è proprio vero che 
in nessun paese come in Italia [...] l’arte è comunione di spiriti, 
religiosità che integra e accompagna ogni elevazione della vita so¬ 
ciale e della civiltà nostra», «la costante accompagnatrice di tan¬ 
te epoche di grandezza, per tesserne la storia sotto la forma del 
mito e delle leggende che sono arte», sublimandone, nella sua 
gloria, le vicende. Le grandi esposizioni dovevano abbandonare 
la vecchia funzione élitaria, borghese e mercantile, e divenire una 
«festa d’arte [...] universale [...] e di popolo», «un qualche cosa 
che conta e decide per la vita più alta dello spirito nazionale, un 
luogo nel quale si ricapitolano non solo le misure del valore dei 
singoli, ma le aspirazioni ideali, gli orientamenti più vasti e crea¬ 
tivi della civiltà comune»^^. 

La realizzazione più importante ed efficace dell’ideale sironia- 
no di un’arte fascista, come sublimazione della storia «sotto la for¬ 
ma del mito e delle leggende», fu la Mostra della rivoluzione fasci¬ 
sta, in cui Sironi stesso ebbe larga parte^^, aperta a Roma il 28 ot¬ 
tobre 1932, nel quadro delle grandi celebrazioni del Decennale: 

Id., Il Quadriennale d’arte nazionale, in «La Rivista illustrata del Popo¬ 
lo d’Italia», febbraio 1935, riportato ivi, pp. 186-190. 

«Egli ha dato la sua anima austera, religiosa e tragica, non solo con le sa¬ 
le da lui costruite personalmente, ma permeandola con l’esempio e il segno del 
suo ingegno e della sua arte, che nel campo della pittura italiana - e non del¬ 
la sola pittura - si sono ormai imposti per autorità spontanea e inevitabile». 
M.G. Sarfatti, Architettura, arte e simbolo alla mostra del fascismo, in «Archi¬ 
tettura», gennaio 1933. 




190 


Il culto del littorio 


certamente la più compiuta e soggestiva sintesi plastica e figurativa 
dell’universo mitico e simbolico del fascismo prodotta dal regime. 
La mostra, scrisse Margherita Sarfatti, interpretandone con la con¬ 
sueta sensibilità il significato e la funzione, non era «una raccolta di 
materiale storico, ma storia in atto, attraverso la trasformazione mi¬ 
tica e pur verace - anzi, la sola verace, in simbolo e allegoria» che 
solo gli artisti potevano compiere^^. Al progetto e alla realizzazio¬ 
ne collaborarono pittori, scultori e architetti italiani fra i migliori 
del loro tempo, come Prampolini, Terragni, Valente, Libera, Funi, 
Marini, Rambelli, Longanesi, Bartoli, MaccarF®. L’idea era partita 
da Dino Alfieri, presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultu¬ 
ra di Milano, per celebrare il primo decennale della fondazione dei 
fasci a Milano. Alfieri pensava ad una mostra che doveva «far rivi¬ 
vere suggestivamente quindici anni di storia del popolo italiano» 
dall’intervento al regime fascista, col proposito di rappresentare, 
secondo il piano inizialmente proposto dal direttore del Museo sto¬ 
rico del Risorgimento di Milano, Antonio Monti, le tappe della ri¬ 
nascita nazionale, attraverso la guerra e la rivoluzione fascista'^h La 
mostra, precisò successivamente Alfieri, non doveva essere però so¬ 
lo una illustrazione documentaria, ma evocare epicamente l’inizio 
di una nuova era, con una «veduta panoramica ed una apoteosi al¬ 
lo stesso tempo, una dimostrazione logica» dell’opera compiuta dal 
fascismo"^^. Lo sviluppo dell’idea passò successivamente sotto il pa¬ 
trocinio e il controllo del partito f^ascista**^. Il progetto fu definito e 


Sarfatti, Architettura, arte e simbolo cit. 

Per la storia della mostra, cfr. G. Fioravanti, introduzione alla Mostra del¬ 
la rivoluzione fascista, Roma 1990. Utili anche i cataloghi della mostra stessa: Gui¬ 
da alla mostra della rivoluzione fascista, Firenze l9ì2-,Mostra della rivoluzione fa¬ 
scista, Guida storica a cura di D. Alfieri e L. Freddi, Bergamo 1933; degno di no¬ 
ta è anche il libro di O. Dinaie, La rivoluzione che vince, Foligno 1934, illustrato 
da Sironi, che rappresenta, in un esaltato stile metaforico e allegorico, una sorta 
di ulteriore epicizzazione fascista della mostra stessa; per gli aspetti storico-arti¬ 
stici, dal punto di vista critico, i migliori studi sono: D. Ghirardo, Architects, 
Exhibitions, and thè Politics of Culture in Fascisi Italy, L. Andreotti, The Ae- 
stethics ofWar: The Exhtbttion of thè Fascisi Revolution,] .T. Schnapp, Fascismi 
Museum in Motion, in «Journal of Architectural Education», febbraio 1992. 

ACS, Carteggio Personahtà, Carte Alfieri, b. 9, Lettera di A. Monti, 24 
febbraio 1928. 

'•2 La mostra storica del fascismo, in «Il Popolo d’Italia», 31 marzo 1928. 

Cfr. Fioravanti, Introduzione cit., pp. 16-18. 


V. 1 templi della fede 


191 


approvato dal direttorio del PNF il 14 luglio 1931. La mostra era 
suddivisa in quattro sezioni tematiche: lo Statò, il Lavoro, le Armi 
e lo Spirito. Quest’ultima sezione avrebbe raffigurato «il patrimo¬ 
nio spirituale del popolo italiano, illuminato da una luce di abne¬ 
gazione e di sacrificio, che gli ha dato il crisma della consacrazione 
eroica»: «Lo spirito è nella nostra fede, l’elemento dominatore de¬ 
gli eventi - spiegava Alfieri -: e dello spirito l’elemento creatore, 
realizzatore, fattivo, è la volontà». Perciò «in tutto lo svolgimento 
della Mostra si deve sentire il palpito di una volontà superiore, ani¬ 
matrice, plasmatrice: della volontà del Capo, nel quale sembrano 
che convergano tutte le forze misteriose della razza»’^'*. In effetti, 
mentre ci si avvicinava alla realizzazione, il progetto si trasformò da 
rievocazione della storia del popolo italiano in glorificazione del fa¬ 
scismo e del suo capo, al quale il progetto originario non aveva at¬ 
tribuito alcuna speciale sezione. Fu anche accantonata l’idea di de¬ 
dicare la mostra ad una rassegna deUe realizzazioni del regime, rin¬ 
viata ad una successiva esposizione-^^, riservando solo una parte del¬ 
la mostra alle istituzioni del fascismo. Mussolini, sempre più at¬ 
tratto dall’impresa, che seguì assiduamente nelle fasi di allestimen¬ 
to, intervenendo anche nelle scelte estetiche, decise che la mostra 
sarebbe stata dedicata alla «rivoluzione fascista» e sarebbe stata 
inaugurata a Roma per il decennale dell’avvento al potere-^*^. 

L’allestimento avvenne con un lavoro febbrile dal 5 agosto al 
28 ottobre 1932, giorno dell’inaugurazione, fra non pochi con¬ 
trasti e difficoltà, anche di ordine economico, che avevano fatto 


ACS, PNF, DN, Servizi Vari, sezione II, b. 332, fase. «D. Alfieri», «Ap¬ 
punti sul programma della mostra del fascismo». Cfr. La mostra del fascismo, 
in «Bibliografia fascista», maggio 1932. 

La mostra delle realizzazioni, che secondo il piano proposto da Alfieri e 
approvato da Mussolini nella seduta del Direttorio del PNF del 14 luglio 1931, 
avrebbe dovuto essere inaugurata il 27 ottobre 1932, doveva «esprimere in for¬ 
ma visiva che cosa è stato fatto dal Fascismo nei suoi dieci anni di governo», 
rappresentando le sue realizzazioni «in una forma spettacolare, cioè vivace e 
suggestiva, fatta soprattutto con mezzi di confronto e di paragone e non ri¬ 
fuggendo dalle forme più moderne della propaganda e della pubblicità. Al vi¬ 
sitatore si deve dare con la maggiore possibile facihtà il modo di cogliere - sen¬ 
za quasi che egh se ne accorga - il lato più importante di ciò che si vuole di¬ 
mostrare». Relazione di Alfieri a Starace, Roma 28 giugno 1932, in ACS, PNF, 
DN, Servizi Vari, sezione II, b. 332, fase. «D. Alfieri». 

Il Duce impartisce le direttive per la Mostra della Rivoluzione Fascista, in 
«Il Popolo d’Italia», 10 giugno 1932. 




192 


Il culto del littorio 


paventare al parsimonioso segretario amministrativo addirittura 
un «vero disastro finanziario»*^^. Mussolini e il segretario del par¬ 
tito fecero vari sopralluoghi per seguire l’andamento dei lavori. 
La raccolta del materiale documentario era stata avviata per tra¬ 
mite delle segreterie federali, con un appello rivolto a tutti i fa¬ 
scisti a mobilitarsi nella ricerca, suscitando gran fervore di par¬ 
tecipazione per l’invio di documenti e cimeli, dalle lettere ai gior¬ 
nali, dalle fotografie ai manifesti, dai gagliardetti delle squadre 
alle reliquie dei «martiri fascisti», alle bandiere rosse ed altri «tro¬ 
fei» e documenti sottratti agli avversari durante le spedizioni 
squadriste**^. Fin dal momento della preparazione, attorno alla 
mostra, preannunciata come la più grandiosa manifestazione del 
Decennale, grazie ad un’abile orchestrazione propagandistica che 
incontrò un genuino entusiasmo, si venne creando un particola¬ 
re alone di «religiosità», che investì innanzi tutto i fascisti, solle¬ 
citati a dare il loro contributo «per la riuscita della manifesta¬ 
zione che dovrà essere glorificazione del sacrificio e della fede 
delle Camicie Nere tutte, di quelle, anche, oggi lontane dalla Pa- 
tria»^9. La preparazione della mostra assunse l’aspetto di un’im¬ 
presa collettiva paragonabile alla costruzione di una «cattedrale 
laica ed effimera», come è stata efficacemente definita^^^, dedica¬ 
ta aU’autoglorificazione dei fascisti stessi; la mostra, affermava 
«Gioventù fascista», doveva innanzi tutto servire ai credenti del 
fascismo non come «catalogazione da museo o allineamento di 
suppellettili» ma come «emanazione di sentimenti che tocchino 
il cuore. Sentiamo da fanatici, perché senza fanatismi non è pos- 

G. Marinelli a D. Alfieri, 13 settembre 1932, in ACS, PNF, DN, Servi¬ 
zi Vari, sezione II, b. 332, fase. «D. Alfieri». 

Cfr. «Il Popolo cl Italia», 15 marzo 1932 (circolare dell’ufficio stampa 
del capo del governo); Il contributo delle Camicie nere romane, ivi, 15 marzo 
1932; Per la Mostra del Fascismo, ivi, 27 aprile 1932; La Mostra del Fascismo. I 
lavori delle sezioni, in «Il Popolo d’Italia», 12 maggio 1932. 

Per la Mostra del fascismo, ivi, 27 aprile 1932. Per la propaganda furono 
preparati 100.000 manifesti, 200.000 cartoline e 1.300.000 cartelloni pubblici- 
tari, da diffondere nelle città, nelle sezioni delle organizzazioni del partito, ne¬ 
gli alberghi, sulle vetture ferroviarie e tramviarie, sulle navi, etc. (ACS, PNF, 
DN, Servizi Vari, sezione II, b. 332, fase. 3). Era stato proposto un volume spe¬ 
ciale, che avrebbe dovuto preparare Leo Longanesi, ed anche un film, affida¬ 
to ad Alessandro Blasetti. Fu inoltre bandito un concorso per il miglior arti¬ 
colo sulla mostra. 

C. Cresti, Architettura e fascismo, Firenze 1986, p. 313. 


V. I templi della fede 


193 


sibile sentirsi gregari»; agli artisti chiamati alla sua realizzazione 
doveva esser chiaro che «si tratta di esprimere una fede e di rap¬ 
presentarla con quel fervore d’ispirazione che può, anche al di 
fluori delle deficienze di mestiere, suscitare dei motivi di religio¬ 
sità»^ L 

Dal punto di vista estetico, i realizzatori ebbero dallo stesso 
Mussolini l’ordine di «far cosa d’oggi, modernissima dunque, e 
audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passa- 
to»^^, una mostra «palpitante di vita virile e anche teatrale», e in 
nulla somigliante «alla palandrana di Giolitti»^^, per esaltare la 
modernità dinamica e rivoluzionaria del fascismo. L’aspetto este¬ 
tico fu concepito e realizzato con spirito modernista e futurista, 
ostentatamente polemico contro il tradizionalismo architettoni¬ 
co, a cominciare dal rivestimento della facciata umbertina del pa¬ 
lazzo dell’Esposizione in via Nazionale, sede della mostra, per na¬ 
scondere la sua ottocentesca monumentalità «fatta d’albagia sen¬ 
za sostanza, di grandiosità senza stile, di ricchezza senza gusto», 
indegna di rappresentare una rivoluzione «che aveva segnato l’i¬ 
nizio di un’era nuova»^*^. L’esterno e l’interno del palazzo furo¬ 
no radicalmente trasformati daU’allestimento architettonico e 
scenografico. Per la facciata, scartati i progetti di «una solennità 
romaneggiante imbastita di falso travertino» o di «un manieri¬ 
smo ricalcato sul barocco», perché «i tempi grandi non s’immi¬ 
seriscono nell’imitazione, sempre mediocre, di quelli precedenti, 
ma creano forme nuove ed espressioni originali», fu prescelto il 
progetto di Mario De Renzi e Adalberto Libera che, per la sua 
audace e originale modernità, appariva il più adeguato a rappre¬ 
sentare «la nostra epoca anelante e dinamica, disancorata e feb- 
brile»^^. 

Il giorno dell’inaugurazione la nuova facciata si presentava co¬ 
me un immenso cubo che simbolizzava «con la sua purezza geo¬ 
metrica la sintesi della concezione totalitaria e integrale del Re- 

M.P. Bardi, Mostra della Rivoluzione Fascista, in «Gioventù fascista», 10 
luglio 1932. 

PNF. Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 8. 

55 Cit. in F.T. Marinetti, La mostra della rivoluzione fascista segna il trionfo 
dell’arte futurista, in «La Gazzetta del popolo», 29 ottobre 1932. 

5“’ PNF, Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 65. 

55 Ivi, pp. 65-66. 




194 


Il culto del littorio 


girne fascista», mentre il suo colore rosso cupo, evocazione del¬ 
lo spirito rivoluzionario, si confaceva alla tradizione romana del 
rosso «pompeiano». Davanti la facciata svettavano quattro fasci 
in rame brunito alti venticinque metri, stilizzati come colonne in 
forma meccanica e metallica, collegati dalla pensilina che sovra¬ 
stava l’ingresso, su cui si stagliavano i caratteri metallici, su fon¬ 
do nero, della scritta «Mostra della rivoluzione fascista». La sti¬ 
lizzazione del fascio, rendendolo simile ad una futuristica cimi¬ 
niera industriale o al fumaiolo di una nave, conferiva all’antico 
simbolo romano dell’autorità nuovi significati, e collegava il mi¬ 
to della romanità al modernismo rivoluzionario fascista^^. Alle 
due ali della facciata, isolate, si ergevano due enormi X in lamiera 
tinteggiata di rosso e di bianco. La cifra romana, emblema del 
Decennale, campeggiava anche sulla porta d’ingresso e nell’in- 
terno della mostra, come un simbolo magico e augurale segno ce¬ 
lebrativo del «primo decennio sui dieci preventivati e certissimi» 
della rivoluzione fascista^^. L’aspetto complessivo della facciata, 
resa ancor più soggestiva la sera dagli effetti luminosi, produce¬ 
va l’immagine di una fortezza o di una inesorabile macchina bel¬ 
lica. L’immagine guerresca era evocata anche dalla presenza per¬ 
manente della guardia d’onore di militi con elmetto e moschetto 
schierati davanti all’ingresso. 

La scalinata d’ingresso, sovrastata da un arcone metallico, 
sembrava l’entrata di una chiesa. La metafora sacrale era ribadi¬ 
ta subito dopo l’entrata, fiancheggiata da due fasci di zinco bru¬ 
nito, dalla formula del giuramento fascista che si scopriva alla vi¬ 
sta del visitatore, risaltando dal fondo luminoso di un targone, 
man mano che egli ascendeva per la scalinata. Anche l’interno 
della mostra, che ripercorreremo avvalendoci del catalogo uffi¬ 
ciale e delle descrizioni di visitatori dell’epoca, era pervaso da un 
senso di religiosità, creato da una ben studiata scenografia di im¬ 
magini luci colori e suoni, «atta a suscitare l’atmosfera del tem¬ 
po, tutta fuoco e febbre tumultuosa, lirica, splendente»^*, che si 
«rivolge alla fantasia, eccita l’immaginazione, ricrea lo spirito. Il 

Cfr. Schnapp, Fascism’s Museum in Motion cit., pp. 91-92. 

” Mussolini, Òpera Omnia, cit., voi. XXV, p. 164 (discorso alla Camera 
dei deputati per il decennale, 16 novembre 1932). 

58 pfsJF, Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 8. 



Fig. 12. Scorcio della facciata della Mostra della rivoluzione fascista 
al Palazzo delle Esposizioni (ACS). 





196 


Il culto del littorio 


visitatore ne resterà conquistato e preso fin dentro ranima»’^. I 
temi dell’esposizione, scanditi dalla successione degli anni, si 
svolgevano attraverso le varie sale come «una gigantesca sinfonia 
i cui tempi s’iniziano col momento tragico, che va dal luglio del 
14 al maggio del ’ 15, e si conclude con l’apoteosi augusta scan¬ 
dita dal passo delle legioni di Camicie Nere in marcia sulle stra¬ 
de consolari che portano a Roma». Ma il motivo fondamentale 
di tutta la sinfonia era «suggerito dairincombente predominan¬ 
te e determinante figura del Duce», che costituiva «l’onda con¬ 
duttrice sulla quale si dovevano inserire, inseguendosi col dina¬ 
mismo d’un ‘crescendo’ irrompente, episodi e figure, fatti e do¬ 
cumenti, folle ed eventi», componendo «il grande insieme desti¬ 
nato a percuotere le anime e ad esaltare i cuori»^». In un am¬ 
biente così concepito, lo stesso materiale documentario era tra¬ 
smutato in elemento simbolico atto a produrre «una suggestione 
vitale ed emotiva che agisse sull’animo del visitatore»^h Espres¬ 
sione in simboli di un’idea, scrisse Sironi, con il suo «realismo 
monumentale, con modi franchi e diretti», la mostra «era una ge¬ 
neratrice di emozioni intense come un dramma»^^ 

Seguendo un percorso obbligato, attraverso le 19 sale del pri¬ 
mo piano della mostra (al secondo piano erano le sale dedicate 
alle istituzioni del regime), il visitatore era avvolto da ondate suc¬ 
cessive di simboli e miti. Immagini, documenti, fotografie, sago¬ 
me stilizzate, sculture, affreschi, gigantografie e fotomontaggi rie¬ 
vocavano eventi e protagonisti, come «dimostrazione»^^ della ri¬ 
voluzione fascista nel suo divenire. Il visitatore contemplava la 

Ivi, p. 9. Si veda anche la relazione dell’architetto Adalberto Libera, in¬ 
viata probabilmente ad Alfieri, sul piano generale di allestimento, cit. in Fio¬ 
ravanti, introduzione a Mostra della rivoluzione fascista cit., pp. 27-28. 

PNF, Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 46. 

Ivi, p. 72. 

“ M. Sironi, Arte e tecnica della mostra «Schaffen Volk» a Dusseldorf in 
«La Rivista illustrata del Popolo d’Italia», novembre 1937, riportato in Sironi 
Scritti editi e inediti cit., pp. 222-226. 

«QueUa che si aprì a Roma non è solo ‘la mostra’: molto di più, è ‘la di¬ 
mostrazione’ della Rivoluzione Fascista. 

E rendo il verbo ‘dimostrare’ nel suo significato letterario e in quello figu- 
ratwo, e anche in quello matematico e fisico: essa fa palese, manifesta e intel¬ 
ligibile la Rivoluzione, al tempo stesso che ne dà la prova, e ne prova l’espe¬ 
rienza conclusivamente, per calcolo e per figura». Sarfatti, Architettura, arte e 
simbolo cit. 


V. I templi della fede 


197 


successione dei temi illustrati nelle sale come stazioni liturgiche 
di una «storia sacra» narrante l’origine e l’avvento della religio¬ 
ne fascista, progressivamente rivelata attraverso gli atti e le pa¬ 
role del suo profeta, messia e fondatore^**. La vigilia dell’inter¬ 
vento era rappresentata nelle prime due sale come l’annuncio del¬ 
la nuova fede da parte di Mussolini in un’Italia di «atavismi po¬ 
litici incapaci di rinnovamento, economia senza principii, stato 
senza autorità, arte senza espressione, opinione pubblica senza 
capi, partiti senza ideali»^^. L’ambiente era dominato da un mo¬ 
numentale fascio di colore rosso (riferito alla adunata dei Fasci 
di azione rivoluzionaria del gennaio 1915), simbolo che, in figu¬ 
razioni estetiche diverse, accompagnava il visitatore lungo tutto 
il percorso; su un pilastro troneggiava l’altorilievo della testa di 
Mussolini, opera dello scultore RambeUi, che lo raffigurava, in 
un rude e severo modellato, come «un asceta combattivo»^’^. In¬ 
combeva, inoltre, una gigantesca riproduzione del primo nume¬ 
ro del «Popolo d’Italia», giornale che assumeva, nello svolgi¬ 
mento dell’intera mostra, la funzione simbolica del vangelo del¬ 
la nuova fede*^^. Seguivano poi le sale dedicate alla guerra, rap¬ 
presentata nel suo aspetto «creativo ed eroico», di grande even¬ 
to sacrificale e purificatore, che ridiede vigore alle «forze più po¬ 
tenti del Risorgimento»^*, e fece scaturire «il miracolo unico, 
preciso, incomparabile, definitivo» del fascismo^’^. In un am¬ 
biente «maestoso e solenne, come di un tempio, come di un sa¬ 
crario», «disadorno e nudo come un Pantheon», si stagliavano 
una immagine massiccia e imperiosa del re soldato, anche questa 
opera di Rambelli, e un grande bassorilievo raffigurante l’Italia 
alata e armata, opera di Marino Marini, che nelle sue forme ru¬ 
di e arcaicizzanti evocava «una razza che anela il futuro senza tra¬ 
dire le origini [,..] civiltà millenaria, che ricongiunge l’antico al- 

^ Sul carattere cultuale della mostra, si vedano le osservazioni di Andreotti, 
The Aesthetics ofWar cit., che per primo ha messo in risalto questo aspetto im¬ 
portante, senza ricollegarlo però al problema più generale del fascismo come 
religione politica. 

PNF, Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 78. 

“ Ivi, p. 92. 

Ivi, pp. 72-83. 

Ivi, p. 93. 

Ivi, p. 73. 





198 


Il culto del littorio 


l’attuale e tende a perpetuarsi con volontà di potenza e libertà di 
armonia»^^. Nelle sale dedicate al 1919 e al 1920, sullo sfondo 
dell’immagine dell’Italia del dopoguerra in preda al disordine e 
al caos, nel netto contrasto cromatico del nero e del rosso, era 
narrata l’azione eroica del manipolo dei primi fascisti guidati dal 
loro capo, che lottavano per difendere la vittoria e per riaffer¬ 
mare la sacralità della patria contro gli assalti del bolscevismo. La 
«bestia ritornante», come l’aveva definita Mussolini, era raffigu¬ 
rata nelle sembianze di un mostruoso antropoide ammantato di 
rosso, con un berretto frigio che calpesta «sotto le sue zampe con¬ 
torte il sacrificio della guerra e della Vittoria», affiancato dalla fo¬ 
to di una «grande testa dal ghigno ebete, soffocata quasi da una 
bandiera rossa che la stringe alla gola» simbolizzante la massa in 
preda air«ubriacatura bolscevica»"^h Le sale del 1921 e del 1922 
illustravano l’ascesa del fascismo e la sua marcia trionfale fino al¬ 
la conquista del potere, attraverso una scenografia dal ritmo di¬ 
namico e travolgente, in cui si inseriva una doviziosa raccolta di 
documenti e di simboli dello squadrismo, di vessilli degli avver¬ 
sari, trofei delle spedizioni punitive, ma soprattutto ritratti, ri¬ 
cordi e reliquie dei «martiri fascisti», indumenti o bandiere in¬ 
sanguinate, che conferivano alla rievocazione dei fatti politici il 
crisma della sacralità. Lfna «immensa figurazione simbolica» in¬ 
vestita da una luce abbagliante, opera dell’architetto Giuseppe 
Terragni, composta dall’immagine di un tamburino e da una sel¬ 
va di mani protese nel saluto romano, che ascendevano spinte dal 
moto di tre turbine delineate su una gigantografia delle «aduna¬ 
te» fasciste, rappresentava «la forza e la volontà del popolo - di¬ 
sciplinate dalla Fede» e protese alla conquista del potere. Un 
«senso sacro ed eroico» era conferito alla composizione da un 
autografo di Mussolini, dedicato ad un caduto fascista, in cui era 
citato un verso carducciano («dà co ’l sangue alla ruota d movi¬ 
mento»), per «significare la santità del martirologio fascista che 
ha reso possibile e fatale il trionfo della Rivoluzione»^^. Nelle sa¬ 
le della «marcia su Roma», tutte pervase dal tricolore, Sironi ave¬ 
va rievocato, con lo stile imponente e severo del suo scarno mo- 

Ivi, p. 93. 

Ivi, p. 118. 

72 Ivi, p. 188. 


V. I templi della fede 


199 


numentalismo, la vittoria del fascismo attraverso fotografie delle 
squadre in marcia e grandi bassorilievi raffiguranti una spada ro¬ 
mana che infrangeva una catena, un profilo di aquila in volo, due 
guerrieri fascisti che innalzavano le insegne romane e, a conclu¬ 
sione simbolica della marcia trionfale, l’arco di Vittorio Veneto 
che racchiudeva «nella sua gloria il sorgere del Fascio, esaltato- 
re della Patria [...] il simbolo romano che par scolpito nel tra¬ 
vertino si aderge all’arco ricavato in mattoni rossi come una gran 
fiamma viva»"^^. 

Dopo aver partecipato alla trasfigurazione in «leggenda e mi¬ 
to» della rivoluzione fascista, il visitatore passava attraverso l’e¬ 
sedra del Salone d’onore, ideato e realizzato da Sironi, domina¬ 
to dall’altorilievo di un Mussolini soldato, ed entrava in un am¬ 
biente angusto, in cui era ricostruita «la cella aspra della prima 
direzione del ‘Popolo d’Italia’»^"*. Poi, dopo aver percorso la Gal¬ 
leria dei fasci, ancora opera di Sironi, fiancheggiata da fde di ga¬ 
gliardetti delle squadre e da poderosi pilastri a forma di fascio, 
ciascuno recante la data di un anno dal 1914 al 1922, il visitato¬ 
re, attraverso una porta sovrastata dalla statua dell’Italia che re¬ 
cava il simbolo del fascio e la stella della vittoria, entrava nella 
sala dedicata al duce, realizzata da Leo Longanesi, dove era nar¬ 
rata sobriamente, in confronto con la scenografia clamorosa del¬ 
le altre sale, ma con intenti egualmente santificanti, la vita di 
Mussolini. 

Si compiva in questa sala la trasfigurazione mitica della figu¬ 
ra di Mussolini, che si era impossessata del visitatore fin dall’ini¬ 
zio. L’epicizzazione fascista della storia italiana aveva attribuito 
al suo svolgimento una sorta di teleologico destino che si con¬ 
cludeva con l’avvento di Mussolini. «Tutto nasce da Lui. Tutti ri¬ 
corrono a Lui. L’Italia si sveglia ogni mattina con Lui [...] Nella 
Sua grande vita c’è un po’ quella di ogni italiano»^^. Tutti i per¬ 
sonaggi della storia italiana che il visitatore aveva incontrato nel¬ 
le sale precedenti, da Garibaldi a Battisti, a D’Annunzio, gli era¬ 
no stati presentati come precursori, profeti, annunciatori e apo¬ 
stoli del verbo mussoliniano, inseriti in una epopea dominata dal- 


7^ Ivi, pp. 204-205. 
7-^ Ivi, p. 215. 

75 Ivi, p. 221. 





200 


Il culto del littorio 


la intuizione divinatrice di Mussolini «il determinatore». Gli 
eventi rievocati apparivano come una emanazione della volontà 
creatrice del duce, a cui tutto il simbolismo della mostra confe¬ 
riva la mitica sacralità deir«unico eroe dei nostri tempi». Come 
cimeli d’una vita già leggendaria, nella sala erano religiosamente 
offerti alla venerazione del visitatore le immagini dei genitori del 
duce, e fotografie,, documenti, manoscritti e reliquie dell’«eroe», 
come la barella insanguinata e la stampella di quando fu ferito in 
guerra o il fazzoletto intriso di sangue dell’attentato del 7 aprile 
1926.' 

Ma il maggiore effetto di sacralità alla sala mussoliniana era 
dato dal suo essere aula d’accesso all’«Altare del sacrificio di cen¬ 
tinaia e centinaia di Camicie nere»^^. Il «Sacrario dei martiri» era 
il centro mistico della mostra, il sancta sanctorum della religione 
fascista, che attribuiva «al sacrificio dei Caduti il regno più alto 
che lo corona di immortalità [...] il simbolo sacro della capacità 
di sacrificio di una razza, della certezza futura, difesa e garantita 
dallo spirito invincibile dei Morti». In una cripta circolare che 
terminava con una grande cupola, affiancata da altre due cupo¬ 
le minori, da cui discendeva una luce azzurra, gli architetti Adal¬ 
berto Libera e Antonio Valente (ma lo stesso Mussolini ebbe par¬ 
te precipua nel disegno finale della sala^^) avevano realizzato la 
visualizzazione simbolica del rito fascista dell’appello in memo¬ 
ria dei martiri: 

Da un piedistallo color rosso-sangue sorge una Croce metallica, 
che una luce misteriosa quasi sospende nell’atmosfera conclusa della 
cripta. Sulla Croce, simbolo del sacrificio e della fede, Croce guer¬ 
riera nella sua struttura metallica, appaiono i termini del rito: l’ap¬ 
pello. Una scritta rammenta la ragione suprema del sacrificio: «Per la 
Patria immortale». Alla tacita evocazione dei vivi, ecco, nell’atmosfe¬ 
ra azzurro-cupa del Sacrario, i Martiri rispondere «Presente». Sono 

76 Ivi, p. 227. 

77 Cfr. A. Monti, Rapsodia Eroica: dall’Intervento all’Impero, Milano 1937; 
cfr. Andreotti, The Aesthetics ofWar cit., p. 86, n. 19. In un primo progetto 
per il sacrario era prevista una composizione scultorea con un corpo nudo che 
teneva in alto con le braccia un fascio orizzontalmente e, ai suoi piedi, il cor¬ 
po di un caduto; per decisione di Mussolini, fu invece adottato il simbolo del¬ 
la croce. La riproduzione dei primi progetti per il sacrario è neir«Illustrazio- 
ne italiana», 29 ottobre 1933, p. 640. 


V. I templi della fede 


201 


mille e mille voci, rapprese nel chiarore della luce che ripete infinita¬ 
mente la parola di coloro che gettarono la vita al di là della meta ed 
ora guidano il cammino delle legioni instancabili. 

Lungo le pareti, in basso, disposti come battaglioni in marcia, ec¬ 
co i gagliardetti delle squadre d’azione. Ognuno porta U nome d’un 
Caduto. Per ogni vuoto che la barbarie nemica apriva nelle file delle 
Camicie Nere, si formava un manipolo nuovo, che sul simbolo della 
fede imprimeva il nome del Martire, presente fra i vivi col suo spiri¬ 
to esemplare e incitatore. 

Nell’atmosfera irreale del Sacrario s’ode, come giungente da lonta¬ 
nanze misteriose, il canto della Rivoluzione. Un Milite vigila immobile.78 

Nell’uscita dal sacrario, d visitatore, dovendo ripercorrere la 
sala mussoliniana, era indotto a reiterare così immediatamente 
l’impressione della mistica unione fra il duce e i martiri, supremi 
abitatori dell’empireo fascista. Lasciata quindi l’aura mistica del¬ 
l’epopea, la visita proseguiva al piano superiore dove, in un’atmo¬ 
sfera più calma dopo le emozioni suscitate dalle tumultuose sale 
della rivoluzione, e più consona allo spirito disciplinato dell’ordi¬ 
ne costruttivo del regime, erano illustrate sinteticamente, con qua¬ 
dri didattici, le organizzazioni e le realizzazioni del fascismo. 


7« PNF, Mostra della rivoluzione fascista cit., pp. 227-229. In un primo mo¬ 
mento, era stata prevista nella mostra anche una sala dedicata al PNF, come 
risulta da un progetto di massima presentato dal pittore Orazio Amato. Que¬ 
sta sala «spogliata di tutta la parte drammatica» era ispirata dall’«esaltazione 
del GIURAMENTO, in cui è compendiato lo spirito del Partito»; nel suo al¬ 
lestimento ritroviamo sintetizzata tutta la simbologia della mostra, con effetti 
scenografici in parte simili a quelli realizzati nel «sacrario»: 

«Quattro forti colonne littorie (che, ove nella realizzazione fosse possibile, 
potrebbero diventare quattro fasci-cariatidi) sostengono la trabeazione di una 
cupola. Nell’interno del tamburo di essa corre inciso in grandi caratteri augu- 
stei il testo del Giuramento. Alla terminazione di ogni singola colonna è inci¬ 
sa una delle quattro parole: FEDE, CORAGGIO, LABORIOSITÀ, ONESTÀ, 
che sono le virtù fondamentali del fascista secondo lo Statuto. 

Il Duce non è qui presente con la sua effigie, ma il suo spirito arde ed in¬ 
veste tutto; fra le quattro colonne si eleva una forma poligonale (più alta del¬ 
l’altezza normale di un uomo) di vetro opalescente dalla quale parte un fascio 
di luce (specchio parabolico) verso la cupola, che ne riflette i raggi sul pavi¬ 
mento, creando in una atmosfera luminosa la suggestione mitica dello spirito 
di Benito Mussolini, sintetizzato nella parola ‘DUX’ posta grande in materia 
luminescente nel centro in alto del poliedro» (il testo del progetto è conserva¬ 
to in ACS, Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, titolo XVII, 
n. 10, voi. Ili, fase. «O. Amato»). 






202 


Il culto del littorio 


Pellegrinaggi al tempio 

Accolta, anche fuori d’Italia, da giudizi largamente entusia¬ 
stici per la sua estetica, la mostra fu un grande successo per il nu¬ 
mero dei visitatori, tanto che la chiusura, prevista per il 21 apri¬ 
le 1933, fu prorogata in un primo momento fino all’ottobre, e poi 
ancora fino al 28 ottobre dell’anno successivo. In questi due an¬ 
ni fu visitata da 3.854.927 persone, anche stranieri, fra i quali Le 
Corbusier, André Gide, Maurice Denis, Paul Valéry. Il grande af¬ 
flusso di pubblico fu promosso da una propaganda intensa e ca¬ 
pillare diffusa in tutto il paese, predisposta dal partito fascista e 
continuamente alimentata dai numerosi commenti entusiastici 
della stampa e degli stessi visitatori. Le facilitazioni per i prezzi 
del viaggio, l’occasione per visitare la capitale, lo zelo di dar pro¬ 
va della propria fede fascista, la speranza di vedere il duce, la cu¬ 
riosità suscitata dalla campagna pubblicitaria del partito e dai 
racconti dei visitatori: tutto ciò fece moltiplicare rapidamente il 
numero delle visite giornaliere, individuali e soprattutto di grup¬ 
pi organizzati di lavoratori, insegnanti, studenti, militari, profes¬ 
sionisti etc., al punto che il partito dovette provvedere a regola¬ 
re, per scaglioni di non più di cinquecento persone, l’afflusso dei 
gruppi nella capitale, previo nulla osta delle segreterie federalF^. 
Ad incrementare il numero dei visitatori giovò anche, nel 1934, 
la coincidenza con l’Anno Santo, che indirettamente forse con¬ 
tribuì ad alimentare l’aura di religiosità che i realizzatori aveva¬ 
no voluto conferire alla mostra per farne opera di propaganda 
della fede fascista. Ma neppure va sottovalutato l’entusiasmo ge¬ 
nuino che mosse soprattutto i fascisti, eccitati dal clima di conti¬ 
nua mobilitazione delle feste e dei riti del Decennale, a visitare 
la mostra per partecipare alla rievocazione degli avvenimenti di 
cui erano stati protagonisti e alla autoglorificazione nell’epopea. 
Nell’interno dove, secondo un visitatore toscano, la gente circo¬ 
lava con un brusio che «faceva pensare a una cerimonia solenne 
in San Pietro»*®, si subiva, scriveva un visitatore dalla Sardegna, 

ACS, PCM, Gabinetto, 1931-1933, fase. 14.1 n. 890, circolare n. 95 di 
Starace ai segretari federali, Roma 31 marzo 1933. 

e.a.. Suggestiva potenza evocatrice della Mostra della Rivoluzione fascista, 
in «Il Telegrafo», 5 dicembre 1933. 


V. l templi della fede 


203 


«la superba sensazione che comunica l’ambiente sacro e raccol¬ 
to», vivendo «fra i ricordi che hanno una eloquenza comunicati¬ 
va e travolgente come lo sguardo e la parola del DUCE»*h «Tem¬ 
pio» e «altare» sono i termini più ricorrenti con i quali veniva de¬ 
scritta la mostra nei commenti della stampa e nelle lettere di sem¬ 
plici visitatori. Concepita come «una cattedrale dove le mura par¬ 
lano», scriveva Margherita Sarfatti, la mostra per la «prima vol¬ 
ta nei tempi moderni porta un fatto della storia contemporanea 
nel clima ardente delle affermazioni e manifestazioni religiose»*^. 
Secondo un altro commentatore, si doveva «alla sincerità della 
Fede che vi si attesta e vi si professa», e al modo in cui gli arte¬ 
fici della mostra l’avevano espressa, se «la Mostra è divenuta un 
Tempio, se il Tempio è divenuto un Altare, se l’Altare si identi¬ 
fica col Rito»*^. In questo clima la visita alla mostra diventava per 
i fascisti un pellegrinaggio nella città eterna, per rendere «dove¬ 
roso e deferente omaggio al tempio della nostra Rivoluzione», co¬ 
me scriveva il presidente deU’ONB di Napoli*"^. Qualcuno, anzi, 
proponeva che la visita divenisse obbligatoria come un rito pu- 
rificatorio perché «vi sono ancora individui che si dicono di col¬ 
tura elevata che hanno bisogno, molto bisogno, d’andare alla Mo¬ 
stra per farsi un esame di coscenza [sic!], individui che vivono 
in ambienti che solo la Generosità Fascista sa tollerare [...] indi¬ 
vidui che sanno fare il saluto Romano che portano poi la loro ma¬ 
lignità nell’ambiente chiuso, ossia sono dei vili»*^. Ci furono an¬ 
che centinaia di «pellegrini» i quali per spirito d’avventura, slan¬ 
cio sportivo, curiosità, esibizionismo o per devozione fascista, 
compirono il viaggio a Roma a piedi o in bicicletta, da ogni par¬ 
te d’Italia e anche dall’estero. Qualcuno di questi sostava a ve¬ 
nerare anche la tomba dei genitori del duce a Predappio. Un mu- 


ACS, PNF, DN, Servizi Amministrativi, sezione II, b. 331, fase. 27, «Ri¬ 
chieste agevolazioni», lettera di S.F. a Achille Starace, Cagliari 11 ottobre 1933. 

Sarfatti, Architettura, arte e simbolo cit., p. 10. 

F. Gargano, Italiani e stranieri alla Mostra della Rivoluzione fascista, To¬ 
rino 1935, p. 716. Il volume è una ricostruzione cronologica, in stile iperboli¬ 
co, delle visite quotidiane alla mostra, con l’elenco dei visitatori, individui o 
gruppi, e con una descrizione delle manifestazioni legate alla mostra, dalla inau¬ 
gurazione fino alla chiusura. 

^ ACS, PNF, DN, Servizi Vari, sezione II, b. 332, fase. «Richieste agevo¬ 
lazioni varie», lettera del 2 dicembre 1932 a G. Marinelli. 

Ivi, lettera di E.S. a Marinelli, Venezia 30 aprile 1933. 




204 


Il culto del littorio 


tilato di una gamba andò in bicicletta da Brescia, alcuni militi 
della Croce rossa andarono a piedi da Santa Margherita Ligure 
trainando un carro lettino. Una giovane fascista romagnola, 
sprovvista dei soldi per il viaggio, era andata da Cesenatico a Ro¬ 
ma in bicicletta^^. 

La mostra ebbe particolare importanza nel culto del littorio 
non solo come drammatizzazione mitica della rivoluzione ma an¬ 
che perché fu loccasione per lo svolgimento di uno speciale, an¬ 
che se effimero, rituale, dando così vita ad uno straordinario 
evento cultuale, che ebbe come «spazio sacro» la mostra stessa, 
e per protagonista una massa liturgica composta dalla folla dei 
visitatori, dai gruppi che si avvicendarono nel cambio della guar¬ 
dia d’onore, dal pubblico che assisteva ai riti che si svolgevano 
davanti aU’ingresso, fra marce, canti, musiche e grida inneggian¬ 
ti al duce e al fascismo. Il compilatore della cronistoria della mo¬ 
stra, testimone oculare in quanto comandante del reparto spe¬ 
ciale della MVSN in servizio presso la mostra stessa, raffigurò in 
impressionistiche immagini il movimento di folla; «Folle di po¬ 
polo convergente a queste soglie, silenziose scolte d’onore, fasci 
ferrigni, raggio colore di passione; di quando in quando, dalle 
masse salienti senza posa, l’elevarsi di un coro, suono di fanfare, 
labari, gagliardetti, bandiere; saluti al DUCE, pieni e frequenti; 
tutto un susseguirsi di riti, tutto un ritmo di simboli»»^ La litur¬ 
gia della mostra, come potremmo definirla, iniziò col rito della 
cerimonia inaugurale, cui parteciparono Mussolini e le supreme 
gerarchie del regime, davanti ad una vasta folla di spettatori. Il 
duce fu accolto al canto dell’inno fascista da un reparto della Mi¬ 
lizia con musica, dai Moschettieri e da 180 consoli della MVSN 
schierati con i labari delle legioni, i Quadrumviri e il direttorio 
nazionale del PNF. All’entrata, dinnanzi alla formula del giura¬ 
mento, lo attendeva un reparto di Avanguardisti irrigidito sul- 
1 attenti insieme agli orfani dei caduti fascisti. Un giovane compì 
il rito del giuramento, recitando la formula e rivolgendo la tra¬ 
dizionale domanda «Lo giurate voi?», a cui il reparto rispose ad 

Si veda la documentazione sui visitatori in ACS, PNF, DN, Servizi Va¬ 
ri, sezione II, b. 332, fase. «Richieste agevolazioni varie», e in Gargano, Italia¬ 
ni e stranieri cit., passim. 

Gargano, Italiani e stranieri cit., p. 695. 



Fig. 13. Sfilata degli avanguardisti del campo Dux davanti alla Mo¬ 
stra della Rivoluzione fascista, il 12 settembre 1933 («L’Illustrazione 
italiana», 17 settembre 1933). 














206 


Il culto del littorio 


alta voce «Lo giuro». Dopo aver percorso le sale accompagnato 
dal seguito, come in processione, Mussolini rivolse brevi parole 
di elogio agli organizzatori, si soffermò davanti alle reliquie dei 
caduti fascisti, e rese omaggio in raccolto silenzio, sull’attenti, al 
sacrario dei martiri^^. Nei due anni di apertura, davanti all’in¬ 
gresso si ripetè più volte al giorno, quotidianamente, il rito del 
cambio della guardia, che venne svolto non solo dalla Milizia, ma 
anche dai rappresentanti delle famiglie dei caduti, dei mutilati, 
dei combattenti, dei «sansepolcristi», delle categorie produttrici 
e professionali: in tal modo, commentava ancora il citato croni¬ 
sta ufficiale, si manifestava «attraverso un atto profondamente 
simbolico, la più stretta aderenza spirituale fra il cittadino e il fa¬ 
scismo, fra il cittadino e il suo governo, fra l’italiano e la coscienza 
del suo bene e di quello della Patria»^*^. 

Questa liturgia era una «seconda vita della Mostra [...] vita su¬ 
blimata nel simbolo e nel rito di questi cambi di guardia, ove cia¬ 
scuno si appresta come ad una nuova prova di fede e di venera¬ 
zione per i Martiri e per la Causa che essi materiarono di santità»^®. 
Con rituale ancor più solenne della cerimonia inaugurale fu cele¬ 
brata, davanti alla folla, la chiusura della mostra il 28 ottobre 1934. 
Le cerimonie iniziarono la mattina, quando furono innalzati su 
due fasci della facciata la bandiera tricolore e il drappo nero del fa¬ 
scismo. Durante il giorno si avvicendarono nel servizio di guardia 
d’onore i «sansepolcristi», gli organizzatori e i realizzatori della 
mostra, gli accademici d’Italia, i membri del governo, il direttorio 
del partito fascista. La sera, accompagnato dal segretario del PNF, 
giunse Mussolini, che negli ultimi giorni era tornato già a visitare 
la mostra. Seguito dai membri del governo, del Gran Consiglio e 
del direttorio, il duce si recò al sacrario, dove, accanto alla croce, 
era stato collocato anche il labaro del partito, e rese il saluto ro¬ 
mano rimanendo per qualche minuto sull’attenti. All’uscita, pre¬ 
ceduto dal labaro del partito scortato dai «sansepolcristi», appar¬ 
ve alla folla dall’alto della scalinata, mentre i riflettori illuminava¬ 
no i fasci littori. Nel silenzio, Starace lanciò il «saluto al duce», cui 


La cerimonia inaugurale, in «Il Popolo d’Italia», 30 ottobre 1932. An- 
dreotti ha paragonato le fasi della cerimonia al rituale di una messa, cfr. The 
Aesthetics ofWar cit., pp. 76-77. 

Gargano, Italiani e stranieri cit., p. 266. 

Ivi, p. 673. 


V. 1 templi della fede 


207 


la folla e le forze fasciste risposero col rituale «a noi!». Subito do¬ 
po, un balilla si avvicinò al duce e, dopo il saluto romano, pro¬ 
nunciò la formula del giuramento, cui risposero ancora i fascisti e 
la folla. Starace dichiarò quindi che la mostra era chiusa, ordinan¬ 
do la ritirata della guardia d’onore. Dopo l’ammaina-bandiera, se¬ 
guito da squilli di tromba e varie scariche di moschetti, il canto de¬ 
gli inni patriottici e fascisti da parte dei cori di fanciulli romani e 
della folla concluse l’evento cultuale della mostra con il saluto al 
duce, fra multicolori luci di fiaccole e bengala^b 

Secondo l’interpretazione simbolico-liturgica fatta dalla pub¬ 
blicistica del regime, la mostra era stata l’esaltazione epica della 
rivoluzione fascista, celebrata dal popolo italiano, attraverso i vi¬ 
sitatori, in un corale atto di devozione. «L’idea che ha retto e ani¬ 
mato questa mole grandiosa - scriveva il pittore Usellini - e la 
rende viva nella storia passata e presente, è il concetto di unità 
spirituale degli italiani, il suo cammino e la sua penetrazione da 
un uomo a una minoranza a tutto un popolo e al suo avvenire. 
È l’idea dell’Italiano moderno, della civiltà Italiana moderna che, 
sostituitasi agli antagonismi e alle negazioni deH’ieri, si afferma e 
si attua come nuovo equilibrio morale e politico»^^. Al di là del¬ 
le questioni estetiche, i commentatori misero in risalto il caratte¬ 
re pedagogico e «popolare» che la mostra aveva avuto, offrendo 
al pubblico una rappresentazione vivificata dal «misterioso sof¬ 
fio» di «un’anima in continuo contatto con l’anima del visitato¬ 
re»^^. In senso sironiano, la mostra era stata una celebrazione del 
«vivere comune» compiuta dall’artista e dal popolo. Le centinaia 
di migliaia di visitatori, uomini, donne, bambini, rappresentanti 
d’ogni ceto sociale, categoria e professione furono viste come 
simbolo vivente deir«armonico collettivo», che con questo pel¬ 
legrinaggio aveva testimoniato la sua fede fascista. La folla era 
stata parte integrante della liturgia della mostra; «Tra la Mostra 
della Rivoluzione e il Popolo - scriveva il più iperbolico fra gli 
esegeti del suo significato simbolico ed epico^'^ - si è stabilita, 

9» Cfr. ivi, pp. 715-723. 

G. Usellini, La Mostra della Rivoluzione Fascista, in «Emporium», apri¬ 
le 1932, pp. 199-249. 

R. Pacini, Il valore educativo e patriottico della mostra, ivi, aprile 1933, 
pp. 251-256. 

Dinaie, La rivoluzione che vince cit., p. 204. 




208 


Il culto del littorio 


oramai, una corrente ad alta tensione, alimentata da una forza 
non ben definibile, che è ed appare, in tutte le sue manifestazio¬ 
ni di individui e di folla, misteriosa, mitica, religiosa. È, senza 
dubbio, il fenomeno psicologico collettivo più interessante del 
secolo». Con toni più pacati, ma con lo stesso entusiastico «sen¬ 
so della comunità». Bottai esaltava la mostra come la più sugge¬ 
stiva fra le manifestazioni celebrative e le grandi adunate del De¬ 
cennale, durante le quali si era vista la mistica unità del capo con 
le «mareggianti moltitudini [...] corpi con un solo respiro» in cui 
r«idea s’è fatta carne»^^. 

Sull’onda delle emozioni e dell’entusiasmo suscitati dal succes¬ 
so della mostra, i fascisti rivolsero appelli per rendere permanente 
«come una basilica la MOSTRA della nostra VITTORIA»^^: 

Pellegrini di amore e di fede, a ogni viaggio, a ogni richiamo di 
ROMA IMPERIALE, noi si visiterebbe sempre con curiosità nuova, 
con passione nuova il reliquiario della nostra lotta e come nelle chie¬ 
se, il cuore nostro di fedeli e di fascisti, sorgerebbe ogni volta più li¬ 
bero di affanni, più carico di speranza, più bello per i sacrifizi che ci 
saranno comandati. 

Se il DUCE vuole, se la Eccellenza Vostra lo chiede la MOSTRA del¬ 
la RIVOLUZIONE sarà il nostro Tempio aperto ogni ora, vigilato da 
Camicie Nere e sempre accogliente come un rifugio di calda passione, 
tutti coloro che hanno creduto, credono e fermamente crederanno nel 
DUCE e crederanno domani nel nostro fatale avvenire imperiale. 


G. Bottai, Vedere il Fascismo, in «Critica fascista», T novembre 1932. 

ACS, PNF, DN, Servizi Vari, sezione II, b. 331, fase. 27, lettera di S.F. 
a Achille Starace cit. «Anziché chiudere, per quando è stato deciso dall’E.V. - 
scriveva un fascista fiorentino a Mussolini - la ‘Mostra della Rivoluzione’, che 
tante ineffabili emozioni ha suscitato, che con tanti ricordi commoventi ha esal¬ 
tato, infiammato l’animo degli innumerevoli visitatori, non riterrebbe, molto 
rispettosamente, l’E.V. disporre che la ‘Mostra della Rivoluzione Fascista’ ri¬ 
manesse aperta permanentemente? [...] che, cioè, divenisse il Sacrario del Fa¬ 
scismo, via via arricchendosi di tutto quanto è e sarà conseguenza, scopo, fi¬ 
nalità della Rivoluzione Fascista! [...] Sarebbe nella Roma eterna la storia do¬ 
cumentata di quella Santa Rivoluzione che Voi voleste, che guidaste e che da 
Voi animata colla più fervida passione, col più intenso amor di Patria ha pro¬ 
dotto, produce e produrrà resultati tangibili che fanno e faranno sempre più 
apprezzata, temuta, rispettata la Patria nostra amatissima quale Voi, Duce, la 
volete e quale sarà! [...] Così le generazioni attuali e future avrebbero sempre 
presenti tutte le fasi, anche cruente, della Rivoluzione Fascista esempio, moni¬ 
to ed incitamento perenne!» (ivi, lettera di R.M., Firenze 9 ottobre 1933). 


V. 1 templi della fede 


209 


Uno degli organizzatori rilanciò la proposta, sostenendo che 
«la fede di tutti e di ognuno ha costruito qualche cosa che non 
dovrebbe più essere demolito, per poter servire alle generazioni 
future come luogo sacro ove raccogliersi ad alimentare la propria 
fede, a formare la propria coscienza» e in questo modo il parti¬ 
to avrebbe «compiuta una gigantesca opera permanente ai fini 
della propaganda fascista fra gli italiani e nel mondo»^"^. In realtà, 
ancor prima della conclusione. Mussolini aveva già deciso che la 
mostra avrebbe assunto carattere stabile, preannunciando «che 
la sede permanente del futuro Musco della Rivoluzione Fascista 
dovrà sorgere sulla via dell’Impero con ‘una costruzione moder¬ 
namente monumentale’»^^. 


Eternare il «tempo di Mussolini» 

Come tutte le religioni secolari, anche la religione fascista vo¬ 
leva affidare a monumenti e templi duraturi l’esaltazione della 
sua fede e lasciare nei secoli l’impronta della sua civiltà. Il fasci¬ 
smo fu posseduto da una vera e propria mania per la monu- 
mentalità, concepita come materializzazione del mito, a perenne 
glorificazione della sua religione, e affidò agli architetti il compi¬ 
to di costruire i suoi luoghi di culto, come le Case del Fascio, e 
gli edifici monumentali destinati a perpetuare la gloria di Mus¬ 
solini e del fascismo. E improbabile però che il senso monu¬ 
mentale del fascismo sia stato ispirato dal fascino romantico del¬ 
le rovine, che, secondo la testimonianza di Albert Speer, aveva 
ispirato le visioni monumentali del capo nazista, il quale imma¬ 
ginava l’effetto che, al pari dei monumenti greci e romani, avreb¬ 
bero fatto su remote generazioni future le reliquie dei monumenti 
nazistF^. Nel vitalismo fascista, la monumentalità era esaltata co- 


A. Melchiori, Una grande opera di fede, in «L’IUustrazione italiana», 29 
ottobre 1933. 

98 pjqp^ Mostra della rivoluzione fascista cit., p. 66. Una nuova edizione del¬ 
la Mostra fu riaperta il 23 settembre 1937, e una terza il 28 ottobre 1942, ma 
l’una e l’altra erano divenute ormai musei privi del dinamismo e del misticismo 
della prima edizione. 

Cfr. A. Speer, Memorie del Terzo Reich, trad. it. di E. e Q. Maffi, Mila¬ 
no 1969, pp. 77-78. Cfr., sul culto delle rovine, le osservazioni di N. Zapponi, 





Fig. 14. La riapertura della Mostra della Rivoluzione fascista a Valle 
Giulia nel 1937 («La Rivista illustrata del Popolo d’Italia», ottobre 
1937). 


V. 1 templi della fede 


211 


me momento della «lotta grandiosa fra l’energia creatrice dello 
spirito e la sorda necessità della natura». In questa lotta r«arte 
costruttiva» rappresentava «la più sublime e diretta vittoria del¬ 
lo spirito sulla natura», anche se la natura sembrava periodica¬ 
mente ottenere la vittoria sulle rovine monumentali. Ma anche in 
questo caso, lo spirito riprendeva il sopravvento perché «l’attra¬ 
zione estetica delle rovine monumentali, dando la viva intuizio¬ 
ne del tempo che s’infutura e dell’organica continuità della sto¬ 
ria», era incitamento ad operare per una «nuova grandezza del¬ 
la Patria risorta»^®®. Mussolini stesso chiariva il significato della 
monumentalità come parte integrante del culto del littorio quan¬ 
do affermava che i monumenti «se non sono scaldati dal cuore 
palpitante del popolo, sono pietre di sepolcro, fredde, nude, ste¬ 
rili. Bisogna che attorno a questi simboli della nostra ricordanza 
perenne sia sempre presente la nostra fede, sempre siano sicuri 
e fermissimi i nostri propositi»*'’*. Occorreva creare uno scena¬ 
rio stabile per la celebrazione del culto del littorio e le cerimonie 
del regime, per non dover occasionalmente avvalersi delle «ridi¬ 
cole truccature di strade anche di recente costruzione, cui sono 
dovuti ricorrere i decoratori dell’Urbe» in occasione della visita 
del Fuhrer nel 1938*°^. 

La monumentalità fascista, affermava Sirqni, è «la voce del 
Capo al di sopra della voce delle moltitudini. E l’espressione del¬ 
la Fede in contrapposto al gesto dell’interesse e intende dare un 
volto, una sensazione visibile e chiara di quella Fede, della sua 
forza, della sua misura, della sua potenza»***^. Sironi pensava ad 
uno stile monumentale che fosse la «espressione architettonica 
della società fascista, dello Stato, della Religione, del Comando, 
dei simboli dominanti [...] per racchiudere in una grande unità i 
caratteri della nostra civiltà»*'*'*. Mussolini stesso ostentava la sua 

Futurismo e fascismo, in R. De Felice (a cura di). Futurismo, cultura e politica, 
Torino 1988, pp. 172-173. 

A. ChiappeUi, Il fascismo e la suggestione delle rovine monumentali, in 
«Educazione fascista», 20 aprile 1931. 

Cit. in O. Dinaie, Tempo di Mussolini, Roma 1934, p. 215. 

F. Ciarlantini, E '42, in «Augustea», 15 agosto 1938. 

M. Sironi, Monumentalità fascista, in «La Rivista illustrata del Popolo 
d’Italia», novembre 1934, riprodotto in Sironi, Scritti cìx.., pp. 181-185. 

Id., Templi, in «La Rivista illustrata del Popolo d’Italia», dicembre 1935, 
riportato ivi, pp. 206-209. 











212 


Il culto del littorio 


passione per Tarchitettura, che egli considerava la «massima fra 
tutte le arti [...] perché comprende tutto»^®^. 

Anche in questo campo, la polemica fra classicisti e moder¬ 
nisti si presentava come una competizione per conquistare il pri¬ 
vilegio di definire lo stile fascista meglio adeguato ad immortala¬ 
re il culto del littorio e «fermare con la consistenza della pietra, 
del cemento, dell’acciaio e dei più nobili e durevoli elementi del¬ 
la natura, con il soffio dell’arte, l’orma gigantesca di Mussolini, 
affinché i posteri ne abbiano stupore»^®^. Per esempio, un ideo¬ 
logo ufficiale del PNF, contrario al razionalismo architettonico, 
sosteneva che la civiltà fascista doveva preferire una «architettu¬ 
ra della ‘durata’», in cui prevalga la pietra e il richiamo alla «fun¬ 
zione monumentale» degli edifici pubblici, «al linguaggio che 
opera anche sugli animi come esaltazione e come ricordo; all’at¬ 
mosfera che essi creano intorno a sé e che, con la sua costante 
presenza, modifica a poco a poco il carattere delle generazioni»: 
«Nella architettura monumentale, che dura attraverso i secoli, è 
il simbolo della permanenza dello stato»^®^. Ma non diverse, per 
quanto riguarda la funzione politica dell’architettura, erano le 
idee dei maggiori esponenti del modernismo razionalista come 
Terragni, Pagano, Valente. Oggi, affermava nel 1932 l’architetto 
Gio Ponti, solo la politica e l’architettura «cercano di compren¬ 
dere, servire ed esprimere» le aspirazioni dell’umanità alla rea¬ 
lizzazione di «nuovi ordini»^®®. Il mito del «costruire», in cui il 
fascismo simbolizzava la sua «romana» determinazione a durare 
contro la sfida del tempo, dando Vassalto alla storia per creare un 


E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, p. 205. 

Petizione a Mussolini per l’architettura, in «L’Ambrosiano», 13 febbraio 
1931, cit. M. Estermann-Juchler, Faschistische Staatsbaukunst, Kòln 1982, p. 
102. Sui rapporti fra architettura e fascismo cfr. D.Y. Ghirardo, Italian Archi- 
tects and Fascist Politics: An Evaluation of thè Rationalist’s Role in Regime Buil¬ 
ding, in «Journal of thè Society of Architectural History», 1980, n. 39, pp. 109- 
127; Cresti, Architettura e fascismo cit.; G. Ernesti (a cura di). La costruzione 
dell’utopia. Architetti e urbanisti nell’Italia fascista, Roma 1988; G. Ciucci, Gli 
architetti e il fascismo, Torino 1989; T.L. Schumacher, Surface & Symbol. Giu¬ 
seppe Terragni and thè Architecture of Italian Rationalism, New York 1991 ; R.A. 
Etlin, Modernism in Italian Architecture, 1890-1940, Cambridge, Mass., 1991. 

A. Pagliaro, Architettura, in PNF, Dizionario dipolitica, Roma 1940, voi. 
I, p. 159. 

G. Ponti, Perché oggi interessa tanto l’architettura, in «Il Popolo d’Ita¬ 
lia», 13 luglio 1932. 


V. I templi della fede 


213 


ordine nuovo, non poteva certo lasciare indifferenti gli architet¬ 
ti, che di questo mito erano naturalmente i principali credenti. 
L’architettura era «l’arte e la scienza fondamentale designata a 
definire e fermare nel tempo il carattere e la storia di un’epoca», 
come affermavano gli architetti Minucci e Libera^®^. E per gli ar¬ 
chitetti che si dedicarono a foggiare uno stile fascista, lo scenario 
architettonico e monumentale doveva avere, innanzi tutto, un al¬ 
to significato simbolico e religioso, costituire uno «spazio sacro» 
per la celebrazione del culto del littorio, contribuendo così ad 
istillare nella coscienza dell’«italiano nuovo», con la persistente 
suggestione dell’ambiente pubblico, la fede nei miti della reli¬ 
gione fascista. Era compito principale dell’architettura esprime¬ 
re i valori e definire le forme della «nuova civiltà». 

In effetti, fin dai primi anni del fascismo al potere, l’euforia 
per la «nuova Era» sbrigliò la fantasia monumentalistica degli ar¬ 
chitetti. A Mussolini pervennero progetti, più o meno ambiziosi 
e strampalati, di architetti che volevano già immortalare nei se¬ 
coli la «rivoluzione fascista» come, per esempio, il faraonico pro¬ 
getto della Eternale Mole Littoria in Roma, presentato da Mario 
Palanti nel 1924 a Mussolini, che pare fosse entusiasta dell’i¬ 
dea^ Il «monumento simbolico» doveva «eternare, in Roma 
Eterna, la Rivoluzione Fascista, la epopea delle Camicie Nere e 
la grandiosa opera del Duce»; ma nella fervida ambizione del¬ 
l’autore, l’immenso edificio doveva addirittura rappresentare la 
sintesi della civiltà italiana culminata nell’avvento del fascismo: 
«Non è immodesta esagerazione affermare - scriveva - che l’E- 
ternale potrà degnamente completare il trinomio: San Pietro e 
Cattolicesimo. Altare della Patria e Risorgimento. Mole Littoria 
e Rivoluzione Fascista»“b II complesso architettonico era con¬ 
cepito per essere la sede degli uffici del partito fascista, di asso¬ 
ciazioni patriottiche, combattentistiche, culturali, commerciali, 
professionali; per ospitare esposizioni permanenti, saloni per 

ACS, PCM, Gabinetto, 1931-33, fase. 14.1 n. 128, Richiesta di autoriz¬ 
zazione per l’Esposizione italiana di architettura razionale, cit. in Estermann- 
Juchler, Faschistische Staatsbaukunst, cit., p. 97. Sul «mito del costruire» nel¬ 
l’arte fascista, cfr. Pontiggia, Mario Sironi: il mito dell’architettura, in Sironi. Il 
mito dell’architettura cit., pp. 19-21. 

M. Palanti, L’Eternale Mole Littoria, Milano 1926. 

Ivi, pp. 33-35. 






Fig. 15. Il progetto Palanti per r«Eternale» (1926). 


V. I templi della fede 


215 


convegni, palestre, un impianto di terme, r«Augusteo Mussoli- 
niano per grandi manifestazioni patriottiche, congressi di ogni 
genere, concerti, feste, ecc.»; saloni per biblioteche, sale di let¬ 
tura e il Museo fascista. Al sommo della Mole era previsto «un 
potentissimo Faro, simbolo della luce eterna che irradia da Ro¬ 
ma»^ 

L’Eternale non fu realizzato, ma l’idea di «eternare» la rivo¬ 
luzione fascista nel simbolismo dell’architettura fu un chiodo fis¬ 
so per Mussolini e il partito. Il fascismo diede un deciso impul¬ 
so al simbolismo architettonico «sacro» per la costruzione di tem¬ 
pli dedicati al culto del littorio. Architetti e urbanisti si impe¬ 
gnarono a diffondere nelle vecchie città e nelle «città nuove» 
create dal fascismo i simboli del littorio. Il fascio diventò ele¬ 
mento fondamentale dell’architettura duratura o effimera dei 
monumenti, degli edifici, delle mostre. Pare che lo stesso Mus¬ 
solini abbia voluto e abbozzato il monumento alla Vittoria, edi¬ 
ficato a Bolzano da Marcello Piacentini: un arco trionfale eretto 
di fronte alle Alpi, composto di quattordici colonne a forma di 
fascio, con la scure al posto del capitello, per esaltare «nella du¬ 
revole gloria dei marmi» i martiri di Trento e Trieste «qui vene¬ 
rati come santi sugli altari»“^. Numerosi furono i monumenti co¬ 
struiti durante il regime per glorificare la vittoria e i caduti nella 
Grande guerra, i «martiri fascisti», gli eroi della storia patria e 
del fascismo, anche se il partito, nel 1927, aveva esortato ad edi¬ 
ficare asili piuttosto che monumenti, dedicando ai caduti «case» 
che portino «col Nome, il Loro ricordo: Case della vita nuova 
d’Italia: scuole di esempi in cui si insegnerà ai bambini a vene¬ 
rare la memoria di quanti per la Patria morirono»"'*. Abbiamo 
già accennato al carattere cultuale che il PNF attribuiva alla Ca¬ 
sa del Fascio, centro della vita del partito santificato dalla pre¬ 
senza del sacrario dedicato ai caduti fascisti, che lo rendeva un 
«tempio mistico», dove questi erano venerati ed «esaltati in mu¬ 
to raccoglimento»*". Ogni fascio sentiva l’esigenza di dotarsi di 
una «casa» adeguata per le funzioni di partito, e degna di essere 

"2 Ivi, pp. 24-25. 

Sapori, Il fascismo e l’arte cit., p. 55. 

iMpjqp, «Foglio d’ordini», n. 21, 1” febbraio V (1927). 

La nuova sede della Federazione fascista, in «Il Popolo d’Italia», 18 mag¬ 
gio 1930. 















T 



Fig. 16. Particolare della facciata dell’ufficio postale di Littoria (da 
Latina, storia di una città, a cura di R. Mariani, Alinari, Firenze 1982 
p. 185). 


V. I templi della fede 


217 


anche luogo di culto perché, affermava il segretario federale di 
Torino, «per la Fede occorre il Tempio»^Soprattutto nel se¬ 
condo decennio, il partito cercò di dare impulso alla costruzio¬ 
ne delle Case del Fascio, che dovevano esaltare il suo ruolo pre¬ 
dominante nella vita pubblica, sollecitando le federazioni alla rac¬ 
colta di finanziamenti. La struttura, la collocazione urbanistica e 
l’estetica della Casa del Fascio erano definite non solo ai fini del¬ 
la sua funzionalità burocratica, come centro di tutte le organiz¬ 
zazioni del partito, ma anche della sua funzionalità pedagogica e 
propagandistica. Il partito, perciò, insisteva soprattutto sull’a¬ 
spetto simbolico, in cui aveva particolare spicco, come simbolo 
del comando, la «torre littoria» evocatrice delle torri comunali 
del medioevo, con la campana civica, diretta a rivaleggiare, co¬ 
me abbiamo visto, con il campanile delle chiese. Oltre che sede 
degli uffici del partito, la casa doveva essere il centro della vita 
politica e sociale dell’«armonico collettivo», luogo di venerazio¬ 
ne del culto dei martiri e la scuola di indottrinamento nei dogmi 
della religione fascista. A questa idea si ispirò Terragni nel pro¬ 
gettare la Casa del Fascio di Como: «in una casa dedicata al po¬ 
polo, scriveva, intervengono fattori morali, politici, propagandi¬ 
stici che integrano il fondamentale scopo di creare una sede alle 
organizzazioni del Partito», che non doveva essere più come nei 
tempi dello squadrismo «covo, o rifugio, o fortino» ma doveva 
«diventare casa, scuola. Tempio»* L’edificio, costruito in stile 
razionalista, era un’esemplare «idealizzazione simbolica del Fa¬ 
scismo»****, come l’ha definita uno storico dell’architettura, e si 
ispirava esplicitamente alla metafora mussoliniana «il fascismo è 
una casa di vetro». La costruzione era concepita in modo da da¬ 
re l’immediata percezione della piena integrazione del partito 
nella vita della massa e la diretta comunicazione fra la massa e i 


ACS, MRF, b. 52, fase. «Piemonte», sottofasc. «Torino», rapporto del 
federale Bianchi Mina a Mussolini, 15 gennaio 1930. 

G. Terragni, La costruzione della Casa del Fascio di Como, in «Qua¬ 
drante», ottobre 1936. Cfr. D. Ghirardo, Politics of a Masterpiece: The Vicen¬ 
da of thè Decoration of thè Facade of thè Casa del Fascio, Como 1936-1939, in 
«Art Bulletin», LVII, 1980, n. 3, pp. 466-478; Etlin, Modernism in Italian Ar- 
chitecture cit., pp. 439-479; Schumacher, Surface & Symbol cit., pp. 139-170. 

K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, trad. it. di M. De Bene¬ 
detti e R. Poletti, Bologna 1982, p. 241. 








Fig. 17. La Casa del Fascio di Predappio. 


V. I templi della fede 


219 


suoi dirigenti. Il centro spirituale dell’edificio era il sacrario, sim¬ 
bolo dell’elemento spirituale che era alla base del «misticismo fa¬ 
scista», cui Terragni volle conferire un alto senso di religiosità fu¬ 
neraria, costruendolo come una cella aperta formata da tre pa¬ 
reti monolitiche di granito rosso, evocanti le primitive costruzio¬ 
ni regali o religiose di Micene o dell’Egitto. 

Una delle massime espressioni del simbolismo architettonico 
del fascismo, sintesi di sacro e profano, avrebbe dovuto essere la 
«Casa Littoria», nuova sede della segreteria nazionale del PNF. 
Fu la decisione di rendere permanente la mostra della rivoluzio¬ 
ne, istituendo una sede perpetua per «il Sacrario dell’Epopea del¬ 
le Camicie Nere»^^^, a dare l’idea di costruire un edificio monu¬ 
mentale dove accogliere gli uffici del partito e delle organizza¬ 
zioni dipendenti, la mostra della rivoluzione e il sacrario dei mar¬ 
tiri. Il partito lanciò una pubblica sottoscrizione per il finanzia¬ 
mento dell’opera, perché «la Casa Littoria sarà la Casa di tutto 
il popolo italiano: eretta dal contributo della Nazione intera, ac¬ 
coglierà in sé l’energia incomparabile che l’anima nazionale dà 
alla Rivoluzione Fascista: a questa rivoluzione, che, diversa da 
tutte le altre, conquista il tempo, lo fa suo, prosegue diritta ver¬ 
so l’awenire»^^®. Il palazzo, per volontà di Mussolini, avrebbe 
dovuto sorgere di fronte alla Basilica di Massenzio, sulla nuova 
via dell’Impero inaugurata solennemente il 28 ottobre 1932, che 
collegava piazza Venezia al Colosseo attraversando i fori impe¬ 
riali, ma arretrato rispetto alla via per non pregiudicare «la vista 
dell’intera mole del Colosseo da piazza Venezia» come spiegava 
il bando di concorso. L’arretramento avrebbe consentito «la crea¬ 
zione di una spianata sopra elevata sulla via dell’Impero, atta ad 


ACS, PNF, DN, Servizi Vari, sezione II, b. 332, fase. «Corrispondenza 
generale», lettera di Starace al duca Marcello Visconti di Modrone, Roma, 13 
febbraio 1935. Il materiale della mostra venne trasferito alla GaUeria d’arte mo¬ 
derna, in previsione di una nuova edizione, che fu allestita nel 1937, in coinci¬ 
denza con la mostra per il bimillenario di Augusto. Cfr. Fioravanti, Introdu¬ 
zione cit., pp. 37-42. 

120 Professori e studenti per la Casa del Littorio sulla Via dell’Impero, in 
«Gioventù fascista», 15 marzo 1934. Con il r.d.l. dell’8 marzo 1934, n. 550 fu 
dichiarata la pubblica utiUtà dei lavori di costruzione della «Casa Littoria». Con 
successivi decreti si autorizzò il ministero dei Lavori pubblici a curarne la co¬ 
struzione (r.d.l. 7 marzo 1938, n. 322) e il PNF ad emettere un prestito per la 
costruzione (r.d.l. 24 marzo 1938, n. 379). 











220 


Il culto del littorio 


accogliere le adunate della folla nelle manifestazioni solenni», si¬ 
tuata in modo «da non creare pregiudizio alla completa visibilità 
del Palazzo dalla via dell’Impero». In posizione opportuna, nel¬ 
la spianata, doveva «essere considerata la creazione di una ap¬ 
posita tribuna o arengario», per i discorsi del duce. Nel colore, 
il palazzo doveva armonizzarsi con i monumenti circostanti e nel 
suo insieme, la concezione architettonica doveva corrispondere 
«alla grandezza ed alla potenza impresse dal fascismo al rinno¬ 
vamento della vita nazionale nella continuità della tradizione di 
Roma. Il Grande Edificio dovrà essere degno di tramandare ai 
posteri, con carattere duraturo e universale, l’epoca Mussolinia- 
na»^2b Inserendo il proprio monumento fra i monumenti di Ro¬ 
ma e la mole del Vittoriano, il partito ambiva a realizzare una sin¬ 
tesi simbolica, architettonica e urbanistica per immortalare il fa¬ 
scismo quale artefice di una nuova civiltà che rinnovava, nel XX 
secolo, le glorie della romanità. E avrebbe inoltre creato un im¬ 
menso «spazio sacro» fra il Colosseo e piazza Venezia, per la ce¬ 
lebrazione del culto del littorio con grandi adunate e parate. 

Di fronte alla grandiosità monumentale del progetto, si sca¬ 
tenarono vivaci polemiche fra tradizionalisti e modernisti, per la 
scelta del sito e per lo stile architettonico del palazzo, polemiche 
che non coinvolsero solo gli architetti ma risuonarono anche nel¬ 
la Camera dei deputati, dove si confrontarono i fautori e i nemi¬ 
ci del modernismo. Al di là di questa polemica, i maggiori ar¬ 
chitetti italiani, dell’una e dell’altra corrente, si cimentarono e fe¬ 
cero a gara, mostrandosi infervorati dallo spirito «religioso» del¬ 
l’opera, per escogitare un simbolismo adeguato a sintetizzare la 
tradizione e la modernità dei miti fascisti: l’epopea della rivolu¬ 
zione e lo Stato corporativo, il culto della romanità e il culto del 
duce, la devozione alla religione cattolica e la devozione alla re¬ 
ligione fascista, l’itahanità e l’universalità del fascismo^^^. 

Comune a tutti i progettisti era la concezione sacrale dell’e¬ 
dificio, come «tempio della rivoluzione», «tempio del Littorio», 
«Monumento della fede», come pure l’uso di un sincretismo sim- 


Il testo del bando è riprodotto nel volume II nuovo stile Littorio, Roma 
1936 (pp. XV-XVIII) che illustra i progetti accettati, e parte degli esclusi. 

Cfr. Ciucci, Gli architetti e il fascismo cit., pp. 139-151; Cresti, Archi¬ 
tettura e fascismo cit., pp. 178-188; Etlin, Modernism in Italian Architecture cit., 
pp. 426-434. 


y. I templi della fedt 


221 


bolico che attingeva alla tradizione romana, cristiana e fascista 
per esaltarne la sacralità. Ci fu, per esempio, chi ispirò il suo pro¬ 
getto principalmente all’idea del connubio fra cattolicesimo e fa¬ 
scismo, adornando il palazzo del Littorio con un enorme basso- 
rilievo dove erano raffigurati inginocchiati «in mistica preghie¬ 
ra», ai piedi della Vergine, Pio XI e Mussolini, e collocando co¬ 
lonne di santi protettori, come san Giovanni Bosco e san Bene¬ 
detto, a simboleggiare, rispettivamente, l’ONB e le corporazioni. 
Ma questo era un caso isolato, perché la maggior parte dei pro¬ 
getti presentati limitava le citazioni del cattolicesimo al simbolo 
della croce e alla cappella interna, mentre esaltava in ogni modo 
la sacralità del fascismo stesso, del suo simbolo e del suo capo. 
Un architetto, per esempio, proponeva la distinzione fra le di¬ 
verse funzioni dell’edificio, costruendo due Moli, il palazzo del 
littorio e il palazzo della mostra, simboleggianti «l’idea nuova che 
anima l’Uomo Nuovo», uniti da «un legame ideale» come due 
«gradazioni del Sacro» con un «Sacro Recinto». Per la mostra, il 
progettista aveva concepito una «grande ‘Scalea del Calvario’» 
che, ruotando attorno ad una croce luminosa al centro dell’am¬ 
biente circolare della «Torre del sacrifizio», «porta il pellegrino 
[...] di stazione in stazione [...] mentre le pareti gli raffigureran¬ 
no le varie fasi dell’ascesa mistica». I martiri fascisti erano vene¬ 
rati in un sacrario sottostante, anch’esso illuminato tenuemente 
dalla croce, che così chiudeva «il ciclo ideale che congiunge l’o¬ 
locausto del Nazareno, per redimere l’uomo nella sua anima, pu¬ 
rificata, all’Etica del Fascismo». In un ambiente siffatto, visitare 
la mostra sarebbe stato «per l’uomo di fede, ripercorrere il cam¬ 
mino dei Martiri e dei Precursori onde ritemprarsi l’animo»^^^. 
Particolare risalto era dato, in alcuni progetti, all’elemento della 
«torre» come simbolo di potenza e di comando. Un architetto 
aveva concepito una torre che si ergeva su via dell’Impero per 88 
metri, al di sopra di tutti i monumenti circostanti, simboleggian- 
te il «Genio del Duce», con una grande «M» che «illuminata di 
notte, proietterà la sua luce a ricordo imperituro dell’Ideatore 
dello Stato Corporativo»Il simbolo della luce era presente in 
vari progetti, per rappresentare l’avvento radioso della «nuova 


^2^ Il nuovo stile Littorio, cit., pp. hll-òll. 
124 Ivi, p. 241, 




222 


Il culto del littorio 


civiltà», che indicava una via di salvezza a tutta lumanità. Ac¬ 
canto alle vestigia monumentali dell’impero romano, «la prima 
luce», dove «ebbe ed ha tuttora splendore la vita della civiltà mo¬ 
derna», e attorniata dagli edifici sacri dove scaturì la «seconda 
luce» che aveva redento il genere umano, doveva sorgere la Mo¬ 
le del partito fascista, affermava un progetto che si ispirava al 
concetto del «fascio littorio faro di civiltà contemporanea», che 
irradiava «la terza luce» per illuminare la «travagliata conquista 
di una superiore civiltà»^25 Uj^ progetto prevedeva di fron¬ 
te al palazzo, sulla via dell’Impero, un grande fascio littorio con 
la scure che poteva essere illuminata nelle occasioni solenni^^^. Il 
già ricordato architetto Palanti aveva immaginato il palazzo a for¬ 
ma di nave, per simbolizzare la «rotta mussoliniana» additata al 
mondo intero, ed aveva inoltre concepito un gioco di luce a ba¬ 
se di riflettori che avrebbero proiettato raggi luminosi sulla mas¬ 
sa dell’edificio in modo tale da creare effetti «veramente fanta¬ 
stici, come una vera e propria nave illuminata, isolata dal piano 
terra, staccata in posizione di marcia». E dalla nave si ergeva la 
torre che, con l’arengario a forma di scure, formava un fascio, «in 
armonia di espressione con la tagliente parola del Capo»^^^. 

La glorificazione del duce, come nume supremo cui era de¬ 
stinata la «Casa Littoria», risuonava in tutti i progetti. «Sorga 
dunque l’opera simbolica e sia l’Altare della Idea - esultava un 
progettista -, il palazzo da cui continuerà ad irradiare la volontà 
del Duce, la forza delle Sue convinzioni, il fascino della Sua Per- 
sona»^^*. In uno dei progetti, il palazzo era concepito come 
«proiezione iconografica di un immenso aratro col quale il pri¬ 
mo contadino d’Italia, Benito Mussolini, novello Romolo, traccia 
il solco sacro della nuova via dell’Impero», mentre la «classica fi¬ 
gura del Duce, simboleggiante d Veltro atteso dalle genti, si erge 
come un gigante che lancia l’aerea prora, segno della Roma mo¬ 
derna, la nave volante, che deve Illuminare il mondo della sua lu¬ 
ce nuova: la Civiltà Fascista». Tutto l’edificio «è saturo di Lui: 
Mussolini. Ogni pietra vorrebbe avere funzione illustrativa, glo- 

Ivi p. 41. 

126 Ivi, p. 105. 

127 Ivi, p. 59. 

128 Ivi, p. 321. 



Fig. 18. Progetto Crescini per il Palazzo del Littorio (1934). 











224 


Il culto del littorio 


rificatrice della sua opera»^^^. Alla divinizzazione simbolica di 
Mussolini parteciparono anche Terragni e Sironi. Essi facevano 
parte di un gruppo che presentò due progetti, uno dei quali (il 
progetto A) ispirato ai «concetti di universalità, di unità, di po¬ 
tenza e di sapienza, in diretto collegamento coUe tradizioni im¬ 
periali del Foro Romano», proponeva un complesso architetto¬ 
nico di corpi distinti, che dava però preponderanza «al fattore 
‘Mostra della Rivoluzione e Sacrario’ cristallizzato in una costru¬ 
zione eterna, templare» separata dall’organismo propriamente 
amministrativo, come spiegava la relazione illustrativa. Nel pa¬ 
lazzo della Rivoluzione, all’ultimo piano, erano la sala del duce e 
del segretario del partito, che «si affacciano sulla via dell’Impe¬ 
ro assumendo posizione di Comando. In alto, in continuazione 
della grande sala è il podio dal quale il Duce si mostrerà. Da là 
tutti lo possono vedere. Egli è come un Dio, contro il cielo, so¬ 
pra di Lui non c’è nessuno. Tutta la facciata inneggia alla Sua for¬ 
za, al Suo Genio — da tutte le parti della grande via che è il cuo¬ 
re di Roma, il polso del mondo, da piazza Venezia, agli archi del 
Colosseo, alto, solo, nella luce. Egli sarà di fronte alle moltitudi¬ 
ni acclamanti: di tutti - con tutti»^^®. Al duce era dedicata anche 
la facciata del palazzo: «nella grande parete di granito, vi sarà una 
sola finestra sulla Via dell’Impero: la Sua, sulla quale saranno 
scolpite le Sacre parole del giuramento» 

Fra un centinaio di progetti presentati, ne furono.prescelti 12 
dalla commissione^^2 presieduta dal segretario del PNF, che bandì 
un concorso di secondo grado nell’aprile 1937, in cui era richiesto 
un corpo monumentale come sede del direttorio nazionale del PNF 
con gli uffici del duce e del segretario del partito; la «Torre littoria» 

'29 Ivi, pp, 183-184. 

Relazione al progetto A, cit. in F. Benzi, Sironi e l’architettura, in Siro¬ 
ni. Il mito dell’architettura cit., p. 120. 

131 Progetto Carminati, Lingeri, Saliva, Terragni, Vietti, Sironi, riportato in 
Il nuovo stile Littorio, cit., pp. 1-4. 

'^2 Della commissione facevano parte Giovanni Marinelli, segretario am¬ 
ministrativo del PNF, il principe Francesco Boncompagni Ludovisi, governa¬ 
tore di Roma, gli architetti Armando Brasini, Cesare Bazzani, Marcello Pia¬ 
centini, il senatore Corrado Ricci, il segretario nazionale del Sindacato fascista 
architetti, il segretario del Sindacato fascista ingegneri, l’ispettore generale dei 
Servizi tecnici del Governatorato e il direttore dell’Ufficio di Belle arti del Go¬ 
vernatorato. 



Figg. 19-20. Progetto A Carminati-Lingeri-Saliva-Terragni-Vietti-Si- 
roni per il Palazzo del Littorio (1934). In alto, il plastico del proget¬ 
to; in basso, scorci della facciata. 











Fig. 21. Progetto Del Debbio-Foschini-Morpurgo per il Palazzo del 
Littorio. 


V. I templi della fede 


221 


con la sacrestia del labaro del PNF, il Sacrario, e le sedi per le or¬ 
ganizzazioni dipendenti dal partito. Vinse il progetto degli archi¬ 
tetti Del Debbio, Foschini e Morpurgo, che però dovette essere an¬ 
cora modificato perché Mussolini decise che l’edificio doveva sor¬ 
gere non più sulla via dell’Impero ma nella zona del Foro Mussoli¬ 
ni, ottenendo così «un significativo riavvicinamento materiale fra il 
centro da cui promana e si diffonde lo spirito dell’idea fascista, e la 
palestra dove la nuova gioventù d’Italia tempra il corpo per mag¬ 
gior gloria della Patria»^^^. I lavori di costruzione furono iniziati il 
28 ottobre 1938, ma l’opera rimase incompiuta per la guerra, anche 
se il partito vi portò per un breve periodo la sua sede^^'^. 

Eguale sorte d’opera incompiuta toccò al più ambizioso pro¬ 
getto monumentale immaginato dal regime per esaltare il culto 
del littorio ed eternare il «tempo di Mussolini». Si tratta del pro¬ 
getto dell’Esposizione universale romana (EUR), varato il 1936 
nel clima di entusiasmo per la recente riapparizione dell’impero 
sui «colli fatali» di Roma^^L Concepita come «Olimpiade delle 
civiltà» fra le nazioni per illustrare il contributo che ciascuna di 
esse aveva dato al progresso dell’umanità, l’EUR avrebbe cele¬ 
brato la superiorità dell’Italia ripercorrendo ventisette secoli del¬ 
la sua civiltà dalla romanità aU’«epoca di Mussolini il quale, co¬ 
me nessun altro genio politico, ha saputo e sa far vivere gli ita¬ 
liani in una esaltante atmosfera di romanità»^^^. L’apertura, pre¬ 
vista per il 1942, nel quadro delle celebrazioni per il ventennale 
del regime, fu rinviata a causa della guerra a dopo 1 auspicata vit¬ 
toria dell’Asse. Il rinvio comportò una significativa revisione del 
programma iniziale: l’idea dell’«01impiade delle civiltà» fu so¬ 
stituita con quella della «Esposizione della pace», attribuendogli 
una più marcata funzione politica, al fine di dimostrare, in una 
«cortese competizione»^^^ fra i due imperi egemonici dell’Euro- 

La «Casa Littoria» a Roma, in «Annali dei Lavori Pubblici», 1937, 
fase. 11. 

Attualmente è sede del ministero degli Esteri. 

1^5 Cfr. E42. Utopia e scenario del regime, voi. I, a cura di T. Gregory e A. 
Tartaro, voi. II, a cura di M. Calvesi, E. Guidoni, S. Lux, Venezia 1987. 

1 J 6 -primo abbozzo della Mostra della Civiltà Italiana per la Quinta Sezione, 
dal Settecento all’anno MCMXXII, cit. in E. Garin, La civiltà italiana nell’e¬ 
sposizione del 1942, in E42, voi. I, cit., p. 15. 

Revisione del programma di massima del 1937, in ACS, PCM, Gabinet- 







228 


Il culto del littorio 


pa deir Asse, il primato universale della «nuova civiltà» fascista, 
cui sarebbe spettato il diritto di dare principi e istituti per l’Or¬ 
dine nuovo. 

Il progetto dell’EUR andava oltre il carattere effimero dell’e¬ 
sposizione. Fin dal principio, infatti. Mussolini aveva deciso di 
trasformarla in un complesso architettonico duraturo, farne il 
nucleo urbanistico di una «città nuova» che doveva rappresen¬ 
tare «la manifestazione di una collettività organizzata gerarchi¬ 
camente indirizzata e guidata da una mente ordinatrice»^^*. 
L’EUR sarebbe stato il centro monumentale della nuova Roma 
mussoliniana in espansione verso il mare, moderna capitale del¬ 
l’impero e di una «nuova civiltà»: «Chi venendo da Roma o dal 
mare si affaccerà dalla via dell’Impero [...] vedrà aprirsi, fra can¬ 
didi marmi e travertini dorati, la città nuova, viva d’acque e di 
verde; una città degna di stare accanto all’antica, ma con questo 
in più; che essa nella sua cornice di severa e potente architettu¬ 
ra sarà atta ad accogliere la multanime, dinamica vita d’oggi e di 
domani»^^^. La nuova città, unendo funzionalità e monumenta- 
lità simbolica, avrebbe avuto luoghi di culto, di festa e di diver¬ 
timento per le masse. 

Tutta la cultura italiana, umanistica, artistica e scientifica ven¬ 
ne mobilitata per la realizzazione dell’ambizioso progetto. Agli 
architetti fu assegnato il compito più impegnativo: costruire una 
«messa in scena che abbia del magico»^-*®, per dare alle masse 
«un grandioso spettacolo dimostrativo, realizzato col far muove¬ 
re il pubblico entro un’attrezzatura scenica fissa» di architetture, 
sculture e decorazioni murali di «grande efficacia visiva, atti a 
colpire e impressionare l’immaginazione di chi guarda», rag¬ 
giungendo «la memoria dei visitatori attraverso la fantasia», per 
mostrare «al popolo la magica continuità, universalità e attualità 


to, 1937-1939, fase. 14.1 n. 200.6.3, cit. in P. Ferrara, L’EUR: un ente per l’E 
42, in E42, voi. I, cit., p. 81. 

G.L. Banfi, L.B. Belgiojoso, Urbanistica anno XII. La Città Corporativa, 
in «Quadrante», n. 13, maggio 1934, cit. in E. Guidoni, L’E 42, Città della rap¬ 
presentazione, in E42, voi. II, cit., p. 30. 

V. Cini, Significato e aspetti dell’esposizione universale di Roma, in «Ci¬ 
viltà», n. 1, aprile 1940, p. 11. 

Mostra della Civiltà Italiana. Lineamenti programmatici, p. 28, cit. in S. 
Lux, Oppo: la committenza, in E42, voi. II, cit., p. 211. 


V. I templi della fede 


229 


della civiltà italiana, nostro privilegio e segno distintivo di quel 
primato che il Gioberti esaltava»^-^L La funzione politica e pro¬ 
pagandistica della monumentalità dell’EUR, presentata dagli 
stessi progettisti e commentatori con espliciti riferimenti simbo¬ 
lici e cultuali, informava in realtà tutta la concezione urbanistica, 
architettonica e decorativa della nuova città, mirante alla «esal¬ 
tazione di un fondale sacrale ispirato ai valori del fascismo» 

Il culto del littorio avrebbe avuto un nuovo «centro sacro» per 
l’autoglorificazione del fascismo e del popolo italiano, attraverso 
la storia trasfigurata in mito dalla rappresentazione simbolica di 
una monumentalità grandiosa e solenne, come un «teatro di ar¬ 
chitetture favolose, nate da un’evocazione [...] effettiva espres¬ 
sione, di dimensioni mai viste, di un realismo magico», che non 
voleva ripetere moduli del passato ma produrre «una estasi ar¬ 
chitettonica che traspone i partiti classici in una evocazione liri¬ 
ca ed astratta»^"^^. 

Nella «città nuova» avrebbero avuto sede permanente la mo¬ 
stra della romanità e le mostre dedicate alle istituzioni del regi¬ 
me e agli aspetti della vita sociale, culturale, economica, produt¬ 
tiva, scientifica dell’Italia fascista. Tema dominante era comun¬ 
que la «glorificazione e celebrazione del nuovo ordine originato 
dal fascismo». Nella sezione dell’esposizione dedicata al PNF, ol¬ 
tre il sacrario dei martiri, era prevista una imponente ara, con¬ 
cepita sul modello all’Ara pacis di Augusto, che doveva «rappre¬ 
sentare il trionfo dell’idea fascista e consacrare la pace dei popoli 
annunciando l’inizio della nuova Era»^"^"*; dall’interno dell’ara, 
una potente sorgente luminosa avrebbe proiettato «nel cielo di 
Roma un immenso fascio di luce»*‘^5. Potenti riflettori avrebbe¬ 
ro illuminato di notte anche un grande «arco dell’Impero» in al- 

‘4' Relazione degli architetti Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers in E42, 
voi. II, cit., p. 74. 

E. Guidoni, L’E 42, Città della rappresentazione. Il progetto urbanistico 
e le polemiche sull’architettura, in E42, voi. II, cit., p. 23. 

G. Ponti, Olimpiade della civiltà. L’E42 città favolosa, in «Corriere del¬ 
la Sera», 4 maggio 1938, cit. in Guidoni, L’E12, Città della rappresentazione, 
cit., p. 62. 

i"*'* Revisione del «Programma di massima» del 1937, riportato in E42, voi. 
I, cit., p. 169. 

145 Progetto Cini, approvato da Mussolini il 4 gennaio 1941, cit. in E42, 
voi. II, cit., p. 65. 






Fig. 22. Plastico dell’EUR (1938) con l’arco cleirimpero. 


V. I templi della fede 


231 


luminio e acciaio, alto 40 metri, sovrastante la via Imperiale, as¬ 
se sacro della nuova città, come un arcobaleno di pace, simbolo 
trionfale della nuova «pace romana» realizzata, dopo la vittoria 
dell’Asse, nel segno del littorio*"*^. Luce e colore avevano un ruo¬ 
lo decisivo nell’architettura simbolica dell’EUR e nel suo signifi¬ 
cato religioso. La bianca solarità mediterranea dei monumenti e 
gli effetti di luce, che avrebbero fatto della notte giorno, avreb¬ 
bero conferito alla nuova città l’atmosfera mistica di un centro 
sacro, quali simboli della vittoria sulle tenebre ed il caos della lu¬ 
ce della religione fascista, che irradiava dalla Roma mussoliniana 
i valori di una nuova civiltà. 

Religiosità ed arte, è stato osservato, «si ritrovano sullo stes¬ 
so piano ‘mistico’ che fin dall’inizio (ma con crescente intensità 
negli anni della guerra) ha caratterizzato il progetto dell’Esposi¬ 
zione come città della rappresentazione e degli effetti lumino- 
si»^'*'^. La monumentalità dell’EUR proponeva, in questa pro¬ 
spettiva, un nuovo esempio di sincretismo simbolico tra fascismo 
e cattolicesimo nel mito della romanità. La mostra assegnava una 
sezione importante ad illustrare il contributo della Chiesa alla 
formazione della civiltà italiana, mentre per il culto religioso era 
previsto un tempio dedicato ai SS. Pietro e Paolo. Ma il vero cen¬ 
tro spirituale dell’esposizione e della «città nuova» era il palazzo 
che avrebbe ospitato in permanenza la mostra della civiltà italia¬ 
na, dai tempi di Augusto a Mussolini: era questa, scriveva Emi¬ 
lio Cecchi, «materia religiosa, da non poter tentarne la celebra¬ 
zione fuor che con religiosa reverenza»^'^^, e tale da conferire al¬ 
l’edificio «un attributo sacro: quasi Tempio della stirpe» come lo 
definiva un gruppo di architettiAdeguato ad assolvere que¬ 
sta sacra funzione simbolica fu giudicato il progetto degli archi¬ 
tetti Guerrini, La Padula e Romano: il cosiddetto «Colosseo qua¬ 
drato», con le quattro facciate traforate da archi romani, ripetu¬ 
ti «con una insistenza ritmica, che vuole appunto essere una af¬ 
fermazione di essenzialità eterna» oltre che «chiara espressione 


Cfr. E42, voi. II, cit., pp. 467-470. 

Guidoni, L’E42, Città della rappresentazione, cit., p. 35. 

E. Cecchi, Il palazzo della Civiltà italiana, in «Civiltà», n. 3, ottobre 1940. 
G.L. Banfi, L.B. Belgiojoso, G. Ciocca, E. Peressutti, E.N. Rogers, Re¬ 
lazione sul progetto architettonico per il Palazzo della Civiltà italiana, cit. in A. 
Mantoni, E42, i concorsi, in E42, voi. II, cit., p. 91. 



232 


Il culto del littorio 


di romana italianità»^^®. E come in un tempio romano, la deco¬ 
razione dell’edificio avrebbe visualizzato, in affreschi e statue, i 
miti, i valori e gli eroi del culto del littorio. Parte preminente nel¬ 
la mostra avrebbero avuto le sale dedicate al culto dei grandi uo¬ 
mini rappresentativi di un «popolo di poeti di artisti di eroi di 
santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori» se¬ 
condo la definizione mussoliniana, che si stagliava sulla fronte di 
questo Pantheon fascista, dove il popolo avrebbe venerato gli 
eroi della civiltà italiana, da Cesare, fondatore del primo impero, 
a Mussolini, fondatore del secondo impero. La sala Mussolini era 
destinata alla glorificazione del duce che «riassume in sé le più 
profonde aspirazioni della stirpe [...] In Lui si concludono qua¬ 
si due millenni di storia. Solo oggi Roma, dopo Augusto, ha una 
missione politica universale [...] L’esaltazione del nostro Capo 
dovrà essere di altissimo tono spirituale»^^^ 


Relazione di Guerrini, La Radula, Romano cit. in E42, voi. II, cit., p 

354. 

Mostra della Civiltà Italiana. Criteri fondamentali per la presentazione 
della Mostra, Roma 1939, p. 32. 


VI 

IL «NUOVO DIO D’ITALIA» 


E quindi non posso dire altro non sapendomi 
meglio esprimermi, non ho potuto andare un- 
po di piu ascuoia mangava il potere, intutto 
ciò io credo che il Duce mi perdona mi assol¬ 
ve i miei errori comessi in questi 3 fogli. Non 
mi rimane altro solo mi spinge il cuore di gri¬ 
dare evviva il nostro capo del Governo eviva 
luomo di ferro, evviva il Leone e il Salvatore 
d’Italia dal Bolscevismo evviva il nuovo Dio 
d’Italia, e dell’Italia nuova. 

Io sono nato contadino e muorerò contadino 
nel prosimo Dicemmbre tornerò di nuovo al¬ 
la mia bella Patria e al mio bello Paese dove 
sono nato e fatto grande e ciò la mia consor¬ 
ta con 2 figli. 

S.M. a Mussolini, Struthers (Ohio), 
26 marzo 1930 

Qualche cosa, che da più di vent’anni mi bat¬ 
teva nel cuore, s’arresta di colpo: un Amore, 
una fedeltà, una dedizione. Ora, sono solo, 
senza il mio Capo [...] Un Capo è tutto nella vi¬ 
ta d’un uomo: origine e fine, causa e scopo, 
punto di partenza e traguardo; se cade, dentro 
si fa una solitudine atroce. Vorrei ritrovarlo il 
Capo, rimetterlo al centro del mio mondo, 
riordinarlo, questo mio mondo, intorno a lui. 
Ò paura, paura che questo non mi riesca più. 
Ora, so cos’è la paura: un precipitare improv¬ 
viso d’una ragione di vita. 


G. Bottai 




L’universo simbolico della religione fascista ruotava attorno al 
mito e al culto del duce, che furono certamente la manifestazione 
più spettacolare e popolare del culto del littorio. Ma questa centra¬ 
lità non deve essere tuttavia fraintesa, attribuendo al mito di Mus¬ 
solini l’origine della religione fascista. Come abbiamo visto, questa 
si era formata dall’esperienza collettiva di un movimento che si con¬ 
siderava investito di un proprio carisma missionario, che non veni¬ 
va affatto identificato, all’inizio, con la figura di Mussolini. Nella 
formazione dell’autorappresentazione del fascismo come religione 
erano confluite tradizioni che risalivano indietro nel tempo; e la mi¬ 
tologia fascista, in parte derivata da queste tradizioni, in parte sorta 
dall’esperienza stessa del fascismo, era più ricca e complessa del mi¬ 
to mussoliniano, e in nessun modo può essere risolta in esso, anche 
se questo vi occupa una posizione primaria. La nascita del culto del 
duce avvenne nell’ambito della religione fascista dopo che questa 
era stata istituzionalizzata, ed era perciò una sua derivazione, anche 
se la figura del duce possedeva una propria «numinosità» emanan¬ 
te dalla personalità carismatica di Mussolini. Indubbiamente il mi¬ 
to di Mussolini, che - va precisato - traeva alimento anche da am¬ 
bienti esterni al fascismo, contribuì ad incrementare e a valorizzare 
la dimensione fideistica del fascismo, ma la presenza di questa di¬ 
mensione contribuì a sua volta a rafforzare il ruolo carismatico del 
capo e ad esaltare il mito mussoliniano, fino a collocarlo al centro 
del culto del littorio. La figura del duce, come componente fonda- 
mentale dell’universo mitico e simbolico del fascismo, quale diven¬ 
ne effettivamente dopo il 1925, non può dunque essere vista come 
un elemento indipendente dalla religione fascista. 


Il mito e il culto 

Per poter meglio inquadrare il «mussolinismo» nell’ambito 
del culto del littorio, è opportuno fare una distinzione fra il mi- 








236 


Il culto del littorio 


to, o meglio, i miti di Mussolini e il culto del duce. Il culto del¬ 
la personalità si fonda sempre sul mito, ma non sempre il mito 
di una personalità è accompagnato da atti rituali di dedizione 
e di devozione. Nel caso di altri capi carismatici, come Stalin e 
Hitler, mito e culto si sono sviluppati simultaneamente all’inter¬ 
no dei loro movimenti e in funzione di questi. Nel caso di Mus¬ 
solini, invece, il mito non solo ha preceduto il culto, ma si è ma¬ 
nifestato con diversi aspetti prima della nascita del fascismo e del¬ 
la sua ascesa al potere. Ci sono stati, infatti, vari «miti» di Mus¬ 
solini che si manifestarono in periodi diversi della sua vita, ed eb¬ 
bero origine nell’ambito di differenti ambienti e situazioni poli¬ 
tiche e culturali. E ciascuno di questi miti contribuì a far sorgere 
attorno alla figura di Mussolini un alone carismatico, preparan¬ 
do le condizioni per la nascita del mito fascista di Mussolini e la 
istituzione di un culto della sua persona negli anni del regimeh 
Si può parlare, innanzi tutto, di un mito socialista di Mussolini, 
sorto quando egli a soli ventinove anni, da sconosciuto dirigen¬ 
te di provincia del partito socialista, balzò sulla scena nazionale 
come r«uomo nuovo» della corrente rivoluzionaria che prese la 
guida del partito nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912. 
Mussolini divenne l’idolo delle masse socialiste, il modello del ca¬ 
po rivoluzionario, il simbolo del nuovo socialismo intransigente 
che aveva liquidato il riformismo e marciava risoluto verso la ri- 


' Mancano studi sistematici sul mito di Mussolini. Per una prima informa¬ 
zione su alcuni aspetti di questo mito cfr. D. Biondi, La fabbrica del Duce, Fi¬ 
renze 1967; P. Melograni, The Cult of thè Duce in Mussolini’s Italy, in «Jour¬ 
nal of Contemporary History», 1976, pp. 221-237; A.B. Hasler, Das Duce-Bild 
in der Faschistischen Literatur, in «Quellen und Forschungen», 60, 1980, pp. 
421-506; J. Petersen, Mussolini: Wirklichkeit und Mythos eines Diktators, in 
Mythos und Moderne, Frankfurt a.M. 1983, pp. 242-260; E. Gentile, Il mito di 
Mussolini, in «Mondo operaio», n. 7- 8, 1983, pp. 113-128; A.M. Imbriani, Il 
mito di Mussolini tra propaganda e culto di massa. Le origini (1923-1926), in 
«Prospettive settanta», n. 2, 3, 4, 1988, pp. 492-512. 

La migliore introduzione critica al problema del mito di Mussolini, corre¬ 
data da un ricco apparato di testi coevi e di fotografie che riproducono, in for¬ 
ma immediata, la proiezione del mito attraverso la propaganda del regime, ri¬ 
mane tuttora R. De Felice, L. Coglia, Mussolini. Il mito, Roma-Bari 1983. Ster¬ 
minata, invece, è la letteratura apologetica della pubblicistica fascista, utile per 
seguire la rappresentazione del mito mussoliniano negli anni del regime. Su 
questo aspetto, oltre al citato saggio di Hasler, cfr. L. Passerini, Mussolini im¬ 
maginario, Roma-Bari 1991. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


237 


voluzione. Ma quando Mussolini compì la scelta dell’intervento, 
il mito socialista crollò, trasformandosi neU’antimito del tradito¬ 
re venduto e corrotto. Tuttavia, negli anni fra il 1912 e il 1914, 
accanto al mito socialista, s’era formato un altro mito mussoli¬ 
niano fra gli intellettuali che militavano nel composito fronte del- 
l’antigiolittismo, radunati attorno a «La Voce» di Prezzolini e 
all’«Unità» di Salvemini. Per Prezzolini, Mussolini era «un uomo 
e risalta tanto più in un mondo di mezze figure»^. Salvemini am¬ 
mirava il giovane capo socialista «uomo forte e diritto», rivolu¬ 
zionario sul serio di quelli che «parlano come pensano, e opera¬ 
no come parlano, e perciò portano in sé tanta parte dei futuri de¬ 
stini d’Italia»h Questo mito sopravvisse, ed anzi si rafforzò do¬ 
po il crollo del mito socialista, perché la scelta interventista di 
Mussolini fu considerata una conferma del mito dell’uomo nuo¬ 
vo della politica italiana, l’uomo che nel suo dramma politico per¬ 
sonale simbolizzava «il dramma di tutta la nostra generazione», 
come scriveva il 15 novembre 1914 il pittore futurista Carlo 
Carrà*’. Da idolo delle masse socialiste. Mussolini divenne l’eroe 
delle avanguardie politiche e culturali dell’interventismo, come 
futuro rinnovatore nazionale: «tu, Benito Mussolini [...] devi da¬ 
re all’Italia il nuovo popolo», scriveva un giovane meridionale al¬ 
la fine del 1914^. 

Questo nuovo mito accompagnò Mussolini anche nel dopo¬ 
guerra, ma la sua forza di attrazione rimase limitata nell’ambito 
delle «aristocrazie del combattentismo», come gli arditi, i futuri¬ 
sti, e i reduci interventisti con i quali Mussolini diede vita al mo¬ 
vimento fascista. La nascita del culto del duce non fu contempo¬ 
ranea alla nascita e allo sviluppo del fascismo, anche se l’appel¬ 
lativo di «duce», già usato per Mussolini nel periodo socialista, 
gli veniva attribuito dai fascisti secondo una tradizione di lin¬ 
guaggio tipica della sinistra italiana. Per la maggior parte dei pri¬ 
mi fascisti, almeno fino alla fine del 1921, il duce, cioè il capo ca¬ 
rismatico della «rivoluzione italiana», non era Mussolini, ma 


2 «La Voce», 4 dicembre 1913. Cfr. E. Gentile, Mussolini e «La Voce», Fi¬ 
renze 1976. 

^ «L’Unità», 26 settembre e 24 ottobre 1912; 19 giugno 1914. 

'' Lettera a G. Prezzolini, cit. in E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dal- 
l’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari 1982, p. 122. 

’ «Il Popolo d’Italia», 29 novembre 1914. 




238 


Il culto del littorio 


D’Annunzio, al quale si rivolsero, specialmente durante l’impre¬ 
sa di Fiume, i vari movimenti del nazionalismo rivoluzionario. 
Nella stessa organizzazione del movimento fascista. Mussolini, 
pur essendo il dirigente più prestigioso, perché unica figura di ri¬ 
lievo nazionale e direttore di un influente quotidiano, era soltanto 
membro dell’ufficio di propaganda e della commissione esecuti¬ 
va; e la sua autorità non era affatto indiscussa e venerata come 
quella di un capo carismatico. Per i fascisti che lo conoscevano 
era il «compagno» o r«amico Benito», per gli altri era «il prof. 
Mussolini»'’. Quando il fascismo divenne un movimento di mas¬ 
sa, Mussolini dovette far fronte ad una vera e propria rivolta dei 
principali capi squadristi contro le sue pretese di essere ricono¬ 
sciuto come fondatore e duce del fascismo. Soltanto dopo il con¬ 
gresso del novembre 1921, che sanzionò la trasformazione del 
movimento in partito, Mussohni venne accettato come duce del 
fascismo, anche se ciò non implicava alcuna autorità dittatoriale, 
sul tipo di quella che riuscì ad ottenere Adolf Hitler, in quello 
stesso anno, nel partito nazionalsocialista^. La figura di Mussoli¬ 
ni si impose allora più per le sue doti politiche che per il rico¬ 
noscimento in lui, da parte dei fascisti, di straordinarie doti ca¬ 
rismatiche. Egli, cioè, fu accettato come duce dopo che i capi 
provinciali, fallita la rivolta antimussoliniana e il tentativo di por¬ 
re alla guida del fascismo D’Annunzio, si erano resi conto che 
nessuno di loro poteva seriamente contendere a Mussolini la gui¬ 
da del movimento e preservarne nello stesso tempo l’unità. Mus¬ 
solini era l’unico in grado di tenere unito quell’insieme precario 
di potentati locali che era allora il fascismo. Ma anche dopo l’an¬ 
data al potere, emersero nuovamente, all’interno del fascismo, re¬ 
sistenze contro la pretesa di Mussolini di esercitare, facendo le¬ 
va sulla sua autorità di presidente del Consiglio, una autorità as- 


* Cfr. M. Gradi, Il sindacato nel fascismo, Roma 1987, p. 45. 

^ Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere 1921- 
1925, Torino 1966, pp. 149-193; E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919- 
1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989, cap. IV; sulla posizione di Hitler 
nel partito nazionalsocialista, cfr. D. Orlow, The History of thè Nazy Party, voi. 
I, Newton Abbot 1969, pp. 23-36; W. Horn, Fiihrerideologie und Parteiorga- 
nisation in der NSDAP (1919-1933), Dùsseldorf 1972, pp. 45-74. Sulla com¬ 
plessa e discussa teoria del capo carismatico di M. Weber, cfr. in particolare 
L. Cavalli, Il capo carismatico, Bologna 1981; A. Schweitzer, The Age of Chari- 
sma, Chicago 1984. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


239 


soluta e indiscutibile come duce del fascismo, cui era dovuta una 
totale obbedienza. Nelle varie crisi che sconquassarono il parti¬ 
to fascista fra il 1923 e il 1925, ci furono fascisti che respinsero 
l’identificazione fra fascismo e mussolinismo. Ancora nel 1924, 
Camillo Pellizzi ricordava a Mussolini che «un grande moto po¬ 
litico, o una nazione in marcia, non si riassume mai totalmente 
in un Capo. Così il Fascismo non si riassume in Voi»^. 

Tuttavia proprio queste crisi favorirono l’ascesa del mito del 
Duce, esaltato, spontaneamente e strumentalmente, come unico 
fattore di coesione del fascismo e unico punto di riferimento al 
di sopra dei potentati fascisti locali. Nelle rivalità fra i capi fa¬ 
scisti, tutti finivano col fare ricorso all’autorità di Mussolini per 
legittimare le loro azioni, contribuendo così ad accrescerla. Con 
la costruzione del regime fascista, l’autorità di Mussolini si af¬ 
fermò ormai incontrastata, dando nuovo prestigio al mito del du¬ 
ce, come elemento necessario di coesione e di stabilità nell’equi- 
librio di forze che costituivano il regime, e come supremo arbi¬ 
tro e mediatore fra i vari «ducetti», che potevano collaborare su¬ 
perando le loro rivalità d’ambizione solo sottomettendosi insie¬ 
me all’autorità del duce^. Durante le varie fasi di costruzione del 
regime fascista, la posizione del duce fu codificata negli ordina¬ 
menti del partito e dello Stato in forme che ne accentuarono pro¬ 
gressivamente la superiorità come capo del fascismo. Nello sta¬ 
tuto del 1926, la figura del duce appare per la prima volta nel¬ 
l’ordinamento del partito, collocata al vertice della gerarchia del 
PNF come «guida suprema». Il primo catechismo di dottrina fa¬ 
scista, approntato da Turati e destinato ai giovani e al popolo, si 
concludeva con domande e risposte sul duce e con il giuramen¬ 
to fascista, definito «dovere degl’italiani verso Mussolini e verso 
la Rivoluzione fascista»^®. Nello statuto del 1932, il duce venne 
innalzato al di sopra e collocato al di fuori della gerarchia, e in 
quello del 1938 fu formalmente definito «Capo del PNF». Nel 
1938 fu pubblicato dal PNF il nuovo catechismo di dottrina fa¬ 
scista, aggiornato l’anno successivo con la sezione dedicata alla 
«difesa della razza», nel quale il duce era definito «il creatore del 


* C. Pellizzi, Fascismo-aristocrazia, Milano 1925, p. 8. 

^ Cfr. M. Rivoire, Vita e morte del fascismo, Milano 1947, p. 107. 
La dottrina fascista, Roma 1929, p. 62. 






240 


Il culto del littorio 


fascismo, il rinnovatore della società civile, il Capo del popolo 
italiano, il fondatore dell’Impero»^^. Nel corso della sistemazio¬ 
ne costituzionale degli istituti del regime fascista, in continua evo¬ 
luzione, la figura del duce acquistò un significato giuridico, per¬ 
ché con tale qualifica si intendeva non solo il «duce del partito» 
ma «il Duce del Fascismo, cioè la guida, il Capo supremo del Re¬ 
gime, che si identifica ormai indissolubilmente con lo Stato»^^. 
Si giunse così alla piena inserzione del mito mussoliniano nella 
struttura giuridica e istituzionale dello Stato fascista, che venne 
ad assumere quella particolare fisionomia di cesarismo totalitario, 
come l’abbiamo definito^^ data l’estensione e l’intensità delle at¬ 
tribuzioni riservate a Mussolini, in quanto «mito» e «duce», nel¬ 
la prassi, nella legislazione, nella teologia e nella liturgia dello Sta¬ 
to fascista. 

L’affermazione e l’istituzionalizzazione del mito e del culto del 
duce non sono riducibili però soltanto alle vicende interne del 
fascismo. Il mito del duce, quale emerse dopo la «marcia su Ro¬ 
ma», fu costituito da elementi molteplici, anche esterni al fasci¬ 
smo. E perciò opportuno, come è stato giustamente osservato^*^, 
fare una distinzione fra le manifestazioni propriamente fasciste 
del mito e del culto del duce, riconducibili a motivazioni pro¬ 
priamente politiche e ideologiche, e le manifestazioni generica¬ 
mente popolari, spesso prive di queste motivazioni. 


Il culto del capo 

Le basi per istituire il culto del duce, come capo assoluto e 
indiscusso del fascismo, furono poste con l’istituzionalizzazione 
della religione fascista, trasformando il rapporto fra il duce e i fa¬ 
scisti in una relazione carismatica di dedizione ed obbedienza ba¬ 
sata sulla fede e sul riconoscimento a Mussolini della qualità di 

" Il primo libro del fascista, Roma 1938. 

La legislazione fascista nella XXIX Legislatura 1931-1939, Roma s.d., voi. 
I, p. 13. 

Lfr. E. Gentile, Partito, Stato e Duce nella mitologia e nella organizza¬ 
zione del fascismo, in K.D. Bracher, L. Valiani (a cura di), Fascismo e nazio¬ 
nalsocialismo, Bologna 1986, pp. 265-294. 

'‘1 De Felice, Coglia, Mussolini cit., p. 11. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


241 


fondatore e massimo interprete del fascismo e della sua missio¬ 
ne storica. Da questo punto di vista, fu Augusto Turati, segreta¬ 
rio del PNF dal 1926 al 1930, il fondatore del culto. Awiando il 
processo di mussolinizzazione del fascismo. Turati collocò il du¬ 
ce sull’altare del culto del littorio, offrendolo alla venerazione 
delle masse fasciste. Mussolini, proclamava Turati, era il Capo 
«che la Rivoluzione ha voluto dal 1914 al 1922 - che nell’Otto¬ 
bre l’ha attuata - che da allora la guida. Un Capo, il solo Capo, 
da cui ogni potere promana. Il pilota, il solo pilota cui nessuna 
ciurma può sostituirsi»^^, «intento a plasmare la creatura nuova 
italiana, tutta tesa, anima e corpo, al grande domani»*^, con la 
sua mente «geniale e possente»^^. Il duce era anche «il più bel¬ 
lo, il più forte, il più buono dei figli» della Madre Italia’^^. Ma la 
formalizzazione del culto del duce fu soprattutto opera di Stara- 
ce^^, che moltiplicò le formule e i riti di devozione, dal modo in 
cui si doveva scrivere la parola «duce», tutta in maiuscolo, al ce¬ 
rimoniale che doveva accompagnare l’apparizione pubblica di 
Mussolini, con il rito del «Saluto al duce»^”. 

Con la istituzione del culto del littorio, l’esaltazione della fi¬ 
gura di Mussolini divenne la principale attività della «fabbrica 
del consenso»^h che lavorò a ritmo sempre più intenso per 
diffondere fra le masse il mito e il culto del duce, rendendo la 
sua immagine onnipresente, rappresentandolo come un «eroe dai 
mille volti». La dilatazione della dimensione di grandezza attri¬ 
buita alla personalità mussoliniana non conobbe più limiti né di 
tempo né di spazio. La santificazione proposta nella mostra del- 

A. Turati, Dna rivoluzione e un capo, Roma-Milano s.d. (1927), p. 143. 

Id., Ragioni ideali di vita fascista, Roma s.d. (1926), p. 79. 

12 Ivi, p. 58. 

1® A. Turati, Il partito e i suoi compiti, Roma s.d. (1928), p. XXV. 

11 Cfr. P. Pombeni, Demagogia e tirannide, Bologna 1984, pp. 243-241. 

2" Dopo la conquista dellTmpero, Starace mutò la formula del rito in «Ca¬ 
micie nere, salutate nel duce il fondatore dellTmpero», ma la nuova formula 
irritò Mussolini, che ne chiese la revoca perché gli suonava come «una litania. 
Verrebbe voglia di finire con un Amen [...] È troppo lunga. Se non lo dirà nes¬ 
suno ‘Amen’ lo dirò io». Cfr. ACS, SPD, CR, b. 46, telegrammi di Mussolini 
a O. Sebastiani, Forlì 27 e 28 maggio 1937, cit. in S. Setta, Achille Starace, in 
F. Cordova (a cura di). Domini e volti del fascismo, Roma 1980, p. 468. 

2' Cfr. P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, 
Roma-Bari 1975. 




242 


Il culto del littorio 


la rivoluzione fascista, come profeta, salvatore, artefice e guida 
della nazione, era soltanto uno degli aspetti della trasfigurazione 
mitica di Mussolini. Egli veniva rappresentato, al di sopra della 
scena italiana, come la somma e la sintesi superiore d’ogni tipo 
di grandezza d’uomo di pensiero e d’uomo d’azione mai appar¬ 
si in qualsiasi epoca; statista, legislatore, filosofo, scrittore, arti¬ 
sta, genio universale ma anche profeta, messia, apostolo, maestro 
infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di desti¬ 
no, annunciato dai profeti del Risorgimento, da Crispi, da Oria- 
ni, da Sorel, da Battisti, da Corridoni. Per definire la sua gran¬ 
dezza lo si paragonava a Cesare e ad Augusto, a Machiavelli e a 
Napoleone, a Socrate e a Platone, a Mazzini e a Garibaldi, fino 
ad arrivare a san Francesco, a Cristo e a Dio stesso perché, scri¬ 
veva Asvero Gravelli, Dio e la storia oggi significano MussolinP^. 
Un anonimo informatore scriveva in un rapporto del tutto riser¬ 
vato: «Il Fascismo è una religione, religione che ha trovato il suo 
Dio. Lo zelo dei fedeli deve mettere il popolo quanto più vicino 
alla statura morale del Duce e far sì che questi non debba mai 
come lo Spinoza, chiedere a sé stesso: se non avessero trovato 
[sic!] mi avrebbero cercato»^^. Per uno dei più esaltati cantori 
del culto del duce. Mussolini incarnava l’essenza stessa del «mi¬ 
to dell’Eroe»: 

La sua figura spicca, già monolitica, nell’attualità, nella storia, nel¬ 
le proiezioni dell’avvenire, dominante uomini e cose, come principe 
degli uomini di Stato, come genio della Stirpe, come salvatore dell’I¬ 
talia, come romano, nella realtà e nel mito, di Roma imperiale, come 
personificazione e sintesi dell’idea-Populus, come grande iniziato [...] 
Egli seguì sin dall’inizio la prassi dell’Eroe [che] parte solo alla con¬ 
quista del suo mondo, che esiste, prima e soltanto nelle sue elabora¬ 
zioni dello spirito [...] il mito dell’Eroe è una proiezione di tutti i mi¬ 
ti della divinità [...] [Mussolini] è tutto l’Eroe in una luminosità so¬ 
lare, è il Genio ispiratore e creatore: è l’Animatore che trascina e con¬ 
quista, è Lui: l’interezza massiccia del mito e della realtà [...] La Ri¬ 
voluzione è Lui, Lui è la Rivoluzione.^'* 

Cit. in Hasler, Das Duce cit., p. 485. 

2^ ACS, PNF, SPEP, b. 7, Milano 5 febbraio 1931. 

2“* O. Dinaie, La Mostra della Rivoluzione. Lui: Mussolini, in «Giovanni fa¬ 
scista», 1“ marzo 1934. 


V7. Il «nuovo Dio d’Italia> 


243 


La glorificazione della figura di Mussolini, come un nume vi¬ 
vente, divenne un aspetto predominante nell’attività di fascistiz¬ 
zazione delle nuove generazioni, alle quali Mussolini era presen¬ 
tato come il più grande dei grandi uomini di tutti i tempi, un nuo¬ 
vo Cesare, il capo cui si doveva donare la propria vita, anima e cor- 
po^^. Il Breviario dell’Avanguardista, che accompagnava i giovani 
nelle crociere organizzate dall’Opera nazionale Balilla, recitava: 
«Tu non sei. Avanguardista, se non perché prima di te, con te e do¬ 
po di te. Egli e soltanto Egh è»^^. Un alone di santità circondava 
anche la devozione per la memoria dei genitori del duce e il luogo 
della sua nascita a Predappio, meta di pellegrinaggio delle orga¬ 
nizzazioni giovanili. Nel 1930 sorse anche una scuola di «Mistica 
fascista», per iniziativa di giovani universitari che volevano dedi¬ 
carsi interamente al culto di Mussolini, abbeverandosi a quella che 
essi consideravano la fonte della religione fascista: «La fonte, la so¬ 
la, l’unica fonte della mistica è infatti Mussolini, soltanto, esclusi¬ 
vamente Mussolini»^^. I mistici, che avevano eletto a loro maestro 
spirituale il fratello del duce, Arnaldo, meditavano sugli scritti e i 
discorsi del duce e ispiravano la loro condotta di vita all’ideale di 
una dedizione totale, fino al sacrificio della vita. Anche sposarsi e 
procreare era sentito dai giovani mistici come un atto di obbe¬ 
dienza e di devozione al duce. Alcuni dei principali cultori della 
mistica mussoliniana, come il fondatore Niccolò Giani, morirono 
in guerra dove erano andati volontari. La scuola, mescolando con¬ 
fusamente religione fascista e religione cattolica, svolgeva cicli di 
lezioni che si ispiravano al pensiero del duce, lo illustravano e lo 
sviluppavano nella elaborazione di una visione mistica della rivo¬ 
luzione fascista, dei problemi della storia e della vita italiana. Nel 
1940 la scuola istituì anche corsi di mistica per i maestri elementa¬ 
ri desiderosi di «vivificare la propria fede nei valori spirituali e nei 
principi della Rivoluzione traendo dal Mito Mussoliniano le diret¬ 
tive d’azione pedagogica»^^. 

25 Cfr. M. Ostenc, La mystique du chef et la jeunesse fasciste de 1919 à 1926, 
in «Mélanges de l’École frangaise de Rome», 1, 1978, pp. 275-290. 

2^ Il breviario dell’Avanguardista, Roma 1928, p. 631. 

22 Cit. in D. Marchesini, La scuola dei gerarchi, Milano 1976, p. 121; cfr. 
anche M.L. Retri, Tra politica e cultura. La scuola di mistica fascista, in «Storia 
in Lombardia», n. 1-2, 1989, pp. 377-398. 

2* ACS, PNF, DN, b. 202, fase. «Scuola di Mistica Fascista». 






244 


Il culto del littorio 


La funzione educatrice e catartica era considerata inerente al¬ 
l’essenza stessa del culto del duce perché, si affermava, non v’e- 
ra strato della vita nazionale che non fosse investito dalla «peda¬ 
gogia mussoliniana»: «E assistiamo felici allo spettacolo divino di 
un popolo che s’alza sempre più nella luce, ascoltando il Verbo 
del Capo, che ogni dì si fa azione, sangue, carne, ritmo, luce di 
vita, religiosa missione. - E mentre affascina per il suo contenu¬ 
to eroico ed alto, palesa il metodo unico, per salire, nella febbre 
perenne della devozione alla Patria romana, verso le vette di 
Dio»^^. Mussohni era «il prototipo dell’italiano nuovo», il «mo¬ 
dello vivente ed operante dell’individualità etica e politica alla 
quale dobbiamo somigliare»^*'. Un noto studioso del pensiero 
machiavelliano affermò che Mussolini educava gli italiani «col 
semplice guardarli negli occhi» e le nuove generazioni anelavano 
«a modellarsi sull’esempio vivo del CAPO»^b 

Al di là degli aspetti più grotteschi e ridicoli delle sue mani¬ 
festazioni, il culto del duce si inseriva, con una propria logica fun¬ 
zionalità, nel progetto di educazione deir«armonico collettivo» 
per la creazione di una nuova civiltà. La nascita di una civiltà, 
per i fascisti, come abbiamo visto, è opera di un capo fondatore 
che plasma una collettività sotto l’azione di un mito. In questa 
prospettiva. Mussolini appariva ai fascisti come una straordina¬ 
ria figura di fondatore di civiltà che era anche, egli stesso, un mi¬ 
to vivente che operava come forza plasmatrice sull’animo della 
massa, per istillare in essa la nuova fede e trasformarla in una co¬ 
munità morale organizzata totalitariamente. L’avvenimento capi¬ 
tale realizzato da Mussolini, affermava Paolo Orano, era «il pa¬ 
triottismo intensificato sino ad un misticismo, la santità il marti¬ 
rio la fede, considerate come forze di costruzione civile»: quindi 
il «mussolinismo è religione», nel senso che la fede nel duce è «la 
fase preparativa di un religiosismo italiano, di una italianità reli¬ 
giosa»^^. 

A. Cammarata, Pedagogia di Mussolini, Palermo 1932. 

R. Cantalupo, La classe dirigente, Milano 1928, pp. 74-75. 

F. Ercole, prefazione a F. Ciarlantini, Il Capo e la folla, Milano 1935, pp. 
8-9. 

P. Orano, Mussolini da vicino, Roma 1928, pp. 21-24. 


VI. Il «nuovo Dio d’italiay 


245 


Il duce e i gerarchi 

Ma pur partecipando, con più o meno autentica fede e con¬ 
vinzione, alla glorificazione del culto di Mussolini, i fascisti che 
credevano nel fascismo come religione politica di una nuova ci¬ 
viltà, non risolvevano il fascismo nel mussolinismo, anche se con¬ 
sideravano il mussolinismo un fattore essenziale e determinante, 
secondo le loro categorie culturali, per poter gettare le fonda- 
menta della nuova civiltà. Questo concetto della funzione del cul¬ 
to del duce nell’ambito della religione fascista, in quanto mito vi¬ 
vente, era formulato chiaramente, pur con usuale enfasi iperbo¬ 
lica, da «Critica fascista»^^: 

Alla religiosità civile di un popolo occorre un punto di concen¬ 
trazione. Da tempo immemorabile occorreva all’Italia una grande fi¬ 
gura che assurgesse a simbolo nazionale, a divinità, a mito unificato¬ 
re e animatore della nostra storia: ed ecco Mussolini [...] io credo ed 
affermo che né Cavour, né Mazzini, né Garibaldi saranno storica¬ 
mente confrontabili a Mussolini. Nessuno dei tre raggiunse l’univer¬ 
salità costruttiva, la completa personalità umana di Mussolini, nessu¬ 
no tanta unanimità di consensi ed eguale potenza trascinatrice, nes¬ 
suno fu gravato da altrettanta responsabilità od ebbe campo d’azio¬ 
ne così vasto. 

Il mito Mussolini durerà come quello di Romolo e di Cesare; il 
nome del Duce non potrà in futuro servire da bandiera di un partito 
contro un altro, ma sarà simbolo della nazione intera e sola in faccia 
al mondo. 

Proprio in quanto simbolo e mito vivente in cui si incarnava 
la religione fascista, il culto di Mussolini si affermò soprattutto 
dopo l’istaurazione del regime, quando, superate le ultime con¬ 
testazioni da parte di esponenti fascisti riottosi e ribelli, si impo¬ 
se senza più resistenze, permeando di sé interamente la menta¬ 
lità e la cultura del fascismo. 

A favorire questo processo, oltre le particolari condizioni di 
tipo politico, propagandistico e funzionale, vi furono altri fatto¬ 
ri propriamente culturali e ideologici, che si ricollegavano alla lo- 


G. Pini, Divagazioni, in «Critica fascista», 1° dicembre 1927. 





246 


Il culto del littorio 


gica del fascismo come religione. È, infatti, nel contesto del pen¬ 
siero mitico che il fascismo elaborò una propria concezione del 
capo carismatico. Nella teologia politica di Gentile, Mussolini era 
investito del carisma che gli conferiva Tessere Tincarnazione vi¬ 
vente delT«idea fascista», che attraverso la sua personalità si at¬ 
tuava nella storia: il duce, affermò Gentile, è «un eroe, uno spi¬ 
rito privilegiato e provvidenziale, in cui il pensiero s’è incarnato, 
e vibra incessantemente col ritmo potente d’una vita giovanile e 
in pieno rigoglio»^'*. I riconoscimenti del carisma mussoliniano 
divennero sempre più frequenti fra i suoi collaboratori, dopo la 
sua andata al potere. Giovanni Giuriati scriveva a Mussolini il 10 
marzo 1923 professandogli la sua «fede fermissima che tu sia d 
Veltro vaticinato da Dante»^^. Quando Bottai, nel luglio 1932, fu 
dimissionato dalla carica di ministro delle Corporazioni, disse a 
Mussolini che accettava la sua decisione con «animo sereno»: «mi 
assalirà solo, talvolta, la nostalgia del Capo, della sua presenza, 
del suo ordine. Cercherò di superarla, pensando che anche nel¬ 
la mia vita privata, come ormai da tanti anni. Mussolini opererà 
come una forza incessante di miglioramento e di perfeziona¬ 
mento»^^. Certamente, nella relazione di potere fra il duce e i ge¬ 
rarchi, i quali rivaleggiavano per conquistare le chiavi del suo 
cuore, simili attestati potevano essere dettati da meri calcoli di 
opportunismo, di ambizione, di interesse, e forse anche da pau¬ 
ra. Tuttavia, la pubblicazione di scritti intimi e autobiografici di 
esponenti fascisti, apparsi dopo il croUo del mito mussoliniano e 
dopo la morte dei loro autori, come per esempio il diario di Bot¬ 
tai e le memorie di Tullio Cianetti, ci consente di constatare che, 
all’origine del culto del duce, vi era una dedizione spontanea e 
sincera, tipica di una cultura che credeva nel mito dell’eroe e nel 
culto del capo come massimi fattori di storia. Per esempio, Giu¬ 
riati, che all’inizio degli anni Trenta si era allontanato dal potere 
e dallo stesso Mussolini, deluso dal suo capo dopo la breve e de¬ 
fatigante esperienza di segretario del PNF, e che non aderì alla 
Repubblica sociale, riflettendo sul culto del duce dopo la cadu- 

G. Gentile, Fascismo e cultura, Milano 1928, p. 47, discorso inaugurale 
all’Istituto nazionale fascista di cultura, 19 dicembre 1925. 

Cit. in E. Gentile, introduzione a G. Giuriati, La parabola di Mussolini 
nelle memorie di un gerarca, Roma-Bari 1981, p. XXVni. 

ACS, SPD, CR, b. 65, fase. «Bottai». 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


247 


ta del regime, confermava di avere veramente creduto che Mus¬ 
solini fosse «l’uomo predestinato a ricongiungere in Roma, se¬ 
condo l’idea di Dante, i due simboli sacri, la Croce e TAquilà: a 
fugare, non dall’Italia soltanto, ma dalla faccia della terra, il di¬ 
sordine morale e civile, l’eresia e la guerra»^^. Bottai, nel mo¬ 
mento di partire per la zona di guerra nel 1941 su ordine di Mus¬ 
solini, annotava nel suo diario: «Dal mio Capo non ho avuto, par¬ 
tendo, il saluto da uomo a uomo, cui soltanto la mia anima di 
gregario fedele aspirava. Ma fedele gli sono [...] e gli dedico la 
mia morte, che con quella di tanti e tanti soldati sia per il suo spi¬ 
rito feconda di rinnovamento morale della nostra Italia»^^. 

Il destino della prima generazione fascista si identificò con il 
destino di Mussolini. Gerarchi come Grandi, Bottai, Balbo, Fa¬ 
rinacci, Bastianini, Cianetti, pur riconoscendo i limiti dell’uomo 
e la sua progressiva involuzione, quanto più Mussolini stesso di¬ 
veniva prigioniero del suo mito, sentivano di dovere a Mussolini 
se, ancora giovani, erano emersi dalla prospettiva di un’esistenza 
anonima di piccoli borghesi, per essere elevati nel tempo della 
Storia, trasformati in artefici di storia. Essi erano convinti di par¬ 
tecipare con Mussolini, e grazie a lui, ad una grande impresa che 
avrebbe segnato un epoca nella storia della civiltà. Tipico è il ca¬ 
so di Tullio Cianetti, figlio di un mezzadro, che percorse il cam¬ 
mino gerarchico nelle organizzazioni sindacali fino a diventare 
nel maggio 1943 ministro delle Corporazioni. Nelle sue memo¬ 
rie, Cianetti illustra con vivace sensibilità di testimone il feno¬ 
meno del carisma mussoliniano, ed d suo progressivo logora¬ 
mento negli anni della seconda guerra mondiale. Pur avendo pa¬ 
tito da Mussolini cocenti delusioni, egli racconta che quando fu 
innalzato ai vertici di un regime in agonia, fu infiammato dal¬ 
l’entusiasmo: 

«Sono un Ministro di Mussolini» - mi dicevo - «sono al fianco di 
una grande figura della Storia, di un autentico creatore di Storia. Lo 
ho amato tanto quest’uomo affascinante e certamente lo amo ancora. 
In ventun anni non sono mancate le delusioni, ma la vita non è fatta 
di soli fiori e di profumi. Mussolini è forse la figura più sconcertante 


Giuriati, La parabola di Mussolini cit., p. 39. 

G. Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano 1982, p. 256. 





248 


Il culto del littorio 


tra i condottieri che si conoscono; parla come un genio, ma scivola 
nella puerilità più banale; parte con fermezza e si trastulla con i ca¬ 
pricci di bimbo viziato; predica come un grande iniziato e lascia per¬ 
plessi, con una frase di cinismo; si assoggetta ad uno spaventoso la¬ 
voro per il suo popolo e ostenta disprezzo per gli uomini; invoca Dio, 
ma si compiace di enunciare eresie; nonostante ciò è pur sempre un 
grande uomo al quale si offre volentieri la miglior parte di se stessi».^^ 

Molte altre testimonianze potrebbero essere citate, per mo¬ 
strare quanto sia stata forte la suggestione del mito mussoliniano 
sugli stessi uomini che controllavano e manovravano la macchi¬ 
na totalitaria e non ignoravano gli artifici della propaganda e gli 
strumenti della manipolazione, con i quali il culto del duce ve¬ 
niva propagato fra le masse. Essi conoscevano da vicino e da an¬ 
ni Mussolini, del quale non ignoravano le debolezze, le meschi¬ 
nità, il cinismo, la spregiudicata e volgare strumentalizzazione 
degli uomini nei suoi calcoli di potere. Ma fin quando il mito fu 
operante al vertice del potere, circonfuso di fascino sacrale, i di¬ 
fetti dell’uomo furono obnubilati dal riverbero della «grandez¬ 
za» che gli veniva attribuita. Egli appariva come una personalità 
smisurata, posseduto da un intuito della storia che ne faceva un 
grande protagonista del suo tempo, investito d’una missione che 
avrebbe segnato il destino degli italiani e dell’intera umanità. 
Questa immagine sorgeva da uno stato d’animo comune ai più 
diretti collaboratori di Mussolini e con lui direttamente coinvol¬ 
ti nell’esperienza del fascismo fin dai tempi della lotta per la con¬ 
quista del potere. Alla maggior parte di loro, che aveva vissuto 
l’ansia e la ricerca di una «nuova fede» negli anni giolittiani, che 
aveva partecipato alla guerra spinta dal mito della «rivoluzione 
italiana», il Mussolini trionfatore appariva come r«eroe rappre¬ 
sentativo» della loro generazione e delle loro aspirazioni di rige¬ 
nerazione e di grandezza, l’interprete e l’esecutore della loro vo¬ 
lontà di potenza per plasmare le masse e riformare il carattere 
degli italiani. 

Nella coscienza dei suoi più stretti collaboratori, il mito del 
Mussolini «capo» suscitava, proprio in forza dell’intensità cultu- 


T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Mila¬ 
no 1983, p. 373. 


V7. Il «nuovo Dio d’Italia> 


249 


tale e emozionale con la quale era stato percepito, sentimenti di 
dedizione e di identificazione col duce, che scaturivano dall’a- 
verne fatto, come scriveva Bottai nel suo diario, una ragione di 
vitad'^. Ma proprio da questa esaltazione della figura del duce 
emergeva il massimo problema col quale il fascismo doveva con¬ 
frontarsi nel tentativo di realizzare il suo progetto totalitario, tra¬ 
sformando la religione fascista in una fede collettiva attraverso la 
funzione pedagogica del culto del duce come mito vivente: come 
evitare che la mitizzazione di Mussolini, pur ritenuta necessaria 
ai fini della politica totalitaria, finisse col far dipendere il futuro 
dello Stato totalitario dalla sorte del suo fondatore? Carlo Co¬ 
stamagna segnalò il pericolo nel 1940, riparandosi prudente¬ 
mente dietro una citazione machiavelliana: «Non è, adunque, la 
salute di una repubblica o d’un regno avere uno principe che 
prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in mo¬ 
do, che, morendo ancora, la si mantenga»"'^ Il problema si pre¬ 
sentò più volte alla coscienza dei fascisti più avvertiti, ma anche 
quelli che col tempo si resero conto della tendenza fagocitatrice 
del mussolinismo verso il fascismo, si arresero di fronte ai suc¬ 
cessi del duce, che parevano confermare la sua grandezza, il suo 
«genio», la sua «missione», prima di essere trascinati con lui nel¬ 
la catastrofe: 

Noi abbiamo creduto. Abbiamo creduto in voi. Duce, e la vostra 
fede è stata ed è la nostra fede, ancora una volta consacrata col san¬ 
gue. Abbiamo vinto perché in ogni istante siete stato presente al no¬ 
stro spirito, perché vi abbiamo sempre seguito con assoluta consape¬ 
vole fiducia, così come vi seguiremo sulle nuove vie luminose che ci 
insegnerete."*^ 

Questa dichiarazione di devozione, inviata da Starace a Mus¬ 
solini dopo la proclamazione dell’Impero, può essere assunta co¬ 
me attestato corale della dedizione carismatica dei gerarchi: rias¬ 
sume le ragioni del culto del duce come era concepito e pratica¬ 
to dai suoi gregari, in una dimensione fideistica che solo per l’a- 

Ivi, p. 247. 

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 11, cit. in C. 
Costamagna, Dottrina del fascismo, s.l. 1982, p. 575. 

«Il Messaggero», 9 maggio 1936. 













248 


Il culto del littorio 


tra i condottieri che si conoscono: parla come un genio, ma scivola 
nella puerilità più banale; parte con fermezza e si trastulla con i ca¬ 
pricci di bimbo viziato; predica come un grande iniziato e lascia per¬ 
plessi, con una frase di cinismo; si assoggetta ad uno spaventoso la¬ 
voro per il suo popolo e ostenta disprezzo per gli uomini; invoca Dio, 
ma si compiace di enunciare eresie; nonostante ciò è pur sempre un 
grande uomo al quale si offre volentieri la miglior parte di se stessi».^^ 

Molte altre testimonianze potrebbero essere citate, per mo¬ 
strare quanto sia stata forte la suggestione del mito mussoliniano 
sugli stessi uomini che controllavano e manovravano la macchi¬ 
na totalitaria e non ignoravano gli artifici della propaganda e gli 
strumenti della manipolazione, con i quali il culto del duce ve¬ 
niva propagato fra le masse. Essi conoscevano da vicino e da an¬ 
ni Mussolini, del quale non ignoravano le debolezze, le meschi¬ 
nità, il cinismo, la spregiudicata e volgare strumentalizzazione 
degli uomini nei suoi calcoli di potere. Ma fin quando il mito fu 
operante al vertice del potere, circonfuso di fascino sacrale, i di¬ 
fetti dell’uomo furono obnubilati dal riverbero della «grandez¬ 
za» che gli veniva attribuita. Egli appariva come una personalità 
smisurata, posseduto da un intuito della storia che ne faceva un 
grande protagonista del suo tempo, investito d’una missione che 
avrebbe segnato il destino degli italiani e dell’intera umanità. 
Questa immagine sorgeva da uno stato d’animo comune ai più 
diretti collaboratori di Mussolini e con lui direttamente coinvol¬ 
ti nell’esperienza del fascismo fin dai tempi della lotta per la con¬ 
quista del potere. Alla maggior parte di loro, che aveva vissuto 
l’ansia e la ricerca di una «nuova fede» negli anni giolittiani, che 
aveva partecipato alla guerra spinta dal mito della «rivoluzione 
italiana», il Mussolini trionfatore appariva come r«eroe rappre¬ 
sentativo» della loro generazione e delle loro aspirazioni di rige¬ 
nerazione e di grandezza, l’interprete e l’esecutore della loro vo¬ 
lontà di potenza per plasmare le masse e riformare il carattere 
degli italiani. 

Nella coscienza dei suoi più stretti collaboratori, il mito del 
Mussolini «capo» suscitava, proprio in forza dell’intensità cultu- 


T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Mila¬ 
no 1983, p. 373. 


V7. Il «nuovo Dio d’Italia> 


249 


tale e emozionale con la quale era stato percepito, sentimenti di 
dedizione e di identificazione col duce, che scaturivano daU’a- 
verne fatto, come scriveva Bottai nel suo diario, una ragione di 
vita^^. Ma proprio da questa esaltazione della figura del duce 
emergeva il massimo problema col quale il fascismo doveva con¬ 
frontarsi nel tentativo di realizzare il suo progetto totalitario, tra¬ 
sformando la religione fascista in una fede collettiva attraverso la 
funzione pedagogica del culto del duce come mito vivente: come 
evitare che la mitizzazione di Mussolini, pur ritenuta necessaria 
ai fini della politica totalitaria, finisse col far dipendere il futuro 
dello Stato totalitario dalla sorte del suo fondatore? Carlo Co¬ 
stamagna segnalò il pericolo nel 1940, riparandosi prudente¬ 
mente dietro una citazione machiavelliana: «Non è, adunque, la 
salute di una repubblica o d’un regno avere uno principe che 
prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in mo¬ 
do, che, morendo ancora, la si mantenga»'^h II problema si pre¬ 
sentò più volte alla coscienza dei fascisti più avvertiti, ma anche 
quelli che col tempo si resero conto della tendenza fagocitatrice 
del mussolinismo verso il fascismo, si arresero di fronte ai suc¬ 
cessi del duce, che parevano confermare la sua grandezza, il suo 
«genio», la sua «missione», prima di essere trascinati con lui nel¬ 
la catastrofe: 

Noi abbiamo creduto. Abbiamo creduto in voi. Duce, e la vostra 
fede è stata ed è la nostra fede, ancora una volta consacrata col san¬ 
gue. Abbiamo vinto perché in ogni istante siete stato presente al no¬ 
stro spirito, perché vi abbiamo sempre seguito con assoluta consape¬ 
vole fiducia, così come vi seguiremo sulle nuove vie luminose che ci 
insegnerete.'^^ 

Questa dichiarazione di devozione, inviata da Starace a Mus¬ 
solini dopo la proclamazione dell’Impero, può essere assunta co¬ 
me attestato corale della dedizione carismatica dei gerarchi: rias¬ 
sume le ragioni del culto del duce come era concepito e pratica¬ 
to dai suoi gregari, in una dimensione fideistica che solo per l’a- 

Ivi, p. 247. 

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 11, cit. in C. 
Costamagna, Dottrina del fascismo, s.l. 1982, p. 515. 

«Il Messaggero», 9 maggio 1936. 





250 


Il culto del littorio 


Spetto emozionale si accordava con la fede che animava il culto 
del duce nelle masse, non per le motivazioni e i fini che la cul¬ 
tura fascista attribuiva al mito mussoliniano. 


La fede della gente comune 

Dopo la conquista del potere, il mito di Mussolini trovò un 
ambiente favorevole per affermarsi e diffondersi anche al di fuo¬ 
ri del suo partito e, in qualche caso, contro di questo. La crisi ita¬ 
liana del dopoguerra aveva creato condizioni psicologiche pro¬ 
pizie per la nascita del culto popolare dell’Uomo provvidenzia¬ 
le: «Tutti avvertono - scriveva nel 1921 il vecchio senatore libe¬ 
rale Giustino Fortunato - che l’Italia si avvia alla guerra civile 
[...] tutti perciò invocano, come ne’ momenti di estremo perico¬ 
lo, il provvidenziale intervento di un Uomo, - con l’U maiusco¬ 
lo, - che sappia finalmente riportare il paese nell’ordine>d^. E 
quando Mussolini giunse al potere, molti videro in lui l’Uomo 
provvidenziale, che avrebbe riportato l’ordine e la pace dopo ol¬ 
tre un decennio di sconvolgimenti sociali e politici senza prece¬ 
denti. Per l’opinione pubblica borghese egli era il salvatore del¬ 
la patria e il restauratore dello Stato; per i ceti popolari che non 
avevano subito la violenza fascista, egli appariva come un figlio 
del popolo, diventato capo del governo senza mutare o nascon¬ 
dere, anzi ostentando le sue origini popolane, e perciò fu subito 
circondato da ingenua ammirazione, mista a fiducia e speranza 
nella sua opera benefica. A favorire la diffusione del mito fra la 
gente comune, priva di consapevoli motivazioni politiche, pensò 
lo stesso Mussolini: egli fu il primo presidente del Consiglio che 
visitò l’Italia in lungo e in largo, recandosi in regioni e città do¬ 
ve i suoi predecessori non si erano mai recati, mostrandosi alla 
folla, parlando alle masse. Fra maggio e ottobre del 1923, Mus¬ 
solini visitò il Veneto, la Sardegna, la Lombardia, la Toscana, la 
Sicilia, la Campania, l’Abruzzo, il Piemonte, l’Emilia e l’Umbria, 
e ripetè il giro l’anno successivo. In questo modo, egli stabilì un 

G. Fortunato, Dopo la guerra sovvertitrice, Bari 1922, riportato in Id., Il 
Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze 1973, voi. II, p. 702. 


V7. Il «nuovo Dio d’ltalia> 


251 


contatto diretto con la gente comune, quasi a dare la sensazione 
fisica che essa fosse ora più vicina al potere e potesse finalmen¬ 
te essere ascoltata ed esaudita. La stampa fascista contribuì alla 
formazione del mito, paragonando i viaggi di Mussolini a riti 
compiuti per riconsacrare la terra d’Italia alla patria. Torino, scri¬ 
veva «Il Popolo d’Italia» il 24 ottobre 1923, si apprestava a rice¬ 
vere festosamente la visita di Mussolini, che avrebbe nuovamen¬ 
te consacrato alla patria la «città rossa»*^*^. Si avviava così la sa¬ 
cralizzazione del mito di Mussolini, salutato «sacerdote della Pa¬ 
tria» il quale «dopo aver elevato il calice delle nostre amarezze 
di italiani e spezzata l’ostia dei nostri sacrifizi cruenti e incruen¬ 
ti ma non perciò meno tragici, giurava insieme con la folla, a ma¬ 
ni protese, che, se sarà necessario ricominciare, si ricomincerà»"^^. 
Mussolini, per parte sua, usava gesti simbolici che rafforzavano 
questa immagine, come quando, a Perugia, compì il rito sacer¬ 
dotale di accendere la lampada votiva dinanzi all’altare consa¬ 
crato ai caduti di guerra, ricevendo l’olio dalle mani della madre 
di un caduto"^^. «C’è un ‘messianismo fascista’?» si domandava 
un giornalista francese nel 1924“^^, osservando che, dall’andata al 
potere di Mussolini, si era assistito al sorgere di una leggenda at¬ 
torno ad un uomo vivente: 

il prestigio personale del dittatore ha seguito una curva ascendente 
che l’ha portato ai vertici dell’idolatria popolare. Spontaneamente e 
artificialmente, si è formata attorno a lui una atmosfera di silenziosa 
e cieca obbedienza, di dedizione, di venerazione e di paura. Ed è un 
miracolo continuo il fatto che questa popolarità resista alla corrosio¬ 
ne del tempo. Ma esiste, non c’è dubbio. La curiosità non bastereb¬ 
be a spiegare la presenza nelle piccole stazioni sperdute, lungo i cigli 
della ferrovia, ai passaggi a livello, la notte, di migliaia di contadini o 
di operai, ignoti, sconosciuti, il cui gesto è rimasto senza risposta, e 
che avevano atteso ore, per salutare col braccio il treno misterioso che 
portava, come era stato loro detto, le fortune d’Italia. 

«Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1923. 

Il sacerdote della Patria, in «L’Idea nazionale», 23 agosto 1923. 

«Il Popolo d’Italia», 31 ottobre 1923. 

R. De Nolva, Le mysticisme et l’esprit révolutionnaire du fascisme, in 
«Mercure de France», 1° novembre 1924. 








252 


Il culto del littorio 


Mussolini, scrisse Ferruccio Farri all’indomani del delitto 
Matteotti, era posto effettivamente su «un piedistallo di fiducia 
inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore esta¬ 
tico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo 
duce dinamico agitarsi e recitare»"*^. Dopo il delitto, il mito subì 
una forte scossa ma non crollò, come riconobbe lo stesso Mus¬ 
solini; «Se c’era un mito, questo ha subito una forte inclinazio¬ 
ne. E perché non è crollato? per una ragione molto semplice: per¬ 
ché aveva simpatie grandissime nella enorme popolazione italia- 
na»"^^. Ma superata la crisi e consolidato il potere, il mito popo¬ 
lare riprese quota accompagnato nella sua ascesa dall’uso sem¬ 
pre più ampio e perfezionato della propaganda, che intensificò 
la diffusione del mito mussoliniano tra gli italiani, confortati dai 
successi, reali o apparenti, che la politica di Mussolini riscuote¬ 
va aU’interno e all’estero. 

Ad alimentare il culto del duce fra le masse contribuirono mol¬ 
to i continui incontri di Mussolini con la folla, in occasione della 
celebrazione delle feste del regime o durante le sue visite per l’Ita¬ 
lia quando, grazie alla preparazione di una moderna regia, si crea¬ 
vano le condizioni per suscitare uno stato d’alta tensione emotiva 
collettiva, preludio al rito dell’unione «mistica» del capo con la fol¬ 
la e alla drammatizzazione simbolica dell’unità della nazione at¬ 
traverso il suo duce. L’artificio della «fabbrica del consenso» e 
l’entusiasmo spontaneo cooperavano per produrre un sentimento 
di esaltazione collettiva, soprattutto attraverso la scansione, in par¬ 
te preordinata in parte spontanea, del ritmo della cerimonia, in 
gradi e tempi differenti - l’invocazione, l’attesa, l’apparizione - ta¬ 
li da trasformare sempre l’incontro in un atto di culto. Traiamo 
dalla cronaca del XIII annuale della fondazione dei fasci una de¬ 
scrizione tipica di questo rito in piazza Venezia: 

Le squadriglie degli aereoplani stringono ora il cerchio dei loro 
voli, come a coronare nel cielo questa magnifica adunata. 


F. Patri, Il nostro posto, in «Il Caffè», 1" luglio 1924, riportato in «Il 
Caffè» 1924-25, Milano 1961, p. 81. 

La citazione, tratta dal testo del discorso realmente pronunciato da Mus¬ 
solini ai Consiglio nazionale fascista del 7 agosto 1924 (riprodotto integral¬ 
mente da R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere 1921- 
1925, Torino 1966, pp. 775-785) fu omessa nel testo pubblicato. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


253 


La folla non si stanca di seguire con occhi ammirati le evoluzioni 
e il fragore dei motori si armonizza con gli squilli delle fanfare e con 
i canti dei fascisti. Intanto la fiumana ha invaso la Piazza Venezia. ,Il 
clamore delle musiche e degli alalà si fa assordante: il pubblico tra¬ 
scinato dall’entusiasmo si unisce al coro immenso dominato dal ri¬ 
tornello che invoca il Duce. 

Sono quasi le sei. La tramontana si fa più intensa, ma chi se ne ac¬ 
corge ormai più? 

Le squadriglie di aereoplani sono ora sparite. La mole bianca del 
Vittoriano è illividita nel crepuscolo. Palazzo Venezia emerge fulvo e 
maestoso da un mare irrequieto di gagliardetti e di Camicie nere, di 
ottoni luccicanti. 

Ma l’afflusso continua. La fiumana interminabile gremisce la piaz¬ 
za. Cinquantamila persone aspettano Mussolini, cinquantamila voci 
lo chiamano. Ecco il primo rintocco della campana del Campidoglio. 
Ormai lo sguardo di questo popolo non si distoglie dal balcone dove 
comparirà la figura del Duce. 

I veterani della grande guerra, i veterani della Rivoluzione fasci¬ 
sta, operai, giovani squadristi, studenti, popolani di ogni età e di ogni 
mestiere: la folla è come una sola creatura dai mille volti e da un uni¬ 
co cuore. Ma l’impazienza dei più giovani, dei «ragazzi di Mussolini» 
aggiunge alcune note pittoresche a questo imponente spettacolo. 
Ogni squadra vuole che il proprio gagliardetto si protenda più da vi¬ 
cino verso il Duce e più da vicino lo saluti e lo acclami. 

Si formano qua e là piramidi umane in una gara di agilità e di svel¬ 
tezza: così sul nereggiare della folla sventolano altissime le fiamme dai 
colori di Roma. 

Sono le 6.20. Il balcone di apre. Appare S.E. Starace che avvolge 
all’asta il drappo della bandiera. L’attesa della folla sta per essere pre¬ 
miata ed ecco, infatti, che un urlo immenso prorompe dalla piazza: 
«Viva il Duce!». 

Tutte le musiche intonano Giovinezza. I gagliardetti si alzano. 
Mussolini! La figura si profila nel gesto del saluto romano nell’ampia 
cornice della finestra. Egli indossa la divisa di Caporale d’onore del¬ 
la Milizia. E a capo scoperto. Il suo sguardo giunge alla foUa, ne fa 
traboccare l’entusiasmo. 

«Duce! Duce!», Il grido appassionato si moltiplica all’infinito, so¬ 
vrasta il fragore delle musiche. 

La manifestazione assurge ad un immenso religioso rito di fede. E 
tutto un popolo che si esalta in un Uomo, che si ritrova in Lui. Ma 
agli squilli di «attenti», ecco che un assoluto silenzio succede a quel 
clamore che pareva non dovesse avere più fine; e non è meno mira- 






254 


Il culto del littorio 


bile attestando di una coscienza nuova che la disciplina ha saputo 
creare negli italiani. 

Sono le 6.25. Mussolini parla al popolo romano, all’Itaha. 

Il duce conclude il discorso col grido «A chi l’Italia?», rice¬ 
vendo dalla folla la rituale risposta «A noi!»: 

Le parole del Duce sono ormai nel cuore di questa immensa fol¬ 
la. Il formidabile A Noi! ha rinnovato fieramente un atto di fede as¬ 
soluta: la fede nel Fascismo e nell’avvenire della Patria. La parola di 
Mussolini «durare» è stata accolta e ripetuta come un giuramento. Al¬ 
la voce della moltitudine ha risposto la voce di una moltitudine. 

Il rito è compiuto. 

Mussolini ha lasciato il balcone, ma il popolo vuole vederlo an¬ 
cora, gridargli la sua devozione. Due, tre volte il Duce si affaccia e sa¬ 
luta romanamente. 

Poi, la grande vetrata si chiude. 

La piazza echeggia di canti; ma le parole di Mussolini sovrastano. 
Sembra di sentirle ancora. Le masse fasciste riprendono le loro for¬ 
mazioni; lentamente la folla sgombra la piazza, mentre si vanno ac¬ 
cendendo le torce di una fantastica fiaccolata che attraversa la città.^*^ 

La scansione dei tempi aveva un ruolo ancor più rilevante, per 
creare l’atmosfera mitica propizia allo svolgimento dell’atto ri¬ 
tuale, nelle visite che Mussolini faceva in città e regioni, dove ve¬ 
niva accolto come un nume portatore di grazie. Queste visite era¬ 
no in genere precedute dalla invocazione rivolta a nome della po¬ 
polazione dal prefetto o dal segretario federale, a cui Mussolini 
faceva seguire l’annuncio della visita, ma fra l’annuncio e la visi¬ 
ta poteva trascorrere anche qualche anno come avvenne, per 
esempio, per una visita a Genova. Il 9 luglio 1934 Mussolini 
esaudì l’invocazione dei fascisti genovesi che «desiderano dopo 
otto anni di rivedermi tra loro», annunciando che sarebbe anda¬ 
to a Genova nel 1936. La visita avvenne invece nel maggio del 
1937, il che però contribuì a rendere ancor più viva l’attesa e l’en¬ 
tusiasmo delle accoglienze^ h Lo stesso avvenne per un viaggio 
nel Veneto, compiuto nel 1938. Un informatore del ministero del- 

«Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1932. 

5* ACS, PCM, Gabinetto, 1937-1939, fase. 20.2 n. 946. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


255 


la Cultura popolare ritraeva con enfasi, ma non del tutto infe¬ 
delmente, la frenesia dell’attesa a Trieste, dopo l’annuncio della 
visita invocata da più di un decennio: 

Trieste sta lavorando febbrilmente, affannosamente per essere 
pronta: fra meno di ventiquattr’ore il Duce sarà qui. Questa certezza 
sembra togliere il respiro ai Triestini: li emoziona e li stordisce e se 
per un verso ne moltiplica le energie dall’altro li immobilizza in una 
estatica contemplazione interiore che anticipa la gioia sconfinata di 
aver fra di loro il Capo amatissimo [...] Il Duce non troverà forse a 
Trieste la sontuosità e la magnificenza degli addobbi che altre città 
Gli hanno preparato in occasione di altre Sue visite, ma troverà cer¬ 
tamente la passione ardente, l’entusiasmo incontenibile, l’attacca¬ 
mento fanatico ai quali Lo hanno abituato le folle italiane deliranti 
per Lui.^^ 

Il giorno dopo, lo stesso informatore descriveva con partecipe 
orgasmo, che si rifletteva probabilmente nella sua interpretazione 
dello stato d’animo collettivo, le reazioni della folla all’apparizio¬ 
ne del duce, giunto trionfalmente dal mare e accolto con un gran¬ 
dioso cerimoniale. Nel discorso. Mussolini illustrò al popolo la cri¬ 
si internazionale e preannunciò il varo delle leggi antisemite: 

Finalmente Lo abbiamo visto e Lo abbiamo sentito! [...] queste le 
prime parole espresse con giubilo indescrivibile, con gli occhi lustri 
di commozione e di ineffabile angoscia gioiosa [...] 

E non è agevole nemmeno riferire le espressioni della gente, del 
popolo minuto come delle persone più colte, della massa insomma. 
Espressioni di meravigliosa contentezza e di intraducibile fierezza 
hanno quelli che Lo hanno visto passare da vicino - specie gli operai 
dei Cantieri visitati oggi - quelli che Lo hanno guardato, quelli che 
ne hanno incontrato lo sguardo. «Hai visto che occhi! Non si resiste 
al Suo sguardo! A me ha sorriso [...] Gli ero vicino, quasi lo toccavo. 
Io dovevo lavorare e non riuscivo a muovermi [...] Quando l’ho vi¬ 
sto le gambe hanno cominciato a tremarmi [...]» e mille altre frasi 
consimili rivelano e confermano il fascino portentoso che emana dal¬ 
la persona del Duce. 


52 ACS, MCP, Gabinetto, b. 32, fase. «Viaggio nel Veneto», Trieste, rap¬ 
porto del 17 settembre 1938. 




256 


Il culto del littorio 


Le donne non riescono a dare un senso ed un nesso alle loro paro¬ 
le, tuttavia sono più eloquenti nelle loro ingenue, confuse espressioni 
che se facessero lunghi discorsi apologetici. La frase di una che è stata 
per un po’ di tempo vicina al Duce, all’uscita dallo scalo dell’Ala Lit¬ 
toria, le compendia tutte; «Mi sembrava un Dio! Volevo baciarGli le 
mani ma non ne ho avuto il coraggio. Lo bacerò stasera in fotografia». 


Il nume protettore 

La visita del duce veniva percepita dalla gente come la venu¬ 
ta di un messia apportatore di bene, al quale si chiedevano gra¬ 
zie; «Da molti anni Ti aspettiamo, nutrendo nel cuore una spe¬ 
ranza, che nell’attesa è ingigantita» scriveva a Mussolini un grup¬ 
po di ex combattenti agricoltori, chiedendo la costruzione di un 
«canale DUX che da un decennio Ti aspetta»^^. Simile l’invoca¬ 
zione di una vedova catanese alla vigilia del viaggio di Mussolini 
in Sicilia, nel 1937; 

Duce 

Il popolo catanese vi ha atteso con ansiosa trepidazione! Quella 
che fa battere il mio cuore è irrefrenabile. È il padre che aspettiamo, 
il Messia che viene a visitare le sue pecorelle a recar loro la fede, e 
con essa la parola che dà gli insperati eroismi, i massimi olocausti. 

Duce! Questa magica parola fa fremere il cuore come se la scin¬ 
tilla elettrica lo attraversasse, noi poverelli, dimentichiamo per incan¬ 
to le nostre miserie e corriamo nelle piazze ad ammirarVi, magnani¬ 
mo nel Vostro paterno sorriso che brilla fra i lampeggianti d’aquila 
[sic!] che caratterizzano il Vostro sguardo, sguardo di uomo destina¬ 
to dal fato a dominare i cuori, a formare di mille volontà una sola, la 
Vostra [...] Sono povera e ammalata e molto spero nel Vostro ma¬ 
gnifico cuore, il più gran cuore che gli italiani abbiano avuto dai gior¬ 
ni dell’impero ai tempi d’oggi. 

Mio figlio è un moschettiere; mia figlia una giovane italiana. Io Vi 
ammiro pur restando nella ombre [sic!], come la miserella che nel¬ 
l’angolo buio del tempio venera le sacre icone rutilanti di gemme.^"* 


ACS, PCM, Gabinetto, 1937-39, fase. 20.2 n. 5597/4-2, lettera dell’As¬ 
sociazione combattenti di Faedis, 8 agosto 1938. 

Riportato in T.M. Mazzatosta, C. Volpi, L’italietta fascista (1936-1943), 
Bologna 1980, pp. 55-56. 


V7. Il «nuovo Dio d’ltalia> 


251 


Gli incontri con la folla in ogni parte d’Italia divennero un 
elemento centrale e dominante della liturgia fascista, diffonden¬ 
do il culto del duce fra le masse che potevano avere l’occasione 
di vedere in carne ed ossa il nume che ad esse appariva glorifi¬ 
cato ovunque in immagine; «È interessante - scriveva un infor¬ 
matore del ministero della Cultura popolare durante il viaggio di 
Mussolini in Piemonte nel 1939 - sentire il racconto delle mon¬ 
dine che esprime la meraviglia di aver assistito alla personifica¬ 
zione del mito. Per loro, vedere in carne ed ossa lo scultoreo vol¬ 
to cento e cento volte osservato più che sui giornali sui cartello¬ 
ni alle cantonate ha costituito una sorpresa ed una gioia indi¬ 
menticabili»^^. Negli anni Trenta, Mussolini fece visite in molte 
regioni italiane, sostando nei capoluoghi di provincia per espor¬ 
si al culto della folla, pronunciando discorsi, che venivano pre¬ 
sentati come annuncio di decisioni, per le quali il duce chiedeva 
il consenso plebiscitario del popolo, dando a questo l’impressio¬ 
ne di essere partecipe delle scelte del suo capo. 

Il discorso del duce era sempre il momento centrale, culmi¬ 
nante, dell’incontro con la foUa, non tanto nella forma dialogica 
che talvolta assumeva, quanto per il carattere di orazione rivela¬ 
trice della volontà del nume e di manifestazione oracolare della 
volontà della nazione. 

In altre occasioni, come nelle frequenti visite nell’Agro pon¬ 
tino dopo la bonifica, presentandosi nelle vesti di fondatore di 
città o di contadino mietitore e trebbiatore. Mussolini appariva 
al popolo come un potente ma benevolo nume benefattore, che 
scendeva dall’alto del suo altare per parlare amichevolmente con 
la gente, pronto ad ascoltare, confortare, esaudire. Corrado Al¬ 
varo ha descritto vivacemente uno di questi incontri, che erano 
generalmente spogli della solennità fastosa delle grandi adunate, 
ma che forse più di queste contribuivano ad alimentare fra la gen¬ 
te comune il culto del duce; 

Uno dei punti salienti del fascino del Capo sulla folla, è che cia¬ 
scuno si sente in comunione con lui come se egli sapesse tutto, che 


” ACS, MCP, Gabinetto, b. 198, «Viaggio del duce in Piemonte», Ales¬ 
sandria, rapporto del 17 maggio 1939. Sulle visite di Mussolini in Piemonte, 
cfr. L. Passerini, Torino operaia e fascismo, Roma-Bari 1984, pp. 225 sgg. 





Fig. 23. Mussolini premia un colono a Littoria il 18 dicembre 1933 
(da Latina, storia di ima città cit., p. 237). 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia» 


239 


presto o tardi arriverà, saprà, prowederà. In ogni società si possono 
ricevere torti e offese; ma il popolo pensa sempre che «se egli sapes¬ 
se», sarebbero asciugate quelle lacrime, sarebbe sollevato quel cuore, 
riparato il torto e l’offesa. Il popolo italiano ha incarnato in lui un 
vecchio ideale di giustizia che nella sua storia aveva affidato ai per¬ 
sonaggi più diversi. La folla intorno a me, vedendolo dritto sul tavo¬ 
lo, non perdeva un sol gesto; che il Capo sorridesse, che il suo giac- 
co di orbace fosse spruzzato di mota; che una rosa d’un mazzo of¬ 
fertogli aU’inaugurazione del Borgo Sabotino la tenesse infilata alla 
cintura e di tanto in tanto con un gesto la chiudesse delicatamente nel 
pugno e ne aspirasse l’odore; che con un gesto reciso consegnasse la 
busta col denaro ai quasi cinquecento premiati di Littoria, e sempre 
con lo stesso vigore, lo stesso scatto, erano cose che nessuno perde¬ 
va, e che avevano agli occhi degli spettatori il fascino delle grandi fi¬ 
gure immaginate lontane e che sono invece a un passo di distanza, 
parlanti. Era uno straordinario rapimento degli animi.^^ 

Mussolini si compiaceva anche di fare visite improvvise e pri¬ 
vate, dando alla gente l’impressione che egli potesse essere ovun¬ 
que, apparire ovunque, in qualsiasi momento, quasi miracolosa¬ 
mente. «Passava da noi - racconta una colona dell’Agro pontino 
ricordando una visita improvvisa di Mussolini nel podere di suo 
padre - è venuto dentro, abbiamo appena appena fatto in tem¬ 
po a... conoscerlo perché... era vestito un po’... per no essere ri¬ 
conosciuto. Ha fatto due tre domande a mio padre che era il ca¬ 
po famiglia no? [...] e poi... è sparito subito. Ciaveva la motoci¬ 
cletta»^^. 

Il culto mussoliniano riscosse crescenti consensi fra la gente 
comune e fu un fenomeno pressoché costante durante il regime, 
almeno fino alla seconda guerra mondiale, anche se non ebbe 
un’estensione e una presenza uniforme in tutti i ceti sociali. Ana- 
Hzzare le motivazioni del consenso, sezionare le loro componen¬ 
ti a seconda dei ceti sociali da cui provenivano, seguirne l’onda 
di frequenza e di intensità nel corso di un ventennio, è un esame 
che non possiamo affrontare in questa sede, perché comporte- 

56 C. Alvaro, Terra nuova, Roma 1934, cit. in R. De Felice, Autobiografia 
del fascismo, Roma 1978, pp. 426-427. 

5^ Intervista raccolta da O. Gaspari, Il mito di Mussolini nei coloni veneti 
dell’Agro pontino, in «Sociologia», maggio-agosto 1983, p. 171. 




Fig. 24. Mussolini fra i coloni dell’Agro Pontino (da Latina, storia di 
una città cit., p. 253). 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia» 


261 


rebbe studi e ricerche approfondite, condotte possibilmente con 
strumenti idonei a discriminare le componenti spontanee da 
quelle prodotte dalla propaganda. Certamente vi furono settori 
sociali dove questo mito ebbe minore o scarsa influenza, come 
per esempio quei settori che erano passati attraverso un più mar¬ 
cato processo di secolarizzazione o quelli, specialmente ceti ope¬ 
rai e contadini, che avevano subito le violenze squadriste ed era¬ 
no più saldamente legati alla tradizione socialista, repubblicana 
o comunista. In questi ceti, il mito di Mussolini potè far breccia 
solo tardi, agendo soprattutto sulle generazioni giovani. Ma nel¬ 
la media e piccola borghesia non politicizzata, nei ceti popolari 
più umili, specialmente rurali, privi di qualsiasi tradizione laica 
o politica, che non avevano subito la violenza squadrista, il cul¬ 
to di Mussolini si diffuse rapidamente perché mise radici in una 
cultura antropologica ancora fortemente dominata da credenze 
religiose, persino superstiziose e magiche, che proiettavano sul 
mito di Mussolini forme di devozione e di culto tipiche della pietà 
religiosa cristiana, fino a paragonarlo a Cristo: «Mi sembrava un 
Cristo in tera - ricorda un colono dell’Agro pontino -, che quan¬ 
do veniva fuori lui diciamo, c’era un momento che... pioveva di¬ 
ciamo anca qui in Aprile le feste, ’nsò veniva un tempo bruto va 
bene arivava lui per la madona spariva le nuvole, un sole va be¬ 
ne che... sembrava un dio va bene, dopo finito tuto il suo... pro¬ 
clamare il discorso va bene, giù acqua ancora sembrava tante vol¬ 
te... ma 'sto sant’Antonio de 'sto duce che cosa è!!»^^. Continue 
erano le richieste a Mussolini di un suo ritratto come talismano 
apportatore di grazia: ad una vedova con undici figli «parve che 
nella sua casa sia entrata la Grazia di Dio» quando il prefetto, ac¬ 
compagnato dal segretario federale e dal podestà, si recò a con¬ 
segnarle il ritratto di Mussolini^^. 


Ivi, p. 172. Esempi significativi di questo tipo di manifestazioni popola¬ 
ri del culto del duce, che si protraggono fino alla primavera del 1943, sono rac¬ 
colti da Mazzatosta, Volpi, L’italietta fascista cit.; A. Lepre, Le illusioni, la pau¬ 
ra, la rabbia, Napoli 1990; Id., L’occhio del duce. Gli italiani e la censura di guer¬ 
ra 1940-1943, Milano 1992. Sull’atteggiamento dell’opinione pubblica verso 
Mussolini, in generale, cfr. S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, 
Roma-Bari 1991. 

Lettera di A.C. Petrosino, 5 agosto 1936, riportata in Mazzatosta, Vol¬ 
pi, L'italietta fascista cit., p. 49. 




262 


Il culto del littorio 


Volendo riassumere gli elementi che composero il mito mus- 
soliniano della gente comune, si potrebbe descrivere la figura di 
un grande uomo di Stato che meditava sulle sorti del mondo e 
vegliava sul destino dell’Italia, che voleva far grande e potente, 
ma nello stesso tempo curava come un padre amorevole la sorte 
di tutti i suoi figli; un «uomo della provvidenza» che poteva es¬ 
sere tramite di grazia divina per il popolo, promessa e garanzia 
di sicurezza; dotato di straordinari poteri taumaturgici e benefi¬ 
ci, fisicamente vicino alle masse e continuamente in contatto con 
esse, prossimo alla loro anima e interprete delle loro aspirazioni. 

Il culto popolare del duce fu, senza dubbio, l’elemento più 
importante della liturgia fascista, ma esso aveva, in gran parte, 
motivazioni che si rifacevano a tradizioni fideistiche precedenti 
più che alla credenza nei valori e nei dogmi della religione fasci¬ 
sta. E, questo, un aspetto che è necessario sottolineare, non solo 
per mettere in risalto la distinzione del culto popolare dal culto 
propriamente fascista, ma anche per valutare gli effetti della pre¬ 
dicazione della religione fascista sulle masse, per individuare uno 
dei fattori della sua fragilità. Nella gran massa della gente comu¬ 
ne, infatti, il mito di Mussolini prevaleva sulla fede nel fascismo. 
Tipico di questo atteggiamento è quanto osservato dai carabinieri 
di Viterbo nel luglio 1930: 

Il Regime ha sempre più il consenso pieno della stragrande mag¬ 
gioranza dei cittadini, sui quali il Duce esercita un fascino che ha del 
soprannaturale e che è comune anche ai non fascisti, non solo, ma pu¬ 
re a molti che hanno sempre avanzato riserve sulla filosofia e sulla 
pratica di governo del Fascismo.^’® 

I carabinieri di Roma riferivano della «illimitata fiducia nel 
Duce, il quale riscuote la stima anche di coloro che formulano 
riserve sul Fascismo e sulle altre figure rappresentative del Regi¬ 
me», e contrapponevano alle «impetuose, toccanti manifestazio¬ 
ni popolari» suscitate dalle improvvise visite di Mussolini nella 
città, i resoconti che ne dava la stampa «coi soliti incensamenti», 
che apparivano «enfatica sviolinatura [.,.] tale da pregiudicare 

Archivio storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Uf¬ 
ficio situazione, 1930, fase. «Viterbo». 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


263 


l’efficacia e la serietà del gesto del Duce»^h Dello stesso tono il 
giudizio di un anonimo informatore del PNF durante la visita di 
Mussolini a Napoli nell’ottobre 1931, giudizio tanto più signifi¬ 
cativo in quanto espresso in un documento interno del partito; 

Il Duce ha parlato: ma Egli è stato soprattutto drammaticamente 
espressivo per quello che non ha potuto dire, ma che la folla in deli¬ 
rio, epperciò in istato di grazia, ha «sentito» ed «intuito», attraverso 
le contrazioni di spasimo della Sua maschera romana, che qualche co¬ 
sa di grande e di tremendo si prepara per l’Italia ed il mondo, e che 
Benito Mussolini ne sarà l’Artefice invitto ed invincibile. 

Perché questa folla affamata, indisciplinata, anarcoide, che non ha 
«sentito» né «compreso» il Fascismo predicato da piccoli uomini fa¬ 
ziosi e miserevoli, avvicendatisi in questo primo decennio, «sente» e 
«comprende» il Duce attraverso il divino dono di una esuberante fan¬ 
tasia e sensibilità come nessuna altra folla delle cento città d’Italia. 
Epperciò ieri gli ha decretato l’apoteosi, tra lo stupore e U panico di 
Sua Eccellenza Castelli [Alto commissario per la provincia di Napo¬ 
li] e di Natale Schiassi [segretario federale di Napoli] 

Commenti del genere si infittirono nel corso degli anni, a con¬ 
ferma di un orientamento largamente diffuso nell’opinione pub¬ 
blica: 

Il partito mussoliniano - scriveva un informatore della polizia da 
Firenze nel giugno 1939 - costituisce l’autentica maggioranza in Ita¬ 
lia e si può ben dire che per quanto il Duce stesso persista a parlare 
di Fascismo, l’italiano continua a comprendere sotto questa denomi¬ 
nazione soltanto ed esclusivamente «Mussolini». Per la stragrande 
maggioranza, un Fascismo senza Mussolini è incomprensibile, men¬ 
tre sarebbe magari comprensibile un Mussolini senza Fascismo. Del 
resto, è nel destino del genio di asservire l’idea al punto da sostituir¬ 
la con la propria personalità.^^ 

Lo stesso atteggiamento veniva osservato fra la popolazione 
romana nell’agosto 1940: «Il ritornello è sempre lo stesso: ci si 


Ivi, 1930, Roma, febbraio e 27 settembre 1930. 

“ ACS, PNF, Situazione politica per provincie, b. 9, fase. «Napoli». 
ACS, MI, DGPS, Divisione polizia politica 1927-1944, b. 220. 





264 


Il culto del littorio 


inchina al Genio del Duce, ma non si tralascia occasione per sca¬ 
gliarsi contro abusi e soprusi dei Gerarchi qualunque essi siano 
e quale sia la carica che ricoprono»^. AlFinformatore da Roma, 
faceva eco un altro da Milano: «Il concetto che Mussolini sia iso¬ 
lato, che il 99% dei suoi più vicini collaboratori siano indegni del 
loro posto, che molti uomini del Governo si diano alla specula¬ 
zione, è generale [...] Il popolo sarebbe pronto a stringersi effet¬ 
tivamente attorno al Duce con più amore e più fedeltà, se la stes¬ 
sa risoluta energia che Mussolini spiega in politica estera, fosse 
impiegata per salvaguardare il suo popolo dai vampiri»^^ 
ste osservazioni trovavano conferma in quanto scriveva un ano¬ 
nimo antifascista rispondendo nel 1933 ad un questionario di 
«Giustizia e Libertà»: «Il ‘culto del duce’ (astrazion fatta dei ca¬ 
si in cui dietro l’omaggio al capo si vuole celare un atteggiamen¬ 
to di critica verso il regime che si teme eccessivamente audace) 
influisce ancora notevolmente sugli animi mantenendo, anche in 
opposizione ai fatti, la fiducia neH’infallibilità dell’uomo, cosic¬ 
ché si accetta tuttora senza discutere l’idea della sua genialità»^^. 

In effetti, quanto più si diffondeva fra le masse l’insofferenza 
contro l’invadenza totalitaria del partito fascista e crescevano le 
critiche ai gerarchi, tanto più veniva esaltato per contrasto il mi¬ 
to del duce, posto al riparo dalle critiche perché sollevato in una 
sfera di fiducia, quale ultima speranza per un atto risanatore dei 
mali, anche di quelli inflitti dal fascismo stesso attraverso i suoi 
gerarchi. Ciò derivava dal modo in cui la gente comune percepi¬ 
va il mito di Mussolini, anche al di là delle manifestazioni or¬ 
chestrate dalla propaganda e dalla liturgia del regime. Questo mi¬ 
to era percepito come l’immagine di un nume protettore. E sul 
fondo di questa ingenua ma tenace fiducia nella bontà mussoli- 
niana, il mito generò spontanee e superstiziose forme di culto, 
accompagnate da una attesa quasi miracolistica, largamente dif¬ 
fusa fra i ceti popolari. Ciò costituiva, nello stesso tempo, la for¬ 
za e la debolezza del culto mussoliniano. Un nume che si fosse 
rivelato fallibile, attirando sul popolo dei suoi credenti la furia 
distruttrice dei cavalieri dell’Apocalisse, nella specie di sconfitte 


Ivi, b. 223. 

65 Ibid. 

66 Quaderni di «Giustizia e Libertà», n. 6, marzo 1933, p. 103. 


VI. Il «nuovo Dio d’Italia> 


265 


militari, bombardamenti aerei, fame e morte, era destinato ad es¬ 
sere detronizzato e dissacrato dai suoi credenti con la stessa pas¬ 
sione con la quale era stato adorato. Non sappiamo se Mussoli¬ 
ni avesse letto e meditato le riflessioni che Roberto Michels, ispi¬ 
randosi alla sua figura politica, aveva dedicato nel 1927 al pro¬ 
blema dei grandi uomini e al rapporto fra il duce e la massa: 

Nel pretendere troppo da essi, le masse pongono il duce e se stes¬ 
se in gran repentaglio. La fede collettiva ambientale nel duce talora 
può assumere forma spiccatamente mistica. Epperò avvenne che lad¬ 
dove le folle stimavano il duce onnipossente, la fede collettiva crollò, 
non appena un avvenimento naturale qualsiasi smentì la supposta on¬ 
nipotenza. Gli antichi popoli pagani più volte hanno scacciato un ca¬ 
po idolatrato, se questi veniva esautorato, agli occhi dei suoi seguaci, 
dall’eruzione di un vulcano o dallo straripare di un fiume ch’egli si 
era dimostrato incapace di scongiurare.^’ 


6^ R. Michels, Corso di sociologia politica, Milano 1927, pp. 98-99. 




Conclusione 

IL FASCISMO E LA SACRALIZZAZIONE 
DELLA POLITICA 


Noi dobbiamo diventare nuovamente reli¬ 
giosi. La politica deve diventare la nostra re¬ 
ligione; ciò essa può fare però soltanto se noi 
possediamo nella nostra visione del mondo 
qualcosa di supremo, che ci trasformi la po¬ 
litica in religione. 

L. Feuerbach 

L’infermità dei nostri tempi, l’infermità da ri¬ 
sanare, è proprio questa: che non si riesce ad 
infiammarsi per le pure idee come in altri 
tempi per la redenzione cristiana, per la Ra¬ 
gione o per la Libertà; e perciò (né questo di¬ 
co io solo) la crisi salutare della società mo¬ 
derna dovrà essere, presto o tardi, di caratte¬ 
re profondamente religioso. 

B. Croce 

Le ragioni per cui oggigiorno abbiamo nuo¬ 
vamente sentito il bisogno di un rafforza¬ 
mento del mito ci porterebbero troppo lon¬ 
tano, in una diagnosi della cultura moderna. 

F.O. Matthiessen 


I 







r 


Il fascismo fu una nuova religione? Alla fine del nostro viag¬ 
gio, la definizione potrà ancora apparire forse estravagante o as¬ 
surda. Ma essa risulterà probabilmente più plausibile e convin¬ 
cente se collochiamo storicamente il fascismo nel più ampio fe¬ 
nomeno della sacralizzazione della politica nella società moderna. 
Neanche per questo aspetto, infatti, il fascismo è st^to un feno¬ 
meno estraneo e isolato dal mondo politico della modernità. Es¬ 
so appartiene, invece, al rigoglioso e inquietante fenomeno mo¬ 
derno delle religioni laiche, che da oltre due secoli hanno popo¬ 
lato il mondo della politica, suscitando entusiasmi e paure, agi¬ 
tando le masse fra l’orgoglio del fanatismo e la disperazione del¬ 
le persecuzioni, elevando monumenti aU’eterna gloria di terrestri 
semidei e seminando violenza e morte su interi continenti. 

Il declino della supremazia delle religioni tradizionali e la lai¬ 
cizzazione della società e dello Stato non hanno portato, come pre¬ 
vedeva e auspicava il razionalismo laico e scientista, ad una pro¬ 
gressiva scomparsa del «sacro» dalla vita collettiva. Vi è stata, al 
contrario, come mostrano numerose esperienze storiche situate in 
ogni parte del mondo, una frequente trasfusione del «sacro», dal¬ 
le religioni tradizionali ai movimenti politici di massa, sia di destra 
che di sinistra, da cui hanno preso vita nuove religioni secolari. Fin 
dall’epoca della rivoluzione americana, ma soprattutto con la ri¬ 
voluzione francese e la nascita della politica di massa, i confini fra 
politica e religione, mai effettivamente istituiti, si sono spesso con¬ 
fusi: ma ora è stata la politica ad assumere una propria autonoma 
dimensione religiosa, diventando uno dei luoghi principali dove si 
è realizzata la metamorfosi del sacro nel mondo contemporaneo. 

Al processo di autonomizzazione e di laicizzazione del pote¬ 
re politico, si è accompagnato un processo di sacralizzazione del¬ 
la politicai Dalla fine del XVIII secolo, ma soprattutto nel XX 


Per una trattazione complessiva di questi problemi, da un punto di vista 





270 


Il culto del littorio 


secolo, c è stata, cioè, una tendenza della politica a costruire pro¬ 
pri universi simbolici a carattere religioso, spesso assimilando li¬ 
turgia, linguaggio e modello organizzativo della tradizione cri¬ 
stiana, adattandoli ai propri valori secolari, per conferire a que¬ 
sti ultimi un aura sacrale. «Sbaglia il liberalismo — affermava Tho¬ 
mas Mann nelle sue Considerazioni di un impolitico, scritte du¬ 
rante gli anni della Grande guerra - quando crede di poter sce¬ 
verare la religione dalla politica. Senza la religione, la politica, 
quella interna, vale a dire la politica sociale, a lungo andare è im¬ 
possibile, giacché l’uomo è fatto in modo tale che, dopo aver per¬ 
so ogni religione metafisica, traspone il fatto religioso sul piano 
sociale, innalza agli altari la vita sociale»^. Tutte le rivoluzioni mo¬ 
derne sono state creazioni o innovazioni di simboli, miti e riti che, 
con diversa intensità, hanno conferito una potenza numinosa al 
potere politico. Entità della moderna politica di massa — nazio¬ 
ne, razza, classe, Stato, partito o capo - hanno richiesto ed han¬ 
no suscitato atti di devozione totale che erano tipici della devo¬ 
zione religiosa tradizionale. Persino nelle società dove più radi¬ 
cale è stato il processo di laicizzazione o di deliberata scristia¬ 
nizzazione, si sono manifestate queste nuove forme di religiosità 


sociologico, è fondamentale J.-P. Sironneau, Sécularisation et religions politi- 
ques, Mouton 1982; sul rapporto fra la «metamorfosi del sacro» e la moder¬ 
nità, ctr. G. Filoramo, / nuovi movimenti religiosi, Roma-Bari 1986 pp 3-29 
Sui rapporti fra religione e politica, neUa prospettiva della nostra analisi, cfr.' 
in particolare R. Aron, L’oppio degli intellettuali, trad. it., Bologna 1958 (Aron 
ha probabilmente introdotto per primo la definizione di «religione secolare» 
m un articolo del 1943); E.B. Koenker, Secular Salvations, Philadelphia 1964- 
U.h. Apter, Politicai Religion in thè New Nations, in C. Geertz (a cura di) Old 
Societies and New States, London 1963, pp. 57-104; W. Stark, The Sociològy of 
Rehgion, voi I, London 1966; R^E. Richey, D.G. Jones (a cura di), AmeVican 
Ctvtl Rehgion, New York 1974; G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, 
trad. It di L. De Febee Bologna 1975; L. Pellicani, I rivoluzionari di profes- 
sione, Firenze 1975; C. Lane, The Rites ofRulers, Cambridge 1981, pp. 35-44- 
1 Reilgion in Israel, Berkeley 1983, pp. 125- 
1 ^ 0 Politics in thè Modern 
World New York 1983-, Religion Ideology andNationalism, in Europe and Ame¬ 
rica, Jerusalem ,1986; C. Amdsson, L.E. Blomqvist (a cura di), Symbols of 
Power, Stockholm 1987; B. Kapferer, Legends of People Myths of State, Wash¬ 
ington 1988; C. Riviere, Les liturgies politiques, Paris 1988; W. Zelinskv Na- 
tion into State, Chapel Hill 1988. 

^^'’^^^^^^^zioni di un impolitico, trad. it. di M. Marianelli, Bari 

1967, p. 281. 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 


271 


secolare e di misticismo politico. E fra le varie manifestazioni del¬ 
la sacralizzazione della politica nel mondo moderno, il naziona¬ 
lismo è certamente la più vitale e la più universale, una religione 
dotata di un fascino potente, con una straordinaria capacità sin- 
cretica di assimilazione e di metamorfosi, e con una formidabile 
forza di costruzione e di distruzione^ 

La tendenza dei movimenti politici moderni ad assumere 
aspetti religiosi, nell’ideologia, nello stile di vita, nelle attività di 
socializzazione e di integrazione dei loro affiliati, con la formu¬ 
lazione di un insieme di credenze, con il culto fideistico dei capi 
e l’adozione di riti e simboli, fu già notata alla fine del secolo 
scorso nei nascenti partiti di massa, visti come istituzioni che imi¬ 
tavano i movimenti religiosi organizzandosi sul modello della 
chiesa. Gaetano Mosca, in un capitolo dei suoi Elementi di scien¬ 
za politica, analizzò in modo unitario il fenomeno associativo di 
«chiese, partiti e sette», interpretando le manifestazioni religiose 
della politica attraverso le categorie del positivismo, consideran¬ 
dole un prodotto del bisogno di fede delle masse e dell’astuzia 
demagogica dei politici: 

è sempre occorso di mettere a profitto le stesse debolezze umane. Tut¬ 
te le religioni, anche quelle che rinnegano il soprannaturale hanno il 
loro speciale stile declamatorio, con cui si fanno le prediche, i discorsi 
ed i sermoni; tutte hanno per colpire la fantasia il loro rituale e le lo¬ 
ro pompe esteriori; le processioni alcune le fanno coi ceri e salmo¬ 
diando litanie, altre dietro le bandiere rosse al suono della marsiglie¬ 
se o cantando l’inno dei lavoratori.^ 

Nello stesso periodo, la definizione di «nuova religione» fu 
per Gustave Le Bon, Vilfredo Pareto, Georges Sorel la chiave di 
interpretazione del socialismo sulla base di una rivalutazione rea- 


’ Cfr. G.J.H. Hayes, Essays on Nationalism, New York 1928, Id., Nationa- 
lism: A Religion, New York 1960; G.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideo¬ 
logie nazionaliste, trad. it. di P. Negri, Roma-Bari 1982. 

G. Mosca, Elementi di scienza politica, I, Bari 1953 (la prima edizione era 
del 1895), p. 284. Sull’«ampia interscambiabilità del modello religioso col mo¬ 
dello politico», si vedano le osservazioni di P. Pombeni, Il problema del parti¬ 
to politico come soggetto teorico: sull’origine del «Partito moderno». Premesse 
ad una ricerca, in F. Piro, P. Pombeni (a cura di). Movimento operaio e società 
industriale in Europa 1870-1970, Venezia 1981, pp. 65-67. 




272 


Il culto del littorio 


listica della forza insopprimibile dell’irrazionale nella storia e nel¬ 
la politica^. Nel 1920, reduce dal suo viaggio nella Russia bol¬ 
scevica, Bertrand Russell dichiarò che il bolscevismo era una re¬ 
ligione per certi aspetti simile all’Islam^’. Qualche anno dopo, 
John Maynard Keynes riprese e sviluppò questa definizione^; 

Come altre religioni nuove, il leninismo non deriva il suo potere 
dalla moltitudine, ma da una piccola minoranza di convertiti entu¬ 
siasti, a ciascuno dei quali zelo e intolleranza danno forza di un cen¬ 
tinaio di apatici. Come altre religioni nuove, il leninismo è guidato da 
coloro che sanno associare, forse sinceramente, il nuovo spirito con 
la capacità di vedere molto più in là dei loro seguaci: uomini politici 
con una dose per lo meno normale di cinismo politico, capaci di sor¬ 
ridere e di irritarsi, agili sperimentalisti che la religione ha liberato 
dall’obbligo verso la verità e la pietà, ma non ciechi di fronte alla realtà 
dei fatti e alla convenienza, e passibili quindi dell’accusa di ipocrisia 
(benché sia accusa superficiale e inutile quando si tratti di politici, lai¬ 
ci o ecclesiastici che siano). Come altre religioni nuove, sembra to¬ 
gliere ogni colore, ogni allegria o libertà alla vita quotidiana, sosti¬ 
tuendo una monotona tetraggine sul volto dei suoi fedeli. Come altre 
religioni nuove è pervaso da ardore missionario e da ambizioni ecu¬ 
meniche. Ma, dopotutto, dire che il leninismo è la fede di una mino¬ 
ranza di fanatici che perseguitano e fanno proseliti, significa dire, né 
più né meno, che è una religione, e non soltanto un partito e che Le¬ 
nin è un Maometto e non un Bismarck. 

Il XX secolo può esser definito Vepoca della sacralizzazione 
della politica. Infatti questo fenomeno ha raggiunto i momenti di 
massimo dispiegamento ed affermazione con i movimenti totali¬ 
tari nella prima metà del Novecento: 

I dittatori - scriveva Salvemini nel 1932 - abbisognano di miti, 
simboli e cerimonie per irreggimentare, esaltare e spaventare le mol¬ 
titudini e soffocare ogni loro tentativo di pensare. Le cerimonie fan- 


^ Cfr. G. Le Bon, Psychologie du Socialismo, Paris 1898; V. Pareto, / siste¬ 
misocialisti, Torino 1974 (la prima edizione, in due volumi, era del 1902-1903). 

^ B. Russell, Teoria e pratica del bolscevismo, trad. it. di J. Sanders e L. Brec¬ 
cia, Roma 1970, pp. 81-82. 

^ J.M. Keynes, Esortazioni e profezie, trad. it. di S. Boba, Milano 1968, pp. 
229-230. 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 


273 


tasiose e pompose e i riti misteriosi in una lingua strana propria del¬ 
la Chiesa cattolica sono capolavori nel loro genere. E questo model¬ 
lo che i fascisti e i comunisti vanno imitando quando, per mezzo del¬ 
le loro dimostrazioni di massa, fanno appello agli istinti irrazionali 
delle folle.® 

Ciò che caratterizza il totalitarismo rispetto alla tirannia, è sta¬ 
to scritto, è la «sacralizzazione del politico»^. E certamente vero 
che comuniSmo, fascismo e nazismo, hanno dato un impulso de¬ 
cisivo alla sacralizzazione della politica ma non va neppure igno¬ 
rato o trascurato il contributo che alla nascita di nuovi culti se¬ 
colari hanno dato i movimenti democratici. Il caso degli Stati 
Uniti o della Francia repubblicana sono, per questo aspetto, ca¬ 
si altrettanto importanti per lo studio delle religioni secolari. 

La sacralizzazione della politica è dunque un fenomeno mo¬ 
derno, anche se si nutre e si sviluppa assimilando le tradizioni 
delle religioni classiche. Le sue origini, secondo alcuni, possono 
essere attribuite ai conflitti propri della modernità, cioè alle ten¬ 
sioni strutturali inerenti alla società moderna, «tra la crescente 
secolarizzazione da un lato, e la necessità di mantenere un nu¬ 
cleo centrale prescrittivo minimo sufficiente per l’integrazione 
dall’altro». Questa tensione «è la conseguenza della contraddi¬ 
zione tra il carattere espansivo della secolarizzazione e là neces¬ 
sità di mantenere un controllo universalmente accettato senza il 
quale la società cesserebbe di esistere come tale»^®. 

Nella società secolarizzata, le religioni laiche possono essere 
una delle risposte che la società moderna dà alla richiesta di in¬ 
tegrazione attraverso il movimento, il partito, lo Stato o altre pos¬ 
sibili forme di organizzazione e di istituzione, che possono svol¬ 
gere questa funzione integrativa operando come un sistema di 
credenze religiose. In momenti di crisi o di straordinaria tensio- 

* G. Salvemini, Il mito dell’uomo-dio, in «Giustizia e Libertà», marzo 1932. 

^ J. Monnerot, Sociologie du communisme, Paris 1949, p. 380: «Le totalita- 
risme est originai par rapport à la tyrannie en ce qu’il est sacralisation du po- 
litique; il se présente comme religion séculière et conquérante du type ‘islami- 
que’: indistinction du politique, du religieux et de l’économique pouvoir con- 
centré, et d’abord informe». 

G. Germani, Democrazia e autoritarismo nella società moderna, in «Sto¬ 
ria contemporanea», aprile 1980, pp. 177-216. 








274 


Il culto del littorio 


ne la collettività aspira a recuperare un senso totale della vita, co¬ 
me fondamento di una nuova stabilità, aderendo ai movimenti 
politici che promettono di superare il caos in una dimensione più 
alta di ordine comunitario. In tal senso, il fenomeno delle reli¬ 
gioni laiche non va analizzato soltanto come espediente dema¬ 
gogico, ma come espressione sociale di una esigenza collettiva. 

Questa prospettiva è senz’altro utile per spiegare l’origine e la 
funzione di alcuni fenomeni di religiosità laica, ma non è certo l’u¬ 
nica valida per l’interpretazione storica. E ciò soprattutto perché 
la sacralizzazione della politica può avere origini, forme e conse¬ 
guenze molto differenti ed anche opposte, nelle diverse epoche e 
nelle diverse situazioni storiche, culturali e sociali dei paesi in cui 
si manifesta. In una società democratica in crisi, la funzione di ga¬ 
rantire un «nucleo centrale prescrittivo» può essere svolta da una 
religione laica in modo totalmente diverso, per quanto riguarda le 
conseguenze, a seconda che essa si manifesti nelle forme discrete 
e non coercitive della religione civile, tipica delle «società aperte», 
o nelle forme integraliste della religione politica, tipica invece del¬ 
le «società chiuse», quale fu appunto il fascismo. Se la democrazia 
è sempre vulnerabile per la tensione inerente alla società moder¬ 
na, una minaccia per la sua sopravvivenza, quando emerge l’esi¬ 
genza di assicurare un «nucleo centrale prescrittivo», proviene 
dalla presenza di una religione politica piuttosto che da una reli¬ 
gione civile, anche se questa, a sua volta, può assumere aspetti au¬ 
toritari e integralisti, trasformandosi in religione politica. Inoltre, 
le crisi nella società moderna possono favorire la nascita e l’affer¬ 
mazione di religioni laiche ma possono anche essere l’occasione, 
per religioni laiche preesistenti alle situazioni di crisi, di farsi stra¬ 
da ed emergere con successo. Considerate da un punto di vista sto¬ 
rico, le origini delle religioni laiche risalgono al di là delle crisi che 
ne favoriscono l’affermazione, come ha dimostrato George L. 
Mosse nei suoi classici studi sulla «nuova politica» e la nazionaliz¬ 
zazione delle masse. E si può avanzare l’ipotesi che nella sacraliz¬ 
zazione della politica riemergano, come fiumi carsici, antiche cor¬ 
renti mai disseccate di passioni ed entusiasmi messianici. Per que¬ 
sto, l’analisi delle religioni laiche non può limitarsi solo al loro 
aspetto funzionale, ma deve estendersi anche al loro carattere più 
propriamente culturale e storico. Le nuove religioni secolari pos¬ 
sono essere originate, oltre che dalle tensioni di una società in cri¬ 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 


215 


si, da motivazioni culturali profonde, non ultima la vocazione di 
fede e la volontà di potenza, che possono anche coesistere, di chi 
ritiene di possedere la verità, in base alla quale è per lui imperati¬ 
vo missionario agire per cambiare il mondo in cui vive, cambiare 
la natura di uomini e donne, per creare, in una nuova era di sal¬ 
vezza, un «nuovo ordine» e un «uomo nuovo». E questi profeti e 
capi di nuove rehgioni, continuamente generati dal grembo fe¬ 
condo degli intellettuali e dei politici che aspirano a plasmare la 
natura umana secondo i loro modelli, trovano proseliti non solo 
perché sono abili demagoghi esperti nell’arte di sedurre e mani¬ 
polare le masse, ma perché rispondono alle richieste di una società 
assetata di fede e di sicurezza in un momento di crisi, o perché 
esprimono correnti durature e profonde di particolari culture, o 
semplicemente perché soddisfano, come riteneva il Grande In¬ 
quisitore di Dostoevskij, un innato bisogno dell’uomo: 

A chi genufletterci? Non c’è preoccupazione più assillante e più 
tormentosa per l’uomo, non appena rimanga libero, che quella di cer¬ 
carsi al più presto qualcuno innanzi al quale genuflettersi. Ma l’uomo 
pretende di genuflettersi dinanzi a ciò ch’è ormai indiscutibile, tal¬ 
mente indiscutibile che innanzi ad esso tutti gli uomini in coro accon¬ 
sentano a una generale genuflessione. Giacché la preoccupazione di 
queste misere creature non consiste solo nel cercar qualche cosa di 
fronte alla quale io o un altro qualunque possiamo genufletterci, ma nel 
cercare una cosa tale, che anche tutti gli altri credano in essa e vi si ge¬ 
nuflettano, e anzi, più precisamente, tutti quanti insieme. Appunto 
questa esigenza d’una genuflessione in comune è il più gran tormento 
d’ogni uomo preso a sé e dell’umanità nel suo insieme fin dal principio 
dei secoli. Per bisogno di questa generale genuflessione gli uomini si 
son massacrati l’un l’altro a colpi di spada. Si son creati degli dèi e si so¬ 
no sfidati l’un l’altro: «Abbandonate i vostri e venite a genuflettervi di¬ 
nanzi ai nostri: altrimenti, morte a voi e agli dèi vostri». E così avverrà 
fino alla fine del mondo, anche quando saranno scomparsi dal mondo 
gli stessi dèi: non importa, cadranno in ginocchio dinanzi agl’idoli. 

I movimenti come il bolscevismo, il fascismo e il nazismo si 
sono affermati come religioni politiche ed hanno intensificato 


“ F. Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, trad. it. di A. Villa, Milano 1969, 
pp. 403-404. 









276 


Il culto del littorio 


l’aura sacrale che ha sempre circondato il potere, attribuendosi 
la funzione, propria della religione, di definire il significato del¬ 
la vita e il fine ultimo dell’esistenza. Le religioni politiche ripro¬ 
ducono la struttura tipica delle religioni tradizionali, articolata 
nelle dimensioni fondamentali della fede, del mito, del rito e del¬ 
la comunione, e si propongono di realizzare, per mezzo dello Sta¬ 
to o del partito, una «metanoia» della natura umana da cui deve 
sorgere un «uomo nuovo» rigenerato e totalmente integrato nel¬ 
la comunità. Esse sono, per usare la distinzione proposta da Pet- 
tazzoni, «religioni dello Stato», miranti a sostituire nella co¬ 
scienza collettiva le «religioni dell’uomo»^^ La società moderna 
ha fornito, e può ancora fornire, strumenti potenti alle religioni 
politiche per organizzare la vita collettiva come un vasto labora¬ 
torio umano, in cui il partito e lo Stato compiono gli esperimen¬ 
ti per creare r«uomo nuovo», operando sul corpo sociale. 

Gli aspetti del bolscevismo e del nazismo come religioni po¬ 
litiche sono stati già studiati, mentre il fascismo italiano, per que¬ 
sto aspetto, non era stato finora preso in considerazione, se non 
marginalmente. Per esempio, nel suo schizzo di storia dell’«Ita- 
lia religiosa», Raffaele Pettazzoni salta dalla religiosità laica del 
Risorgimento alla religiosità laica della Resistenza ignorando del 
tutto il fascismo, che pure è stato nell’Italia unita, come abbia¬ 
mo visto, l’unica religione secolare istituzionalizzata dallo Stato^^. 
Anche studi comparativi più recenti sulle religioni secolari han¬ 
no trascurato l’analisi della religione politica fascista. Eppure, che 
il fascismo sia stato una religione laica non è scoperta recente e 
non discende soltanto dall’autorappresentazione che i fascisti da¬ 
vano di se stessi: fatto storico, questo, di per sé comunque degno 
di attenzione, se è vero che «l’uomo credendo (non dico cono¬ 
scendo, ma credendo) diversamente, opera diversamente»^"*. Do¬ 
po tutto, non va trascurato il fatto che il fascismo fu il primo espe¬ 
rimento di istituzionalizzazione di una nuova religione laica fat¬ 
to in Europa dai tempi della rivoluzione francese. Fino all’av¬ 
vento del nazismo al potere, l’unica analogia poteva essere fatta 

R. Pettazzoni, Italia religiosa, Bari 1952, pp. 7-8. 

Ivi, pp. 67-81. 

*"* G. Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, Firenze 
1969, voi. II, p. 151. 


277 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 

con l’esperimento bolscevico, che tuttavia, a differenza del fasci¬ 
smo, professava e praticava il materialismo ateo, lo scientismo an¬ 
tireligioso, il mito dell’internazionalismo, e che pur avendo avu¬ 
to, specialmente nei primi anni della rivoluzione, un vistoso fio¬ 
rire di feste e riti di massa, procedeva con minore impegno si¬ 
stematico nella istituzione di un culto collettivo*^. Nonostante la 
nascita del culto di Lenin dopo la sua morte, solo alla fine degli 
anni Venti, e probabilmente anche per suggestione del modello 
italiano, cominciò ad imporsi in Russia il culto della personalità 
dedicato ad un capo vivente*^. 

L’importanza dell’aspetto religioso del fascismo non era sfug¬ 
gita ad alcuni osservatori contemporanei che lo segnalarono come 
una delle caratteristiche più originali del nuovo movimento, anche 
se lo considerarono inizialmente soltanto espressione di una gene¬ 
rica e tradizionale «religione della patria», sia pure in forma più vi¬ 
va ed esaltata; ma vi fu anche chi intuì nel fascismo la natura di una 
nuova religione politica consapevole della sua natura e dei suoi 
obiettivi, e opportunamente richiamò l’attenzione sui miti, i riti e 
i simboli di quella che venne definita «religione fascista»*^. Il fa¬ 
scismo, osservavano nel 1929 due studiosi americani, «possiede i 
caratteri embrionali di una nuova religione. Resta da vedere se es¬ 
si si svilupperanno o meno, ma non v’è dubbio che questo nuovo 
culto ha già una certa presa sul cuore e sull’immaginazione degli 
italiani [...] Il fascismo è una genuina religione e si serve di tutte le 
tecniche di un culto religioso»**. Negli anni Trenta, un osservato¬ 
re francese, simpatizzante del regime, vide nella liturgia politica di 
massa praticata dal regime, la dimostrazione che il fascismo aveva 
dato vita in Italia ad una nuova religione civile*^. 

Le conclusioni a cui siamo giunti attraverso la nostra indagi¬ 
ne ci sembrano confermare l’intuizione di questi osservatori. Il 

Cfr. Lane, The Rites ofRulers cit. 

Cfr. sul culto di Lenin, N. Tumarkin, Lenin Lives!, Cambridge 1983; pel¬ 
le origini del culto di Stalin, cfr. J.L. Weizer, The Cult of Stalin 1929-1939, 
Ph.D., University of Kentucky 1977. 

Cfr. G. Prezzolini, Le Fascisme, Paris 1925, pp. 72-73; H.W. Schneider, 
Making thè Fascist State, New York 1928, pp. 215 sgg.; H.W. Schneider, S.B. 
Clough, Making thè Fascists, Chicago 1929, p. 73. 

Schneider, Clough, Making thè Fascists, cit., p. 73. 

P. Gentizon, Souvenirs sur Mussolini, Roma 1958, p. 225. 


I 






278 


Il culto del littorio 


fascismo al potere istituì una religione laica attraverso la sacra¬ 
lizzazione dello Stato e la diffusione di un culto politico di mas¬ 
sa mirante a realizzare l’ideale del cittadino virile e virtuoso, de¬ 
dito anima e corpo alla nazione. In questa impresa il fascismo 
profuse un considerevole capitale di energie, sottraendole ad al¬ 
tri campi forse più importanti sia per l’interesse del regime che 
per quello della popolazione, al fine di propagandare la sua dot¬ 
trina e suscitare nelle masse la fede nei suoi dogmi, l’obbedien¬ 
za ai suoi comandamenti, l’assimilazione della sua etica e del suo 
stile di vita. Un impegno nella organizzazione dei riti di massa, 
che si dispiega, con ossessiva determinazione, nell’arco di un ven¬ 
tennio senza arrestarsi neppure mentre il regime viene scrollato 
alle fondamenta dalle sconfitte militari, è già di per sé un pro¬ 
blema che merita riflessione. 

Il tema della religione fascista non si esaurisce nella rappre¬ 
sentazione liturgica, che ne è soltanto una componente, anche se 
la più spettacolare. Considerare il simbolismo e il rituale soltan¬ 
to per gli aspetti estetici e propagandistici, prescindendo dal si¬ 
stema di credenze e di valori, dalla teologia politica che lo ispi¬ 
rava e che esso rappresentava, darebbe una visione parziale e di¬ 
storta del rituale stesso e, di conseguenza, porterebbe ad una va¬ 
lutazione scorretta del suo significato storico. Riti e simboli sono 
presenti in tutti i movimenti politici e non è certo arduo, avva¬ 
lendosi degli studi della sociologia e dell’antropologia, stabilire 
analogie fra le liturgie delle differenti religioni civili e politiche, 
individuando comparativamente natura e funzioni comuni, al di 
là della diversità delle credenze^". Come abbiamo cercato di di¬ 
mostrare con la nostra indagine, riteniamo che il culto fascista 
non sia riducibile esclusivamente ad un problema di propagan¬ 
da, di estetica delle celebrazioni, di spettacoli per divertire e in- 


Non volendo inoltrarci, dato il carattere di questo saggio, in una analisi 
teorica del problema del simbolismo e della liturgia politica, rinviamo volen¬ 
tieri, per questi aspetti, agli studi più recenti che abbiamo avuto particolar¬ 
mente presenti per il nostro lavoro: M. Edelman, Gli usi simbolici della politi¬ 
ca, trad. it. di R. Foglia Manzillo e A. Piazza, Napoli 1987 (per una analisi cri¬ 
tica della teoria di Edelman e, più in generale, del problema del simbolismo 
politico, cfr. G. Simboli e politica, Napoli 1991); D.I. Keitzer, Riti e sim¬ 
boli del potere, trad. it. di V. Giacopini, Roma-Bari 1989; Rivière, Les liturgies 
politiques cit. 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 


279 


gannare le masse, e neppure può esser posto soltanto in termini 
di sincerità o di simulazione della fede. Il problema è più serio e 
anche più drammatico. I riti e le feste di massa volevano educa¬ 
re per convertire, investendo i valori fondamentali e i fini ultimi 
dell’esistenza. La funzione della liturgia di massa andava oltre l’a¬ 
spetto ludico o demagogico, che pure era presente: mirava a con¬ 
quistare e plasmare la coscienza morale, la mentalità, i costumi 
della gente, e persino i suoi più intimi sentimenti sulla vita e sul¬ 
la morte. Nella socializzazione di una religione politica capace di 
cambiare il carattere degli italiani, trasformandoli in una comu¬ 
nità di credenti nel culto del littorio, i fascisti vedevano la prin¬ 
cipale condizione per gettare le fondamenta di uno Stato desti¬ 
nato a durare nel tempo e a lasciare nei secoli l’impronta di una 
«nuova civiltà». 

L’esperimento totalitario della religione politica fascista è fal¬ 
lito fra le rovine di una disastrosa sconfitta militare, in una guer¬ 
ra che fascismo e antifascismo vissero e combatterono come 
«guerra di religione». Probabilmente le cause del fallimento era¬ 
no nella natura stessa dell’esperimento, condotto nell’euforia di 
un volontarismo che ritenne duraturo ciò che era effimero, scam¬ 
biando le emozioni per convinzioni, l’entusiasmo del successo 
per confessione di fede, la massa fisica delle adunate oceaniche 
per il corpo cosciente della nazione. Ma lo stesso è accaduto per 
altri esperimenti di religioni secolari. Il fallimento, tuttavia, non 
consente di dichiarare la marginalità storica del fenomeno, e la 
scarsa rilevanza del suo significato per la comprensione della no¬ 
stra epoca. Leggere la storia a ritroso, guidati dal senno del poi, 
non ci sembra il metodo più adatto per lo studio del passato, e 
ancor meno per restituire drammaticità ad una esperienza poli¬ 
tica in cui furono coinvolti milioni di uomini e donne, governati 
e governanti, cui non era concesso di conoscere in anticipo la fi¬ 
ne della storia di cui erano attori. 

C’è un altro quesito ineludibile che si trova di fronte chi stu¬ 
dia le religioni secolari, e che ha probabilmente accompagnato il 
lettore in questo viaggio. Erano la teologia e la liturgia del fasci¬ 
smo l’espressione di una fede genuina, di una sincerità di con¬ 
vinzioni, oppure ci troviamo di fronte ad una mera manifesta¬ 
zione della demagogia, con tutto il suo sofisticato apparato di ar¬ 
ti subdole e suadenti messe in atto per ingannare e manipolare 





280 


Il culto del littorio 


le masse? Non è forse il culto delle religioni secolari un fastoso 
cerimoniale, dietro il quale si nasconde, brutale nella sua nudità, 
la volontà di potere dei governanti e la spregiudicata arte dei per¬ 
suasori occulti o palesi? A questa domanda non ci sentiamo di 
dare una risposta univoca. Non ce culto politico senza orche¬ 
strazione dei riti e dei simboli. Ogni liturgia predispone, con l’ar¬ 
tificio della regia, tutto quanto reputa utile per suscitare forti 
emozioni nei partecipanti e negli spettatori. Anche il culto più 
austero affida all’artificio di riti e simboli essenziali l’espressione 
della propria devozione verso il sacro. Ma accanto all’artificio, 
mescolati con esso, operano la spontaneità e l’entusiasmo del cre¬ 
dente convinto di possedere la verità. Il culto pubblico è una te¬ 
stimonianza di fede praticata anche attraverso l’artificio della 
propaganda. Per il credente, la propaganda non solo non è atto 
riprovevole, da preparare nell’ombra e praticare con la simula¬ 
zione, ma è anzi teorizzata e sublimata in piena luce, come atti¬ 
vità coerente con la professione della fede. La propagazione del¬ 
la fede è dovere del credente per conquistare conversioni e non 
solo adesioni contingenti. 

Affermazioni generali sulla sincerità e sulla simulazione della 
fede nelle religioni secolari - ma il problema sarebbe poi diver¬ 
so per altri tipi di religione? - spesso attingono la loro pretesa di 
verità più dai pregiudizi sulla natura dell’uomo che da attendi¬ 
bili e verificabili conoscenze di fatto. Il fallimento delle religioni 
secolari ha rivelato finora che esse sono fragili, ma non dimostra 
che siano sorte e si siano fondate solo sulla malafede, la menzo¬ 
gna, il calcolo politico e la demagogia come pure non consente 
di pensare che le fonti che le hanno generate si siano definitiva¬ 
mente esaurite. Sintomi recenti lascerebbero credere il contrario, 
inducendo alcuni studiosi a parlare di un processo di risacraliz¬ 
zazione della politica in corso, attraverso una nuova politicizza¬ 
zione delle religioni tradizionali e una nuova «religionizzazione» 
della politica^b II problema della sincerità della fede rimane co¬ 
munque aperto ad ogni verifica adeguata e approfondita. Dopo 
le esperienze delle religioni politiche del XX secolo, tutt’altro che 
esaurite nonostante i crolli fragorosi degli ultimi tempi, bisogna 


Cfr. J.A. Beckford, T. Luckmann (a cura di), The Changing Face of Re- 
ligion, London 1991, pp. 13-14. 


281 


Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 

forse rassegnarsi a riconoscere che persino l’assurdo e il disuma¬ 
no possono suscitare entusiasmi di fede e credenze religiose. Il 
cinismo può convivere con il fanatismo. 

Al di là del problema della sincerità della fede, c’è, nella sua 
indiscutibile realtà storica, il fenomeno della sacralizzazione del¬ 
la politica, che solo ora comincia ad essere affrontato con spiri¬ 
to scientifico. Negli ultimi anni, molti progressi sono stati fatti 
per l’analisi della dimensione religiosa della politica nella società 
moderna, soprattutto però nel campo della sociologia, mentre 
siamo ancora agli inizi di una storia delle religioni secolari. La 
teologia politica del Novecento, osservava Clifford Geertz alcu¬ 
ni anni fa, «non è stata scritta, benché qua e là vi siano stati dei 
fugaci sforzi. Ma esiste - o per meglio dire, ne esistono varie for¬ 
me — e finché non verrà compresa almeno quanto quella dei Tu- 
dor, dei Majapahit o degli Alawiti, una gran parte della vita pub¬ 
blica dei nostri giorni resterà oscura. Lo straordinario non è usci¬ 
to dalla politica moderna, nonostante tutto il banale che vi può 
essere entrato: il potere non solo intossica ancora, esalta anco- 
ra»22. Ed è alla storia della teologia politica del Novecento, che 
la ricerca che qui si interrompe ha voluto dare un contributo. 


22 C. Geertz, Centri, re e carisma: riflessioni sul simbolismo del potere, in 
Id., Antropologia interpretativa, trad. it. di L. Leonini, Bologna 1988, p. 181. 







INDICE DEI NOME 


Acerbo, Giacomo, 76, 83. 

Adamson, W.L., 23n. 

Alberti, A.C., 182n. 

Alfieri, Dino, 190 e n, 191 e n, 192n, 
196n. 

Alighieri, Dante, 10, 43, 246-7. 
Alvaro, Corrado, 257, 259n. 

Alvisi, Giacomo, 15n. 

Amato, Orazio, 201n. 

Amendola, Giovanni, 85 e n. 
Andreotti, L., 190n, 197n, 200n, 
206n. 

Anzilotti, Antonio, 8n. 

Appelius, Mario, 103n. 

Apter, D.E., 270n. 

Aron, R., 270n. 

Arpinati, Leandro, 158. 

Arvidsson, C., 27On. 

Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottavia¬ 
no, 131-2, 219n, 229, 231-2,242. 

Balbo, Italo, 42n, 44 e n, 247. 

Banfi, Gian Luigi, 228n, 229n, 23 In. 
Bardi, Pietro Maria, 113n, 193n. 
Battoli, Amerigo, 190. 

Bartoli, M., 15n. 

Bastianini, Giuseppe, 82n, 247. 
Battaglia, Felice, 105n. 

Battisti, Cesare, 199, 242. 

Bazzani, Cesare, 224n. 

Becker, A., 3In. 

Beckford, J.A., 280n. 

Bedeschi, L., 126n. 


Belgiojoso, Ludovico Barbiano di, 
228n,229n,231n. 

Benzi, Fabio, 185n, 224n. 

Bernasconi, Umberto, 172n. 

Bertoni, A., 29n. 

Bertoni Jovine, D., 14n, 17n. 

Betri, M.L., 243n. 

Bianchi, Michele, 82n, 84 e n. 

Bianchi Mina, Ivan, 217n. 

Binni, W., 276n. 

Biondi, D., 236n. 

Blasetti, Alessandro, 192n. 

Blomqvist, L.E., 270n. 

Boba, S., 272n. 

Bodrero, Emilio, 91, 139. 
Boncompagni Ludovisi, Francesco, 
224n. 

Bonetta, G., 15n. 

Boni, Giacomo, 77. 

Borghi, L., 14n. 

Borg, A., 3 In. 

Bortolotto, Guido, 120n, 147n. 
Bottai, Giuseppe, 38,39n, 50 e n, 63n, 
93, 99 e n, 106 e n, 107 e n, 125 e 
n, 132 e n, 146, 165 e n, 173 e n, 
178 e n, 182n, 208 e n, 233, 246, 
247 e n, 249. 

Bouthoul, G., 28n. 

Bracher, K.D., 240n. 

Bragaglia, Anton Giulio, 182n. 
Brasini, Armando, 224n. 

Braun, E., 185n. 

Breccia, L., 272n. 


* Per la frequenza con cui compare, non è stato indicizzato il nome di Be¬ 
nito Mussolini. 






286 


Indice dei nomi 


Buonarroti, Filippo, 7. 

Burckhardt, Jacob, V. 

Burzio, Filippo, 53n. 

Cagli, Corrado, 179. 

Calvesi, M., 221 n. 

Camesasca, E., 185n. 

Cammarata, Angelo, 244n. 

Campigli, Massimo, 187n. 

Canal, C., 3In. 

Cannistraro, P.V., XI, 241n. 
Cantalupo, Roberto, 244n. 
Cantimori, D., 7n. 

Carlini, Armando, 121 e n. 
Carminati, Antonio, 224n, 225. 
Carrà, Carlo, 187n, 237. 

Casati, Alessandro, 14. 

Cascella, Basilio, 181 e n. 

Castelli Guaccero, Michele, 263. 
Catalano, F., 9n. 

Cataldi ViUari, F., 6n. 

Cavallera, Harvé A., 102n. 

Cavalli, L., 238n. 

Cavallo, P., 184n. 

Cavara, Otello, 32n, 53n. 

Cavour, Camillo Benso, conte di, 20, 
184,245. 

Cecchi, Emilio, 231 e n. 

Cesare, Caio Giulio, 132, 184, 232, 
242-3,245. 

Chabod, F., 14n, 22n. 

Charles-Roux, Frangois, 67n. 
Chiappelli, Alessandro, 2 Un. 
Chiosso, G., lOOn. 

Chiurco, Giorgio Alberto, 67n. 
Ciaceri, Emanuele, 130n. 

Cianetti, Tullio, 246-7, 248n. 
Ciarlantini, Franco, 130n, 2 Un, 
244n. 

Cicala, V., 19n. 

Cini, V., 228n, 229n. 

Ciocca, G., 23 In. 

Ciucci, G., 212n, 220n. 

Clough, S.B., 277n. 

Colarizi, S., 261n. 

Comba, Augusto, 9n. 

Conti, G., XI, 16n. 

Coppino, Michele, 14. 


Cordova, F., 241n. 

Corgnati, M., 19n. 

Corneille, Pierre, 183. 

Corradini, Enrico, 25, 26 e n. 
Corridoni, Filippo, 43, 242. 
Costamagna, Carlo, 143n, 145 e n, 
249 e n. 

Coyer, Gabriel-Fran^ois, 5. 
Cremonesi, Filippo, 82n. 

Crescini, G., 223. 

Cresti, C., 32n, 192n, 212n, 220n. 
Crispi, Francesco, 21, 242. 

Croce, Benedetto, 23, 24n, 267. 
Curcio, Carlo, 144, 145n. 

Czerkl, E., 27n. 

D’Annunzio, Gabriele, 30 e n, 199 
238. 

D’Aroma, Nino, 52n. 

David, Jacques-Louis, 150. 

D’Azeglio, Massimo, 12. 

De Benedetti, M., 217n. 

De Bono, Emilio, 82n. 

De Felice, L., 6n, 270n. 

De Felice, R., 7n, 28n, 3 In, 125n, 
137n, 149n, 184n, 21 In, 236n, 
238n,240n, 248n, 259n. 

De Francisci, Pietro, 130n. 

De Grazia, V., 182n. 

Delcroix, Carlo, 72. 

Del Debbio, Enrico, 226-7. 

De Leva, Carlo, 120n. 

Del Noce, A., 102n. 

De Luca, Giuseppe, 125n. 

De Mattei, Rodolfo, 145 e n. 

De Michelis, Giacinto, 4In. 

Denis, Maurice, 202. 

De Nolva, Raul, 151 e n, 251n. 

De Renzi, Mario, 193. 

De Ruggiero, Guido, 28n. 

De Sanctis, Francesco, 9n, 12 e n, 13 
e n, 15. 

De Seta, C., 180n. 

De Stefani, Alberto, 76. 

Dinaie, Ottavio, 154n, 190n, 207n, 
21 In, 242n. 

Don-Yehiya, E., 270n. 

Dostoevskij, Fiodor, 275 e n. 


Indice dei nomi 


287 


Dozon Daverio, A., 28n. 

Ducati, Pericle, 78n. 

Durkheim, E., 28n, 37 e n. 

Edehnan, M., 278n. 

Eliade, M., 134n, 135 e n. 

Ercole, Francesco, 244n. 

Ernesti, G., 212n. 

Estermann-Juchler, M., 212n, 213n. 
Etlin, R.A.,212n,217n, 220n. 

Evola, Julius, 128 e n. 

Falchi, Luigi, 77n. 

Fanchiotti, Edoardo, 16n. 

Fantini, Oddone, 11 In. 

Farinacci, Roberto, 109, 184, 247. 
Fasani, R., 29n. 

Fatica, O., 27n. 

Fava, A., 62n. 

Fazio-AUmayer, Vito, 27n. 

Fedel, G., 278n. 

Fedele, Pietro, 89n. 

Ferrara, G., 29n. 

Ferrara, P., XI, 15n, 17n, 158n, 228n. 
Ferretti, Giuseppe, lOn. 

Feuerbach, Ludwig, 267. 

Filoramo, G., 270n. 

Fincardi, M., 42n. 

Finer, M., 152n. 

Finzi, Aldo, 46, 144n. 

Fioravanti, G., 190n, 196n, 219n. 
Fiorentino, C.M., XI. 

Foglia ManziUo, R., 278n. 

Fogu, C., XI. 

Forti, Raul, 42n. 

Fortunato, Giustino, 250 e n. 
Foschini, Arnaldo, 226-7. 

Fraddosio, M., XI. 

Frampton, K., 217n. 

Freddi, Luigi, 50n, 82n, 190n. 

Funi, Achille, 187n, 190. 

Gamberini, Guido, 99n, 113n. 
Gargano, Francesco, 203n, 204n, 
206n. 

Garibaldi, Giuseppe, 20, 43, 160, 
199, 242,245. 

Garibaldi, Peppino, 71n. 


Garibaldi, Sante, 7 In. 

Garin, E., 227n. 

Garin, M., 6n. 

Gaspari, O., 259n. 

Gatto, Salvatore, 103 en, 165n, 167n. 
Geertz, C., iXn, 270n, 281 e n. 
Gentile, E., lOn, 25n, 3In, 37n, lOOn, 
102n, 125n, 130n, 144n, 236n, 
237n, 238n,246n. 

Gentile, Giovanni, 11, 23, 62, 101, 
102 e n, 104,120 e n, 128 e n, 129, 
144 e n, 165, 166n, 167, 246 e n. 
Gentizon, Paul, 277n. 

Germani, G., 273n. 

Ghedini, Giuseppe, 42n. 

Ghirardo, D.Y., 190n, 212n, 217n. 
Giacopini, V., 278n. 

Giampaoli, Mario, 104 e n. 

Giani, Niccolò, 243. 

Giannetto, M., XI. 

Giansardi, pittore, 49. 

Gide, André, 202. 

Giglioli, Giulio Quirino, 131. 
Gioberti, Vincenzo, 8, 229. 

Giolitti, Giovanni, 193. 

Giordani, Igino, 126n. 

Giorgetta, A., 180n. 

Girard, R., 27n. 

Giuliano, Balbino, lOln, 104 e n, 105, 
181n. 

Giunta, Francesco, 82n. 

Giuntini, S., 15n, 16n. 

Giuriati, Giovanni, 110, 246 e n, 
247n. 

Goglia, L., 236n, 240n. 

Golomstock, L, 180n. 

Gotta, Salvatore, 179n. 

Gradi, M., 238n. 

Grandi, Dino, 247. 

Grandi, T., 9n. 

Gravelli, Asvero, 49n, 242. 

Gregory, T., 227n. 

Guerri, G.B., 247n. 

Guerrini, G., 231, 232n. 
Guicciardini, Francesco, 12. 

Guidoni, E., 227n, 228n, 229n, 23 In. 
Guyau, Jean-Marie, 24. 




288 


Indice dei nomi 


Harten, J., 185n. 

Hasler, A.B., 236n, 242n. 

Hayes, GJ.H., 27In. 

Hitler, Adolf, 170, 236, 238 e n. 
Horn, W., 238n. 

Hunt, L., 6n. 

Ilari, V., 16n. 

Imbriani, A.M., 236n. 

Isola, G., 19n. 

Isnenghi, M., 62n. 

Izzo Agnetti, M.L., 6n, 147n. 

Jannelli, Mario, 168n. 

Jones, D.G., 270n. 

Kapferer, R., 270n. 

Kertzer, D.I., 278n. 

Keynes, John Maynard, 272 e n. 
Koenker, E.B., 270n. 

Kostof, S., 13In. 

Labanca, N., 17n. 

Lanaro, S., 22n. 

Lane, C., 270n, 277n. 

Lanzillo, Agostino, 29 e n. 

La Radula, Ernesto, 231, 232n. 

Le Bon, Gustave, 146 e n, 149n, 271, 
272n. 

Le Corbusier {pseud. di Charles- 
Édouard Jeanneret), 202. 

Ledeen, M.A., 3 In. 

Lenin {pseud. di Vladimir Il’ic Ul’ja- 
nov), 44, 272, 277 e n. 

Leonardi, Giuseppe, 42n. 

Leoni, Diego, 32n, 62n. 

Leonini, L., 281n. 

Leopardi, Giacomo, 3, 276n. 

Lepre, A., 261n. 

Libera, Adalberto, 190, 193, 196n, 
200,213. 

Liberati Silverio, A.M., 132n. 
Liebman, C.S., 270n. 

Lingeri, Pietro, 224n, 225. 

Lisanti, L., xi. 

Lloyd Warner, W., 3In. 

Lolini, Ettore, 98 e n. 

Lombardo Radice, Giuseppe, 23 e n. 


Longanesi, Leo, 190, 192n, 199. 
Luckmann, T., 280n. 

Ludwig, Emil, 134n, 143n, 149n, 
150n, 164n, 212n. 

Lupi, Dario, 60n, 61 e n, 62 e n, 97, 
98n. 

Lux, S., 227n, 228n. 

Maccari, Mino, 190. 

Maccaroni, C.R., 159n. 

Machiavelli, Niccolò, 242, 249n. 
Maffi, E., 209n. 

Maffi, Q., 209n. 

Malatesta, Errico, 3. 

Mandel, Roberto Giuseppe, 60n. 
Mann, Thomas, 270 e n. 

Mannucci, E.J., 6n. 

Mantoni, A., 23 In. 

Maraviglia, Maurizio, 108n. 
Marchesini, D., 146n, 243n. 

Mariani, Felice, 17n. 

Mariani, R., 216. 

Marianelli, M., 270n. 

Marinelli, Giacomo, 82n, 192n, 203n, 
224n. 

Marinetti, Filippo Tommaso, 29 e n, 
193n. 

Marini, G.F., 61n. 

Marini, Marino, 190, 197. 

Marpicati, Arturo, 116 e n. 
Martignetti, M., 112n. 

Marx, Karl, 44. 

Masi, A., 125n, 165n. 

Masi, Giorgio, lOOn. 

Mathiez, A., 37 e n, 38n, 166. 
Matteotti, Giacomo, 86, 252. 
Matthiessen, F.O., 267. 

Mazzatosta, M.T., 62n, 113n, 256n, 
261n. 

Mazzini, Giuseppe, 8, 9 e n, 10, Ile 
n, 13,21,30, 39, 113,242,245. 
Mcintyre, C., 3 In. 

Melchiori, Alessandro, 209n. 

Mellini, G., 19n. 

Melograni, P., 236n. 

Mercante, L., 180n. 

Menano, Francesco, 48n, 50n. 

Merkl, P.M., 270n. 


Indice dei nomi 


289 


Michelet, Jules, 149. 

Michels, Roberto, 147 e n, 265 e n. 
Millon, H.A., 13In. 

Minucci, Gaetano, 213. 

Misciattelli, Pietro, 98n. 

Missori, M., XI, 112n. 

Mola, A.M., 14n. 

Momigliano, E., 127n. 

Monnerot, J., 273n. 

Montanelli, S., 28n. 

Monteleone, R., 3In. 

Monti, Antonio, 168n, 190 e n, 200n. 
Monticone, A., 62n. 

Morbiducci, Publio, 133. 

Moro, R., 125n, 126n. 

Morpurgo Vittorio, 227, 254. 

Mosca, Gaetano, 271 e n. 

Mosillo, C., XI. 

Mosse, G.L., XI, 6n, 22n, 29n, 30n, 
31n, 61n, 150n, 157n,270n,271n, 
274. 

Murri, Romolo, 100 e n, 101. 
Mussolini, Arnaldo, 162n, 243. 

Napoleone I, imperatore, 184, 242. 
Negri, P., 30n, 61n, 182n, 271n. 

Neri, Giovanni, 144n. 

Nicolai, Ranieri, 160n. 

Nietzsche, Friedrich, 24, 121. 
Nochlin, L., 13 In. 

Nuti, F., XI. 

Orano, Paolo, 106 e n, 244 e n. 
Oriani, Alfredo, 242. 

Orlow, D., 238n. 

Ostenc, M., 243n. 

Paóni, Roberto, 207n. 

Padellato, Nazzareno, 107n, 135n, 
148n, 164n. 

Pagano, Giuseppe, 180 e n, 212. 
Pagliaro, Antonio, 124n, 212n. 
Palanti, Mario, 213 e n, 214, 222. 
Panunzio, Sergio, 29 e n. 

Pareto, Vilfredo, 271, 272n. 

Parti, Ferruccio, 252n. 

Passerini, L., 236n, 257n. 

Pavese, Roberto, 173n. 


Pedrazza, Piero, 103n. 

Pellicani, L., 270n. 

Pellizzi, Camillo, 41 e n, 46n, 105, 
106n, 146 e n, 239 e n. 

Peressutti, Enrico, 229n, 23 In. 
Petrosino, A.C., 261n. 

Petersen, J., 236n. 

Pettazzoni, Raffaele, V, 276 e n. 
Piacentini, Marcello, 215, 224n. 
Piazza, A., 278n. 

Picco, L, 23n. 

Piccoli, Valentino, 179 e n. 

Pini, Giorgio, 174n, 245n. 

Pintor, Giaime, 170 e n. 

Pio XI, 127,221. 

Piro, F.,271n. 

Platone, 242. 

Poetter, J., 185n. 

Pois, R.A., 157n. 

Poletti, R., 217n. 

Poli, F., 19n. 

Pombeni, P., llln, 241n, 271n. 

Ponti, Gio, 212 e n, 229n. 

Pontiggia, E., 185n, 213n. 

Prampolini, Enrico, 190. 

Prélot, Marcel, 93. 

Prezzolini, Giuseppe, 23 e n, 24n, 
28n, 32n, 237 e n, 277n. 

Pucci, G., 117n. 

Quilici, L., 132n. 

Racine, Jean, 183. 

Rambelli, Damiano, 190, 197. 

Ray, S.W., 39n. 

Ricci, Corrado, 224n. 

Ricci, Renato, 159. 

Richey, R.E., 270n. 

Ricotti, M., XI. 

Rivière, C., 270n, 278n. 

Rivoire, Mario, 17 In, 239n. 
Robespierre, Maximilien Francois 
Marie Isidore de, 120. 

Rocco, Alfredo, 106, 108, 109n. 
Rogers, Ernesto, 229n, 23 In. 
Romano, F., XI. 

Romano, Mario, 231, 232n. 

Romano, Ruggero, 74. 





290 


Indice dei nomi 


Romolo, 245. 

Rosselli, Carlo, 28 e n. 

Rossi, M., 128n. 

Rossi Merighi, Amalia, XI. 

Rosso di San Secondo, Pier Luigi Ma¬ 
ria, 181 e n. 

Rousseau, Jean-Jacques, 5, 6 e n, 105 
e n, 149-50, 166. 

Russell, Bertrand, 272 e n. 

Russo, L., 12n, 13n. 

Saba-Sardi, F., 157n. 

Saliva, Ernesto, 224n, 225. 

Salvemini, Gaetano, 237, 272, 273n. 
Sanders, J., 272n. 

Sapori, Francesco, 182n, 215n. 
Sarasini, P., 3In. 

Sarfatti, Margherita G., 76, 77n, 175, 
189n, 190 e n, 196n, 203 e n, 198- 
199,211 en. 

Sarno, A., 143n. 

Scaligero, Massimo, 135n 162n. 
Schiassi, Natale, 263. 

Schnapp, J.T., 190n, 194n. 

Schneider, H.W., 152n, 277n. 
Schumacher, T.L., 212n, 217n. 
Schweitzer, A., 238n. 

Scoppola, P., 127n. 

Scorza, Carlo, 47, 109 e n, 117-8. 
Sebastiani, Osvaldo, 24In. 

Serri, M., 170n. 

Setta, S., 159n, 241n. 

Settembrini, Luigi, 9n. 

Settembrini, D., 28n. 

Shipley, R., 31n. 

Sironi, Mario, 184, 185 e n, 187 e n, 
188-9, 190n, 196 e n, 224 e n, 225. 
Sironneau, J.-P., 270n. 

Slataper, Scipio, 28. 

Smart, N., 270n. 

Sobrero, Cesare, 89n. 

Socrate, 242. 

Soffici, Ardengo, 180n. 

Sorel, Georges, 143 e n, 271. 

Speer, Albert, 209 e n. 

Spinoza, Baruch, 242. 


Staderini, A., 30n. 

Stalin (pseud. di Josif Vissarionovic 
Dzvgasvih), 149, 236, 277n. 
Starace, Achille, 110, 162, 184, 170, 
191n, 203n, 206-7, 208n, 219n, 
241 e n, 249, 253. 

Starle, W., 270n. 

Strappini, L., 26n. 

Sturzo, Luigi, 126 e n. 

Suardo, Giacomo, 90n. 

Susmel, D., 83n, 95n, 144n, 177n. 
Susmel, E., 83n, 95n, 144n, 177n. 

Taddeini, O.I., 180n. 

Talmon, J.L., 6n, 147n. 

Tanzarella, E., XI. 

Tartaro, A., 227n. 

Teilhard de Chardin, P., 28n. 
Terragni, Giuseppe, 190, 198, 212, 
217 e n, 219, 224 e n, 225. 
Themelly, M., 9n. 

Tobia, B., 18n, 19n, 22n. 

Tornasi, T., 14n. 

Toni, Alceo, 158n, 159n, 165n. 
Torelli, Luigi, 19. 

Tumarkin, N., 277n. 

Turati, Augusto, 109-10,239,241 e n. 

Umberto I, 18-9. 

Usellini, Gianfilippo, 207 e n. 

Vacca, V., 134n. 

Valente, Antonio, 190, 200, 212. 
Valeri, N., 3 In. 

Valéry, Paul, 202. 

Valiani, L., 240n. 

Venturoli, M., 18n. 

Verdi, Alberto, 79. 

Verucci, G., 14n. 

Vesser, R., 130n. 

Vietti, Luigi, 224n, 225. 

Villa, A., 275n. 

Visconti di Modrone, Marcello, 219n. 
Visintin, A., 17n. 

Vittorio Emanuele II, 18-9, 22. 
Vittorio Emanuele IH, 79. 


Indice dei nomi 


291 


Volpi, C., 256n, 261n. 

Volt Fani Ciotti, Vincenzo, 150n. 

Weber, M., 238n. 

Weizer, J.L., 277n. 

Wildt, Adolfo, 187n. 

Wohl, R., 28n. 


Zadra, C., 32n, 62n. 

Zama, Piero, 47n. 

Zani, L., 7 In. 

Zapponi, Ascanio, 183n. 

Zapponi, N., XI, 209n. 

Zelinsky, W., 270n. 

Zunino, P.G., lOOn, 125n, 157n, 
166n. 




INDICE DEL VOLUME 


Premessa V 

Ringraziamenti XI 


Introduzione. Alla ricerca di una religione civile per la 

Terza Italia 3 

Religioni civili del Risorgimento, p. 7 - Lo Stato senza anima, p. 9 - 
Come fare gli italiani?, p. 11 - Liturgie del cordoglio, p. 17 - Anta¬ 
gonismo e fragilità dei culti nazionali, p. 20 - La religione dei colti, 
p. 23 - Una luce dall’Oriente, p. 25 - La consacrazione del sangue, 
p. 27 

1. La «santa milizia» 35 

Le origini del culto fascista, p. 37 -1 crociati della nazione, p. 41 - 

I riti della comunione squadrista, p. 44 - La sagra della rinascita, p. 

50 - Una religione politica al potere, p. 53 

IL La patria in camicia nera 55 

II culto della bandiera, p. 59 - Feste dell’unità nazionale, p. 63 - La 
fascistizzazione del culto della patria, p. 66 - Il simbolo della nuova 
era, p. 74 - I riti della rivoluzione, p. 80 - Il calendario del regime, 
p. 89 

IH. L’«arcangelo mondano» 93 

La religione rivelata, p. 96 - Una teologia politica per lo Stato nuo¬ 
vo, p. 99 - Il «vero paradiso», p. 104 - L’ordine militare religioso, 
p. 108 - In principio è la fede, p. Ili - Il custode della fiamma sa¬ 
cra, p. 115 - Il fascio e la croce, p. 120 - I romani della modernità, 
p. 129 




294 


Indice del volume 


IV. Liturgia deir«armonico collettivo» 139 

Miti politici e politica dei miti, p. 142 -1 tralignati discepoli di Rous¬ 
seau, p. 148 - Riti della comunione di massa, p. 151 - L’italiano nuo¬ 
vo per la nuova civiltà, p. 161 

V. I templi della fede 175 

L’artista militante per r«armonico collettivo», p. 178 - L’epopea 
della rivoluzione, p. 189 - Pellegrinaggi al tempio, p. 202 - Eterna¬ 
re il «tempo di Mussolini», p. 209 

VI. Il «nuovo Dio d’Italia» 233 

Il mito e il culto, p. 235 - Il culto del capo, p. 240 - Il duce e i ge¬ 
rarchi, p. 245 - La fede della gente comune, p. 250 - Il nume pro¬ 
tettore, p. 256 

Conclusione. Il fascismo e la sacralizzazione della politica 267 


Indice dei nomi 


285 


I